di Walter Catalano
Vi sono temi di fortissimo interesse ma troppo terribili per essere oggetto di narrazioni. (E.A. Poe — “The Premature Burial”)
Come potei addormentarmi, quando maggiore era la mia angoscia? Forse il nostro corpo sente a volte pietà della nostra anima. (Beppe Fenoglio — “Nella Valle di San Benedetto”)
Beppe Fenoglio è probabilmente, fra gli autori importanti del nostro Novecento, uno dei meno inclini all’affabulazione fantastica. Profondamente radicato nella sua terra, le Langhe, lo scrittore di Alba non si discosta mai dal dato concreto, oggettivo: se il paesaggio esteriore nelle sue opere compendia espressionisticamente quello interiore dei personaggi, non trasfigura mai in allucinazione del sogno o della memoria. Diametralmente opposta a quella di Cesare Pavese la sua sensibilità coglie nell’arcaico del sangue e della terra non tanto le suggestioni mitiche, quanto piuttosto – come intravide Elio Vittorini – gli echi barbari. Fenoglio, ben calato nel suo tempo e nell’esperienza fondante della sua generazione, la Resistenza e la lotta contro il fascismo, resta comunque pervicacemente refrattario a ogni memorialistica agiografica e lontano anni luce dall’abusata temperie neorealista: unico fra i suoi contemporanei, ne usa e ne distorce gli scenari e le dinamiche in chiave esistenzialista. Per questo motivo si è giustamente parlato a proposito delle sue opere più riuscite di epica moderna. Forse per sua fortuna, questa disposizione lo rese un isolato all’epoca; venne frainteso, in senso estetico, politico ed esistenziale e probabilmente solo Italo Calvino seppe comprenderne a pieno la grandezza. L’improvvisa scomparsa, ad appena 41 anni nel 1963, nel pieno della sua maturità creativa inoltre, non ha facilitato la lettura dei suoi testi, in gran parte incompiuti ed oggetto di aspre polemiche fra gli specialisti quanto a cronologia, intenzioni e operazioni di “restauro”.
Il lavoro critico di Luca Bufano con l’edizione probabilmente definitiva dei racconti di Fenoglio secondo lo schema da lui stesso delineato negli ultimi giorni di vita ci permette di individuare tre categorie tematiche intorno alle quali si articola l’opera dello scrittore-partigiano: “I racconti della guerra civile”, in cui vengono ripercorsi e approfonditi i temi dei romanzi maggiori (“Primavera di bellezza”; “Una questione privata”; “Il partigiano Johnny”); “I racconti del dopoguerra”, in cui si delineano eventi e situazioni successive alla caduta del fascismo (lo scenario del romanzo che Vittorini non volle pubblicare: “La paga del sabato”); “I racconti del parentado e del paese”, in cui emergono quei riferimenti al mondo “barbaro” dei contadini piemontesi che a grandi linee potremmo definire neoveristi e “verghiani” (quelli, per intenderci, del romanzo “La malora”); infine un’appendice voluta da Bufano: “I racconti fantastici”, testi avventurosi concepiti da Fenoglio per una collana letteraria dedicata ai giovani e che spaziano dall’avventura marinaresca (“Una crociera agli antipodi”) al divertissement storico, e tutti purtroppo incompiuti.
Fantastico, nel senso attribuito all’aggettivo da Bufano, è da intendersi quindi come sinonimo di avventuroso, meraviglioso, esotico, picaresco, ecc.: manca del tutto la categoria del weird, dell’unheimlich, categoria ben presente invece fra i riferimenti culturali di Fenoglio, che tradusse egregiamente “The Rime of the Ancient Mariner” di Samuel Coleridge e “The Wind in the Willows” di Kenneth Grahame ed ebbe fra i suoi riferimenti narrativi più presenti Edgar Allan Poe . A queste suggestioni di derivazione gotica o fiabesca potremmo aggiungere la predilezione per il capolavoro di Emily Brontë “Wuthering Heights”, di cui scrisse un intrigante adattamento teatrale (che un po’ occhieggiava anche all’omonimo film di William Wyler noto da noi con il titolo di “La voce nella tempesta”), e il rimando indiretto a “The Wonderful Wizard of Oz” di L. Frank Baum (e soprattutto al film di Victor Fleming derivato dal libro) che, attraverso il leitmotiv della canzone “Over the Rainbow” cantata da Judy Garland, percorre tutto “Una questione privata” scandendo e scindendo i due piani del racconto: il vagheggiamento idilliaco del passato, del ricordo, della presenza femminile amata e la spietatezza presente della guerra civile e dell’amore perduto.
