di Danilo Arona
La prima parte è qui.
Dov’eravamo rimasti? Alle porte, sicuro. Ovvero agli attraversamenti coscienti e/o guidati (tra i mondi, le dimensioni o le “altre” realtà) e a quelli inconsapevoli dalle conseguenze e dalle ricadute concrete e tangibili. E al dubbio se l’esercizio letterario possa essere una delle autentiche esperienze sciamaniche dei nostri tempi. Perché qualche libro, o solo qualche parte di esso, ha in qualche caso “bucato” il Reale.
Siccome parlare di me è sin troppo facile (ma non mi negherò), comincio da un amico che non ha voluto problemi qualche tempo fa a dire la sua sull’argomento. Si chiama Gianfranco Nerozzi (il Nero) e credo lo conosciate tutti. E’ un grande scrittore horror, autore di capolavori assoluti quali Resurrectum e Il cerchio muto. Nel maggio nel 2006 Gianfranco pubblicava in rete, su più siti, un documento dal titolo Il codice del Nero, di cui offro una sintesi, evidenziando quel che c’interessa in questo contesto:
«Quest’anno a volte è capitato, durante le presentazioni, che qualche mio nuovo lettore riferendosi al mio ultimo romanzo Resurrectum, mi muovesse, per così dire, l’accusa di essermi ispirato a Dan Brown per quando riguardava certe atmosfere e certe idee, e per la caratterizzazione di alcuni personaggi, nel suo celeberrimo Il codice da Vinci. Uno dei protagonisti del romanzo di Brown, infatti è Silas: un frate killer albino, grande, grosso e muscoloso, ossessionato dalla religione in modo fanatico e che si sottopone continuamente ad autoflagellazione. Effettivamente Silas sembra una mescolanza fra due protagonisti della saga di Genia, nella fattispecie Salvatore Vanelsìn, il prete esorcista killer, che solo attraverso il dolore fisico riesce a tenere sotto controllo la propria dannazione, e Radius Fortuna, che è uno zingaro rumeno, albino e muscoloso, con gli occhi rossi, collezionista di crocefissi, che se ne va in giro a uccidere in modo spietato per risolvere i problemi di una cerchia di potere occulto che muove le fila di tutto… Esistono sintonie, ci sono sinergie, storie che aleggiano. Sapori, atmosfere che sembrano vivere di vita propria. Gli scrittori non fanno altro che carpirle, assorbirle, digerirle, mescolandole a emozioni e sentimenti, per farle entrare negli universi paralleli dei loro romanzi. E’ una questione di magia che si espande. Un magma comune cui tutti possono e devono attingere… La scrittura è sempre un’operazione di magia. Noi che ne abbiamo fatto un mestiere siamo come gli sciamani delle tribù primitive. Creiamo sortilegi attraverso simboli potenti e registriamo transazioni. Non voglio usare paroloni tipo “significato cosmico”, che sarebbe esagerato. Formare le parole, in inglese, si dice spelling, che vuole dire anche incantesimo. E qui torniamo alla questione della magia. Poi possiamo ferire o guarire. Ed essere noi stessi feriti o guariti. Sempre grazie alla capacità di fare sogni speciali. E i sogni, quando sono comuni, diventano più potenti. Più necessari. Vogliamo parlare di saggezza del mito? Oppure semplicemente sincere e semplici sintonie. Codici per accedere.»
Codici per accedere, ovvero porte. E rieccoci all’ipotesi dello scrittore-sciamano. Ma proviamo ad andare oltre le dimensioni visualizzate dal Nero. Le sue, alla fine, sono collisioni tra mondi fantastici, tra reami immaginali. Per quanto ci stiamo muovendo negli ambiti del paradosso, il magma comune in qualche modo ci tranquillizza. Io invece sto pensando a qualcosa di diverso, a qualcosa che, proprio tramite quei codici, acceda al nostro mondo, quello che percepiamo ogni secondo della vita come il continuum spaziotemporale nel quale ci muoviamo, pensiamo e parliamo. In altre parole, da quando scrivo storie inventate, mi tocca constatare che dette storie, presto o tardi, vanno a influenzare la mia e altre realtà con gli stessi argomenti delle medesime. Non sto ad arrovellarmi se trattasi di “preconoscenza”, sincronicità junghiana o codici di accesso alla Nerozzi. Mi limito a raccontare.
