di Tommaso Ariemma
Pubblichiamo l’introduzione del saggio di Tommaso Ariemma Il mondo dopo la fine del mondo. Facebook, l’arte contemporanea, la filosofia, et al./edizioni, Milano 2012, pp. 116, € 11
1964, l’anno in cui ci si rese conto che il mondo era finito e altri mondi avevano preso vita
I Beatles arrivano per la prima volta in America. Di lì a poco, le rivolte nei campus universitari avrebbero scosso tutti. È il 1964, e “l’estate della libertà” avrebbe scritto una pagina della storia dei diritti civili. È un anno di inizi, di inneschi.
Ma è anche l’anno in cui viene pubblicato il libro di Marshall McLuhan Understanding Media: The Extensions of Man (in Italia tradotto con il titolo fuorviante Gli strumenti del comunicare), destinato ad avere un’influenza planetaria sul nostro modo di considerare i mass media.
Nel libro si sostiene che gli strumenti che plasmiamo ci plasmano a loro volta. Ma, soprattutto, che lo sviluppo dei mass media ha generato una sorta di fine del mondo. Scrive: “Dopo essere esploso per tremila anni con mezzi tecnologici frammentari e puramente meccanici, il mondo occidentale è ormai entrato in una fase di implosione. […] Dopo tremila anni di espansione in ogni settore e di crescente alienazione specializzata nelle innumerevoli estensioni tecnologiche del corpo umano e delle sue funzioni, il nostro mondo, con drammatico rovesciamento di prospettive, si è ora improvvisamente contratto. L’elettricità ha ridotto il globo a poco più che un villaggio” [1].
“Villaggio globale” sarà il celebre ossimoro di McLuhan. Come si è ridotto il mondo.
Un’espressione su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro e su cui non mancano le perplessità. L’antropologo Marc Augé, ad esempio, dice che il nostro mondo non ha affatto l’organizzazione spaziale di un villaggio [2].
Ma con “villaggio globale” McLuhan si riferiva al potere di identificazione che prima la consistenza delle distanze rendeva molto difficile.
Se viviamo in una sorta di villaggio globale è perché tutti conoscono tutti, ovvero hanno gli strumenti e le informazioni per identificarli. Gli unici che non conosciamo sono gli extraterrestri, ovvero quelli che provengono da un altro mondo.
I mass media sono dei potenti strumenti di identificazione dell’altro. Lo includono nel villaggio globale, ovvero in uno spazio circoscritto dai media stessi. Una raggiunta delimitazione del mondo. Una fine mediatica del mondo.
Professore di inglese e direttore del Centro per cultura e la Tecnologia dell’Università di Toronto, McLuhan non si è mai dichiarato ottimista o pessimista. Si è dichiarato, coerentemente, un apocalittico.
Mentre viene pubblicato il testo di McLuhan, un professore di filosofia resta folgorato dalla seconda mostra presso la Stable Gallery di un artista allora non ancora divenuto un’icona planetaria.
Il professore è Arthur C. Danto, l’artista è Andy Warhol.
Warhol espone le sue celebri Brillo Boxes, scatole di prodotti commerciali che difficilmente potevano essere prese in considerazione come arte. Danto pubblicherà poco dopo un articolo sul “Journal of philosophy” intitolato The artworld, il mondo dell’arte.
Per comprendere l’arte di Warhol, sostiene il filosofo, bisogna pensarla appartenente a un mondo a parte.
Così, mentre McLuhan parlava di una fine del mondo, Danto parlava di un mondo nuovo, un mondo dopo la fine del mondo.
Sono sempre le coincidenze a farci pensare. Le cose che accadono nello stesso tempo, gli insoliti legami. L’idea portante del libro che state leggendo nasce perché l’autore ha rilevato una convergenza singolare all’interno della cultura occidentale: due affermazioni che possono sembrare apparentemente contrapposte, ma che, se pensate insieme, disvelano un nuovo modo di comprendere le cose.
Questo libro nasce mettendo insieme due ipotesi: se c’è una fine “mediatica” del mondo, a essa segue anche la nascita di un nuovo mondo, ciò che Danto chiama il mondo dell’arte. Mondo che non sarà certo l’unico.
McLuhan e Danto, infatti, da buoni teorici, arrivano a cose già fatte.
Se il mondo è finito per mano dei mass media, non è finito certo nel 1964, ma molto prima. E l’arte ha avanzato già il suo “mondo” con Marcel Duchamp, ben prima di Warhol.
Nel 1917, sotto falso nome, Duchamp propone per una mostra, con il titolo Fontana, il suo celebre orinatoio, dichiarando, in seguito, che si trattava di un’opera d’arte a tutti gli effetti. Proprio quando, a livello mediatico, si era entrati nell’era dove tutti erano diventati improvvisamente ansiosi che cose e persone dichiarassero totalmente la propria natura [3].
La dichiarazione di Duchamp andava ovviamente contro l’identificazione generale promossa dai mass media. Era, piuttosto, una dichiarazione di guerra.