Questa particolare sensibilità che abbiamo detto “gotica” o perturbante non emerge mai in modo evidente nella narrativa di Fenoglio ma la percorre tutta come una vena sotterranea marcandone profondamente alcuni aspetti sia stilistici che tematici: lo testimonia ad esempio l’uso non in funzione lirica (com’era tipico del neorealismo) ma piuttosto epifanica degli elementi paesaggistici e atmosferici; o la consapevolezza lucida e disincantata del destino ineluttabile e dell’implicita tragedia della condizione umana evocata nel senso di solitudine ed isolamento, di sconfitta e di morte di tutti i suoi protagonisti maggiori. Ritroviamo questa evidenza nei finali bruschi e improvvisi dei suoi romanzi, dove l’explicit va a coincidere con un’interruzione : eco dell’interruzione repentina della vita dell’autore stesso. Così il Johnny di “Primavera di bellezza”: “Johnny percepì un clic infinitesimale. Girò gli occhi dal tedesco al vallone. Vide spiovere la bomba a mano del sergente Modica e le sorrise.”; così il Johnny de “Il partigiano Johnny”: nell’infuriare della sparatoria, nel corso della battaglia di Valdivilla, ultima sconfitta partigiana nelle Langhe, in cui un’imboscata partigiana ai repubblichini si trasforma per gli attaccanti in una micidiale trappola, “Johnny si alzò col fucile di Tarzan ed il semiautomatico… Due mesi dopo la guerra era finita.”; così il Milton di “Una questione privata”: il partigiano corre tallonato dai fascisti, “Poi gli si parò davanti un bosco e Milton vi puntò dritto. Come entrò sotto gli alberi, questi parvero serrare e far muro e a un metro da quel muro crollò.”; così l’altro Milton del romanzo che ha avuto il titolo postumo de “L’imboscata”: anche in questo caso l’agguato individuale di Milton ad un ufficiale fascista viene fatalmente svelato ai miliziani e si trasforma in un mortale controagguato: il cadavere del partigiano galleggia a mezz’acqua trascinato a valle dalla corrente, sotto gli occhi impassibili di un barcaiolo e di un contadino che commentano: “Vestito come noi. Non da fascista né come gli inglesi. Chi sarà stato ?”…”Ad ogni modo, è uno che non vedrà come andrà a finire.”; così infine l’Ettore de “La paga del sabato”, un ex partigiano incapace di reinserirsi nella vita borghese del dopoguerra, schiacciato per errore dal camion guidato dal suo inesperto amico Palmo, avrà il tempo di mormorare le sue ultime parole: “Sei un cretino, Palmo, mi tocca morire per un cretino come te”. Seppure in altro contesto anche La malora inizia con un funerale e termina con una preghiera al capezzale di un moribondo: fin dalle prime pagine Agostino, costretto dalla morte improvvisa del padre a provvedere alla famiglia servendo per tre anni come garzone presso il mezzadro Tobia, potrebbe sfuggire al suo destino servile in un solo modo: si profila una minacciosa immagine ricorrente in Fenoglio, l’equivalente langarolo del maelstrom di Poe: il gorgo. “E allora potevo tagliare a destra, arrivare a Belbo e cercarvi un gorgo profondo abbastanza” — commenta Agostino — “Invece tirai dritto, perché m’era subito venuta in mente mia madre che non ha mai avuto nessuna fortuna, e mio fratello che se ne tornava in seminario con una condanna come la mia”. L’immagine poesca ritorna in uno dei racconti più brevi e intensi della produzione fenogliana: “Il gorgo”. Un bambino impedisce con la sua sola vigile presenza il suicidio del padre: “Nostro padre si decise per il gorgo, e in tutta la nostra grossa famiglia soltanto io lo capii, che avevo nove anni ed ero l’ultimo”. Il gorgo è la morte e insieme il destino: l’allettante possibilità di uscita dalle miserie del mondo, alla quale si contrappone solo l’accettazione impassibile della “malora”: ”Il gorgo era subito lì, dietro un fitto di felci, e la sua acqua ferma sembrava la pelle di un serpente”. Come in Poe il vortice succhiante esercita un’attrazione-repulsione che i personaggi vincono con riluttanza. All’immagine del gorgo si affianca, nei racconti della guerra civile, quella del muro: il muro, confine metafisico contro il quale partigiani e fascisti si avvicendano ad incontrare il loro destino, la sconfitta estrema che segna il limite