Negli anni Ottanta scrissi Un brivido sulla schiena del Drago, nel quale immaginavo che una certa zona di confine tra Piemonte e Liguria, a cavallo del Passo del Turchino, fosse un luogo malefico perché infestato da una sorta di demone e per tale ragione funestato da una serie numericamente fuori norma di disgrazie e incidenti automobilistici. Pura immaginazione per quanto l’autostrada A 26, nel tratto che va verso il mare, non sia delle più tranquille per ragioni che hanno a che fare con la percorribilità e non certo con i fantasmi. Qualche tempo dopo l’uscita del libro un pullman carico di pensionati precipitò da un viadotto con un terrificante conteggio di vittime, 18 se non ricordo male. Nulla a che fare, ovvio, con il mio libro, però a commento della luttuosa cronaca dell’incidente una giornalista alessandrina concluse il suo articolo scrivendo che lo scrittore Danilo Arona sosteneva che la zona dell’incidente era da anni un crocevia di forze maligne che reclamavano vittime (vado a memoria perché ci metterei troppo tempo a trovare il ritaglio cartaceo, ma fidatevi: il senso è quello), senza apporre alcun paletto di distinzione tra un elemento “di genere” e di fantasia e il mondo reale. Ritengo, ancora oggi, di non avere nulla da obiettare perché da un lato me la sono cercata e dall’altro io sono assolutamente convinto che esistano zone del genere (un discorso molto a lungo e a parte che ha a che fare con la geopatologia e i reticoli di Hartmann, ma ne parlereremo…). Insomma, a partire dal 1986 da una storia del tutto inventata iniziò a dispiegarsi un bell’intreccio “confinante” di verità e leggenda. Così presi a leggere che il Turchino e Masone erano secondo certe statistiche redatte da non so chi posti sfigatissimi dove piove sempre (in effetti è così, ma ci sono ben precise motivazioni climatiche…), che si erano verificate misteriose scomparse di incauti cercatori d’oro della domenica nelle gallerie della montagna e che spesso molti auto e Tir si bloccavano di colpo vicino al paese per inspiegabili e collettivi black-out dei motori. Tutte notizie regolarmente riportate sui giornali assieme ad altre ancor più tragiche: una ragazzina che volava fuori, quasi risucchiata dall’esterno, dal finestrino di una corriera; un giovane che fermava la sua 500 in corsia d’emergenza e si buttava in un burrone; un altro che tentava di scavalcare il guard-rail sopra il viadotto e non si avvedeva del vuoto che c’era sotto; un tipo in trance che tentava di travolgere il casello dell’uscita per Masone con dentro il casellante. Siamo sempre lì, e si trattava di disgrazie molto, troppo simili a quelle descritte in Un brivido sulla schiena del Drago. Poi, nel ’94, assemblai tutti questi materiali in un capitolo di un libro edito da Costa & Nolan che si chiamava Tutte storie, aggiungendovi bande dei Tir, autostoppiste fantasma, aree di parcheggio come zone per scambisti (tutta roba documentata) e i giornali genovesi ci andarono così bene a nozze che tutto divenne “vero”. Certo, l’appassionato di leggende metropolitane che sonnecchia in me non avrebbe alcun bisogno di ricorrere alla metafisica per spiegarsi contaminazioni del genere. Ma procediamo.
Un salto di molti anni ed eccoci nel 2006 a Cronache di Bassavilla, edito da Dario Flaccovio, che racconta di un fantasma femminile di un’altra autostrada che si chiama Melissa. E’ una storia inventata e neppure l’ho inventata io. Un po’ dopo la sua uscita ho ricevuto diversi messaggi nel mio mailbox. Val la pena di leggerne tre più o meno per intero. Sono brevi. E, a loro modo, agghiaccianti.
Caro Danilo, ho iniziato e finito le tue cronache in Camargue con un Mistral che da quarant’anni non soffiava con una simile violenza. E ho capito perché. Inconsciamente ero restia a leggerti. Ora non so se è stato un colpo di Mistral o Melissa. Ma la mia “porta” si è riaperta di colpo. E, al ritorno, ho ricominciato a “vedere”. Lei stava lì, in autostrada, tal e quale come tu l’hai descritta. E adesso che faccio? Ho un sacco di domande da porti, Raffaella.