Quello che McLuhan e Danto non sanno nel 1964 è che, di lì a poco, nascerà Internet, tecnologia che porterà a compimento la fine mediatica del mondo.
E da Internet nascerà il World Wide Web, ovvero un nuovo mondo, accanto a quello dell’arte.
Mondo dell’arte e mondo del Web. Due mondi diversi, ma con una medesima origine: la fine del mondo, l’implosione del mondo generata dai mass media.
Nuovi mondi, dove non è facile identificare opere e persone.
L’espressione mondo dell’arte nasce proprio per spiegare le opere d’arte contemporanea difficili da classificare, e un dispositivo come Facebook, oggi, serve proprio per disciplinare il proliferare delle identità virtuali all’interno del mondo del Web.
Nel caso dell’arte questa novità è facilmente percepibile. Prima della constatazione di ciò che il filosofo Arthur Danto ha chiamato mondo dell’arte, l’arte esponeva un’epoca del mondo, un’epoca andata e perduta.
Era una delle attestazioni della fine di quel mondo.
Con mondo dell’arte oggi si intende, invece, un mondo di relazioni sospette, difficilmente circoscrivibile e che costituisce l’aura di alcune opere d’arte contemporanea.
Prima le opere d’arte, poi le identità virtuali del Web, ricreeranno altri mondi. Mondi sorti dalla saturazione delle informazioni che ci parlano continuamente del Mondo.
Ma questo mondo, proprio perché reso “sincronizzato” dalle nuove tecnologie di comunicazione, è finito.
Che il Mondo sia finito non significa affatto che sia cessato. Significa che esso appare totalmente delimitato dai flussi di informazioni, non appare più tanto vasto, non appare più capace di darci dell’altro.
Il mondo è finito nel momento in cui si è raggiunta un’equivalenza tra mondo e informazioni sul mondo, equivalenza che porta a compimento la tensione occidentale mirante a far coincidere il mondo con la sua mappa.
Il mondo è finito nel momento in cui i suoi oggetti sono stati tutti identificati attraverso codici globali.
Il mondo è finito nel momento in cui le percezioni delle distanze spazio-temporali tra questi oggetti sono mutate al punto da rendere poco importante che tali oggetti si trovassero dall’altra parte del mondo. Con lo sviluppo dei media di massa, e infine con Internet, le distanze spazio-temporali hanno avuto sempre meno peso, fino a diventare del tutto evanescenti.
Con l’aumento della velocità di comunicazione il mondo si è contratto, ma tale contrazione non è stata senza conseguenze.
Questa contrazione non è avvenuta da un giorno all’altro, ma fa parte della storia della nostra civiltà e ha subito almeno due grandi accelerazioni.
Una prima accelerazione è possibile osservarla dalla seconda metà dell’Ottocento — con l’invenzione della ferrovia, della fotografia, dell’elettricità, del telefono e della radio e di tutti gli altri prodigiosi media che seguirono — fino agli anni sessanta del secolo scorso: si è avuta una vera e propria mutazione nel viaggio di cose, persone, e informazioni di ogni genere, e della loro riproducibilità.
Una seconda accelerazione si è avuta proprio a partire dagli anni sessanta con l’invenzione di Internet e con la proliferazione della tecnologia digitale a esso connessa.
Dalla prima accelerazione è nato il mondo dell’arte contemporanea, dalla seconda il mondo del Web.
È necessario precisare che, quando parliamo di mondo dell’arte contemporanea, non ci riferiamo a tutta l’arte del presente, ma a una specifica forma d’arte che ha un suo proprio mondo e che ha avuto inizio con Duchamp e il Dadaismo, ovvero con ciò che Danto ha chiamato “trasfigurazione del banale”.
La nostra ricerca ha come suo primo obiettivo, pertanto, quello di definire l’arte contemporanea per fare emergere il suo mondo.
Il secondo obiettivo è quello di focalizzarsi su un particolare reagente all’interno del Web, ossia il social network Facebook, per fare emergere, anche qui, un altro mondo nato dalla contrazione mediatica del mondo: il mondo dove, ancora per poco, sarà possibile assumere diverse identità.
Il mondo e la sua fine
Tra le parole che usiamo di più c’è la parola mondo, tra le cose che certamente proccupano di più c’è la fine del mondo.
Questo libro parte, dunque, dal presupposto che la fine del mondo sia già avvenuta.
Un presupposto paradossale e sconcertante, dato che, se la fine del mondo è accaduta davvero, questo libro difficilmente vedrebbe la luce.
È evidente allora che con “fine del mondo” non si intede qui la scomparsa della vita umana, la distruzione del nostro pianeta.
Con fine del mondo intendiamo una sorta di compimento di ciò che pensiamo e sappiamo del mondo. Perché il mondo è innanzitutto un’idea, una rappresentazione della mente. Una rappresentazione che tutti noi siamo in grado di fare, una capacità comune come la sensibilità.
Che il mondo non sia una cosa, ma sia un che di immateriale può far certo inorridire qualcuno, soprattutto chi ha combattutto i filosofi che negavano una realtà oggettiva delle cose a vantaggio delle interpretazioni.