dell’agire umano: così “Vecchio Blister” incredulo e offeso di venir fucilato dai suoi stessi compagni partigiani solo perché ha rubato in un cascinale: ”…e corse incontro a Set che era apparso in fondo al corridoio. Corse avanti colle mani protese come a tappar la bocca dell’arma di Set e così i primi colpi gli bucarono le mani”; così Max, partigiano badogliano (come Fenoglio), in “Un altro muro”, per il quale la raffica sarà solo simbolica (per intercessione di un prete che favorirà uno scambio di prigionieri) ma che vedrà cadere al suo fianco Lancia, il partigiano garibaldino suo compagno di cella che non ha santi in paradiso; così l’innominato fascista de “Il trucco”, che si piscia addosso mentre attende l’esecuzione e i tre partigiani Giulio, Moro e Napoleone stanno litigandosi fra loro il piacere di essere quello che sparerà: Moro si aggiudicherà con l’inganno il privilegio e Giulio commenterà nel finale “Moro non deve aver goduto granché a fucilare uno che prima si piscia addosso. Ti ricordi invece, Napo, quel tedesco che abbiamo preso a Scaletta e che poi hai fucilato tu ? Dio che roba !”; il caporale repubblichino che vuole morire gridando “Viva il Duce”, in “La profezia di Pablo”, al quale un quasi materno partigiano Pablo replica: “Ti ho già detto che puoi gridare quel che ti pare, ma ti ripeto che secondo me ti sprechi. Io sono sicuro che tu, che in fondo sei una mezza calzetta, tu morirai molto meglio di quanto saprà fare lui quando sarà la sua ora”; così Maté in “L’erba brilla la sole”, che contrasta tanto eroicamente i repubblichini da vedersi offrire dal maggiore fascista una possibilità di salvezza: “A me ripugna togliere dal mondo i veri soldati. Sono così scarsi ormai, in Italia, i veri soldati. Ci sarebbe una via…passa dalla nostra parte, vesti la nostra divisa e la tua vita è salva”, Maté rifiuta e l’ufficiale prima di condurlo al plotone gli mostra i tre caduti fascisti, “Stasera farete a pugni lassù”, commenta.
Per tutti, questi ed altri personaggi fenogliani, c’è un muro in attesa, un muro di fronte al quale l’uomo è solo con sé stesso e, direbbe Poe, con il Verme conquistatore. Questa visione epica e profondamente umana della lotta di liberazione che coincideva con un destino ed una dignità individuali non collimava affatto con l’immagine agiografica ed edulcorata di una Resistenza di maniera: Fenoglio usò sempre per designare la lotta antifascista il termine “guerra civile”, non amato dalle sinistre del suo tempo che lo trovavano ambiguo; mostrò che esistevano anche partigiani col fazzoletto azzurro e non rosso e si permise ne “Il partigiano Johnny” di far abbandonare al protagonista le formazioni garibaldine a favore dei badogliani con il lapidario commento “sono nel settore sbagliato della parte giusta” (ma, pur da una posizione che rifiutava aspramente ogni moralismo o retorica populistica, manifestò sempre grande rispetto per la Stella Rossa ); contravvenendo all’ora imperante semplificazione manichea del “uomini e no” vittoriniano (urgenza forse da parte dello scrittore siciliano di farsi perdonare qualche passata compromissione col regime), descrisse partigiani indegni — Blister che ruba e non capisce perché deve cadere per mano dei suoi stessi compagni; Giulio, Moro e Napoleone che si disputano il divertimento di sparare al terrorizzato prigioniero fascista; Ettore in “La paga del sabato” – il suo romanzo più hard-boiled – che nel dopoguerra, incapace di reinserirsi e ormai assuefatto alla violenza, passa alla malavita dedicandosi al ricatto “…stasera andiamo su e gli prendiamo un po’ di soldi per perdonargli il suo fascismo. — Sì, però noi glielo perdoniamo a rate, capisci ?”; o fascisti degni di qualche rispetto come il tenente X, in “Il partigiano Johnny”, che ignora il salvacondotto offerto dal comandante badogliano Nord per recarsi al funerale del fratello caduto, il partigiano Kyra, “il curato bisbigliò a Johnny che non aveva mai visto un uomo come Nord, ma il suo secondo era certamente il tenente X”. Il tutto senza la minima ambiguità: non uomini e no ma uomini contro altri uomini; uomini contro i quali tuttavia si deve sparare a prescindere da ogni rimorso .