Caro Danilo, più o meno a quattordici anni avevo deciso che dio non esisteva e che il sano materialismo di matrice comunistoide era quello che faceva per me. Quasi vent’anni la penso ancora più o meno così. Ma qualcosa che vorrebbe credere nell’intangibile c’è. E dunque ecco l’appassionarsi alle “coincidenze”, cercare le prove, incrociare le testimonianze, riportare i punti di congiunzione. Melissa è un po’ tutto questo, ancora prima di essere la biondina con il giubbotto rosso. Quindi non si può non cercarla. E adesso tieniti forte: l’altra sera ci sono passata davvero sulla A 13. Guidava un amico dopo una cena di lavoro a Padova. Quando abbiamo imboccato l’autostrada: «Adesso stiamo per attraversare un punto strano». Eravamo vicini a San Pelagio. Lui, abituato ai miei racconti sconclusionati, ha sorriso e guardato in silenzio. Poi, dopo un po’, visto che tendevo ad addormentarmi, mi ha chiesto: «Per punto strano intendevi quello dove la tipa faceva l’autostop?». Mi sono svegliata di soprassalto e ho quasi gridato: «Quale tipa?», e lui: «Una bionda con un giubbotto rosso. Ho fatto per fermarmi, ma mi sono voltato e non l’ho più vista», Antonella.
Egregio signor Arona, la informo che, a proposito di quella che lei dice essere una leggenda, fino a qualche anno fa sulla carreggiata nord della A 13, in corrispondenza di San Pelagio, c’era un mazzo di fiori finti che però non feci in tempo a fotografare, C.M. Vidor.
No comment. E vi racconto l’ultima. In un’antologia uscita di recente per Urania che s’intitola Onryo – Avatar di morte, il mio racconto s’intitola Vale va bene e descrive il fantasma, piuttosto delizioso, di una ragazza bionda deceduta in un incidente stradale. L’equivoco narrativo, mica tanto originale, è che il protagonista io narrante ignora di avere il potere di vedere gli spettri e, quando ne vede uno che gli gusta, si comporta come se stesse interagendo con una persona in carne e ossa. Il personaggio della bionda è modellato su una mia amica, sia nei tratti descrittivi che nel nome e nel modo di fare. Le chiesi il permesso, spergiurando che nessuno l’avrebbe riconosciuta (e qui mi sono sbagliato, ma il particolare non c’entra…) e lei acconsentì perché in verità è proprio mia amica, di quelle che è raro trovare sul percorso della propria vita. Il fatto, tipico da scrittore, è che avevo proprio bisogno di lei come personaggio perché, a parere dell’autore, lei, Vale, è quella Vale al mille per cento. Succede nei reami immaginali degli scrittori un po’ disturbati. A quella Vale purtroppo, per trasformarla in un fantasma nel racconto, dovevo riservare una pessima morte e, siccome scrivo horror, senza lesinare sulla crudezza dei particolari. Finisco il racconto, lo spedisco a Vale perché lei, ovvio, deve leggerlo per prima. Le piace, si riconosce, ah che bello e come mi hai descritta, sono proprio io. Poi passa il tempo, compreso quello editoriale che per Onryo è stato più lungo del previsto. E arriva allora un giorno in cui le mando una mail per chiederle come butta e quando, non subito, mi giunge la risposta, mi vengono in mente — mentre vado in tachicardia – Masone, il Passo del Turchino, Melissa e altre cose di cui per privacy non posso qui discutere, ma che riguardano il Palo Mayombe, Satana ti vuole e la Val Cerrina. Vale mi scrive: «Caro, non volevo proprio dirtelo, perché sapevo che ci saresti rimasto male, ma mentre andavo al lavoro in bicicletta, come nel racconto, una macchina è sbucata dal nulla e mi ha colpito. Sono volata giù, ho picchiato la testa sul marciapiede e me la sono vista brutta. Hanno dovuto tagliarmi i miei lunghi capelli biondi e sono ancora piena di tagli e di piccoli vetri scheggiati. Adesso però sto bene, potenza forse del titolo del racconto, V.»
Io la chiuderei qui. C’è anche un amico su Facebook, Emilio Ballatore che qui ringrazio pubblicamente, il quale mi consiglia di approfondire il concetto di Ideaspace di Alan Moore, quello spazio mentale in cui le idee possono muoversi ed evolversi, prendendo apparentemente vita. A Emilio rispondo che lo sto facendo, il che andrà a generare una terza, imprevista, puntata su questo strano argomento. Cosa si crea quando si scrive? Cosa si crea oltre la pagina?