È, questo, ad esempio, il caso del filosofo Maurizio Ferraris, che non esita a tirar fuori argomenti forti a sostegno della tesi che, indipendente dalle nostre interpretazioni, esista un mondo esterno. Argormenti forti, come un terremoto.
Con un terremoto si apre, infatti, il suo libro intitolato proprio Il mondo esterno, dove si legge: “a un certo punto, il mondo esterno ha battuto un colpo; la stanza ha cominciato a tremare, sulle prime credevo che fosse un’allucinazione, non mi ero mai trovato nel pieno di un terremoto” [4].
La sua difesa della realtà delle cose, tuttavia, risulta debole proprio in relazione alla questione del mondo. Perché, se c’è una realtà esterna, indipendente da noi, questa non è ancora ciò che chiamiamo mondo.
Per avere il mondo ci vuole altro. Ci vuole un’apertura non immediata, un’idea panoramica, qualcosa che non possiamo percepire come percepiamo un oggetto.
La cosa che mi sta di fronte e che mi resiste non è tuttavia il mondo o un mondo.
Il mondo è un insieme che, per definizione, non può essere dato tutto insieme.
Cosa sia un mondo, o quanti mondi esistano, dipende dalle nostre convinzioni e dai dispositivi che le influenzano. L’idea del mondo è un’idea complessiva che orienta la nostra esistenza e articola il nostro rapporto con le cose.
Un’idea che può essere aperta e angosciante perché produce in noi quel sentimento di infinità carico di opportunità, ma anche di paura e di sospetto. Come ci ricorda Peter Sloterdijk: “Il mondo è la circostanza per cui gli uomini capiscono che ‘ad esso si aggiunge sempre qualcosa’ che eccede ciò che c’è lì intorno, ciò che è lì presente, ciò che lì è aperto. […] La rivelazione non è mai piena, e il sospetto nei confronti di ciò che è nascosto, e non si mostra, in principio non si può mai acquietare. Il mondo prende forma come un insieme di evidenza e mascheramento” [5].
L’idea contemporanea del mondo è certamente molto più rassicurante, benché le insidie non manchino. La rappresentazione del mondo che l’insieme del mass media contemporanei produce è una rappresentazione che, per citare una provocazione di McLuhan, ci “massaggia”.
Per comprendere questo processo di rassicurazione, di eliminazione dei sospetti, rivolgiamo la nostra attenzione all’arte contemporanea e al dispositivo di Facebook: due modi antitetici di porsi di fronte al sospetto [6].
L’arte contemporanea, infatti, non fa che alimentarlo, mentre Facebook non fa che ridurlo.
Solo se rapportiamo entrambi al problema del sospetto possiamo comprendere la diffidenza verso la prima e il successo dell’altro.
Mentre il mondo dell’arte contemporanea diventa sempre più sospetto, Facebook, invece, sta letteralmente contagiando il mondo del Web, con la sua struttura ordinata e identificante, cioè rassicurante.
Il mondo del Web è un mondo vasto e insidioso: vi si trovano truffatori, impostori, pirati informatici, fughe di notizie. Un po’ come nel mondo fisico, con la differenza che non ci sono identità rigide, né potenti dispositivi di identificazione. Facebook vuole essere proprio questo dispositivo, lavorare contro il sospetto. È, pertanto, un particolare reagente all’interno del mondo del Web. Mondo che produce sospetto, che è integralmente costituito dal sospetto.
Senza il Web, oggi il reticolo mediale composto da cinema, tv, quotidiani, fotografia, radio dormirebbe sogni tranquilli, avrebbe creato quel perfetto addomesticamento dell’uomo occidentale. Con il Web, con il suo mondo, si va al di là di quel mondo “finito”, organizzato e narrato dai media di massa.
All’interno del Web, Facebook incarna, dunque, una controtendenza.
Questo libro vuole, allora, indagare due strategie dell’apparire, due modi differenti di mostrare cose e persone. Due modi differenti di interagire con un mondo di riferimento, ovvero con le incognite che questo mondo pone. Da un lato l’arte contemporanea lavora all’ampliamento del suo mondo, dall’altro Facebook avanza una sorta di tribalizzazione del mondo del web, ovvero un controllo del suo caos.
[1] M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare (1964), Il Saggiatore, Milano 2002, pp. 9; 11.
[2] Cfr. l’intervista su “la Repubblica”, 27/12/2005, p. 41.
[3] Cfr. M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, p. 12.
[4] M. Ferraris, Il mondo esterno, Bompiani, Milano 2001, p. 16.
[5] P. Sloterdijk, Non siamo ancora stati salvati (2001), a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 161.
[6] Fondamentale per la nostra ricerca è il lavoro di B. Groys, Il sospetto. Per una fenomenologia dei media (2000), a cura di C. Badocco, Bompiani, Milano 2010. Le tesi generali, come pure le analisi, soprattutto in merito all’arte contemporanea, sono differenti. Il problema del sospetto, in rapporto alla funzione dei media e alla questione ontologica dell’altro, resta tuttavia il motivo ispiratore di questo libro.