Scrisse Fenoglio nel dopoguerra, assistendo alla reintegrazione nei ranghi degli ex fascisti: “Bisognava farli fuori tutti quando ancora si poteva”.
Se é probabilmente una forzatura aver voluto cercare esempi troppo espliciti di reminescenze poesche in Fenoglio, se quanto detto finora resta soprattutto un vago percorso fatto di lontane analogie o non suffragati accostamenti, esiste almeno un racconto in cui il richiamo è innegabilmente evidente: “Nella valle di San Benedetto”. Scritto per l’unica raccolta di narrativa breve pubblicata in vita, “I ventitré giorni della città di Alba”, e unico testo della silloge ad essere scritto in prima persona e ad essere all’ultimo momento escluso dall’assemblaggio definitivo nella versione pubblicata. I critici lo hanno giudicato un racconto ancora acerbo, forse uno dei primi, se non il primo scritto da Fenoglio. Ancora fortemente debitore — anche per la scelta della narrazione in prima persona (che potrebbe però essere semplicemente un esplicito richiamo al modello di Poe) — al diario pubblicato in seguito sotto il titolo di “Appunti partigiani” e scritto probabilmente “a caldo”, nel corso della guerra civile: il racconto si origina dal quinto capitolo di questi appunti, dedicato alla cronaca del grande rastrellamento antipartigiano e dell’episodio del partigiano che si nasconde in una tomba del cimitero di Feisoglio — episodio realmente accaduto durante l’accerchiamento di Mombarcaro nel marzo 1944 – ma Fenoglio modifica tempo e spazio della narrazione spostando l’azione al novembre del 1944, subito dopo la battaglia di Alba, e nel cimitero di San Benedetto Belbo, paese particolarmente caro allo scrittore. Il modello ovviamente — anch’esso distorsione fantastica di fatti reali — è ”The Premature Burial” di Poe. Del racconto di Poe è conservata, più che la struttura, l’atmosfera. Dopo il celeberrimo incipit: “Vi sono temi di fortissimo interesse ma troppo terribili per essere oggetto di narrazioni. Il romantico puro deve evitarli se non vuole offendere e disgustare i propri lettori ”, Poe enuncia il tema della narrazione: “Essere sepolto vivo è senza dubbio l’estremità più paurosa in cui possa incorrere il mortale” e di seguito enumera una serie di casi di inumazione prematura ripresi dalla cronaca a lui contemporanea per passare poi, dopo un’efficace descrizione delle condizioni fisiche e psichiche del seppellito vivo “L’oppressione intollerabile dei polmoni, le esalazioni soffocanti della terra bagnata, il freddo contatto delle vesti funebri, il rigido abbraccio della stretta prigione, l’oscurità della notte assoluta, il silenzio che sommerge come un mare, la invisibile e però sensibile presenza del verme conquistatore…”, al racconto dell’esperienza personale del protagonista.
Soggetto a crisi catalettiche, il narratore vive nel terrore di incorrere nello sgradevole incidente così incisivamente descritto; ossessionato dagli incubi e dalle morbose fantasie della morte apparente, infernale anticamera di quella definitiva, ha fatto approntare una serie di modifiche alle varie attrezzature mortuarie destinate ad accoglierlo nella luttuosa occorrenza in modo da assicurarsi un’agevole via di fuga dall’ipogeo: aperture dall’interno, aereazione, depositi di cibo e acqua, imbottiture supplementari, coperchi a molle e perfino una campana da collegarsi con una corda alla mano del presunto cadavere. Le precauzioni saranno però inutili: risvegliatosi in condizioni che subito gli fanno pensare ad un interramento conseguente all’ennesima crisi, non trova traccia dei dispositivi di sicurezza predisposti: “non mi trovavo nella cripta. Ero caduto in trance lontano da casa, fra estranei (dove, in che modo non ricordavo) e codesti estranei mi avevano seppellito come un cane”. Lo sventurato prova tutti i tormenti che aveva anticipato nella sua mente e quando infine prorompe in un grido di angoscia, voci irritate circostanti lo zittiscono: si è semplicemente addormentato nella cuccetta di uno sloop ancorato sul fiume James presso Richmond, così profondamente da non serbarne il ricordo al risveglio. Lo psicodramma sperimentato però guarisce completamente il nevrotico dai suoi deliri morbosi e dalle stesse crisi catalettiche: conclude Poe: “Purtroppo non si può considerare tutta immaginaria la triste legione dei terrori sepolcrali; ma, se non vogliamo che ci divorino, bisogna lasciare che dormano”.
Fenoglio riprende il contesto sepolcrale e lo traspone in tutt’altra situazione: questa volta la nekya è una sgradevole necessità e ne è motivo l’istinto di sopravvivenza. Per sfuggire a un rastrellamento tre partigiani si rifugiano nel cimitero di San Benedetto: uno solo dei tre avrà però il coraggio di chiudersi in un sepolcro occupato a fianco di ciò che resta del feretro, gli altri due cercheranno di salvarsi rispettivamente l’uno facendosi nascondere dal curato e l’altro muovendosi continuamente e cambiando sempre di nascondiglio. Inutile dire che, dei tre, solo chi ha osato sprofondare nella finta morte sfuggirà a quella vera. Il racconto inizia col protagonista già calato nella tomba e gran parte del racconto è un lungo flashback in cui vengono rapidamente narrati gli antefatti: l’inizio del rastrellamento, la battaglia di Castino, l’incontro coi tedeschi e la rocambolesca fuga, la paura degli abitanti del paese risolta in diffidenza verso entrambi i contendenti e infine la decisione di scendere con una coperta, un sacchetto di castagne secche e un bottiglione d’acqua — elemosinati da una contadina — in una tomba non troppo recente: quella “della maestra Enrichetta Ghirardi morta nel 1928”. L’incipit del racconto è davvero degno di Poe: “Respiravo bene, non sentivo assolutamente nessun tanfo e la parete alla quale mi appoggiavo era asciutta. Una tomba sana, davvero la migliore del cimitero di San Benedetto”, altrettanto poesche sono le considerazioni psicologiche del protagonista, la consapevolezza per esempio che “…Noi siamo gente che ha la disgrazia di avere fantasia…Ed è la fantasia che ci frega. Di questi tempi il più forte è quello che ha meno fantasia, che non ne ha per niente”. E’ infatti la fantasia morbosa il principale problema del partigiano che, calatosi nella tomba con preoccupazioni assolutamente concrete e razionali: “Non avevo più paura, la mia mente era piena soltanto di problemi fisiologici, mi domandavo soprattutto a che punto di dissolvimento poteva essere il corpo di una donna morta sedici anni fa”, si ritrova ben presto vittima di allucinazioni e terrori irrazionali:”Ora cominciava a farmi schifo anche respirare, mi pareva d’immettere nelle narici altra sostanza che l’aria. E i denti mi facevano male, me li sentivo allentati nelle gengive, mi dicevo che era per via che avevo spezzato e masticato tante dure castagne bianche, eppure era più forte l’idea che fosse decadimento fisico, principio di corruzione. Avevo sete ed impugnai il bottiglione, ma non ne toccai l’orlo con le labbra perché avevo la sensazione che esso fosse spalmato di quella stessa sostanza per cui inspirare l’aria mi faceva schifo, qualcosa come la membrana dell’ala di un pipistrello”. Il partigiano si fa forza, come un protagonista di Poe , come un Roderick Usher armato di Thompson, cerca di salvarsi razionalizzando: ”Non è il corpo, il corpo non sta male, è la tua immaginazione che si impone al corpo, che lo ammala”. Mano a mano, anziché calmarsi il terrore diventa sempre più cieco, prima si scatena dal disgusto fisico: “Avevo pazzamente afferrato il lume e me lo passavo accosto alle braccia, alle gambe, al petto, ai fianchi. Me li sentivo invasi dai vermi, ed altri vermi venivano ad assaltarmi da ogni parte. Vermi si staccavano dall’alto della parete e mi saltavano in testa, li sentivo intrufolarsi nei miei lunghi capelli e poi muoversi come pidocchi”; infine cede alla superstizione più atavica: “Gridai: – Pietà ! Pietà ! Pietà, maestra Ghirardi ! … Avevo chiamato la morta, sarebbe certamente venuta, i miei occhi si preparavano a vederla, c’era già davanti ad essi o in essi una grande macchia bianca. Non potevo lasciar venire la morta, dovevo fermarla, afferrai il Thompson e feci una raffica da sinistra a destra, dal basso in alto, una croce di colpi”.
Al culmine della follia il partigiano si rende conto che i suoi spari e le sue grida attireranno i tedeschi, che la fantasia lo ha forse perduto e in una claustrofobica reminescenza infantile — ancora pieno Poe — ricorda i giochi a nascondino fatti da bambino, quando, non sopportando più di star rimpiattato trattenendo il respiro, si arrendeva ancora prima di essere trovato attirando volontariamente l’attenzione del cercatore e consegnandoglisi spontaneamente. “Quel ricordo mi cadde addosso come un’irrimediabile condanna”. Proprio nel momento in cui sta per uscire dal nascondiglio e andare incontro ai tedeschi, vinto dalla disperazione, sopraggiunge un provvidenziale stato comatoso: “Come potei addormentarmi, quando maggiore era la mia angoscia ? Forse il nostro corpo sente a volte pietà della nostra anima”. Un incubo claustrofobico in cui si vede schiacciato dalle pareti e dal soffitto di granito di una prigione — breve sequenza che fa pensare ad un altro celeberrimo racconto di Poe: “The Pit and the Pendulum” — lo fa finalmente risvegliare. Sente stridere la ghiaia del vialetto: non si tratta dei tedeschi ma di un becchino che lo aiuta a spostare la pietra tombale e uscire all’aria aperta. La sorpresa finale sarà sinistra: ad attendere il novello Lazzaro solo due bare: “Camminai sulla ghiaia verso le due casse ed il becchino mi seguiva dappresso e certo mi parlava, ma le sue parole si disfacevano prima d’entrare nelle mie orecchie. Mi fermai tra le due casse. Le misurai con gli occhi e mi dissi che questo era Giorgio e che quello era Bob. Me lo dissi ad alta voce. M’inginocchiai, posai una mano sulla cassa di Giorgio e l’altra sulla cassa di Bob ed oltre il cancelletto guardai là dove finisce la valle di San Benedetto”.
Un explicit che riecheggia tutta una tradizione: Fenoglio doveva conoscerla assai bene per saperne riprodurre gli effetti in modo così ellittico eppure così preciso. E’ pensabile che proprio questo senso di déjà vu, questo ricorso all’effetto, al macabro e al sensazionalistico, facesse ritenere all’autore che il racconto non fosse tra le sue cose migliori, tanto da eliminarlo dalla sua prima raccolta di narrativa breve. Parere che ci permettiamo di non condividere: proprio per questa sua riconoscibilità e riconducibilità a una fonte precisa e non accreditata, il testo è perfettamente riuscito e lo collocheremmo, per quanto ci riguarda, tra i lavori più amati di uno scrittore amato.