di Sandro Moiso
(n.b. Le opinioni espresse nel presente intervento sono da attribuire esclusivamente all’autore e in nessun modo alla redazione di Carmilla nel suo insieme)
Da molti anni non affido le mie speranza di rinnovamento sociale alle urne elettorali, sia in occasione delle elezioni amministrative che di quelle politiche.
Ciò non toglie però che ogni risultato elettorale debba essere vagliato ed analizzato, anche per il poco che può rivelare dello stato di cose presenti. E, da questo punto di vista, l’ultima tornata elettorale, italiana ed europea, non presenta novità di poco conto… anzi.
Diciamolo subito: c’è poco da gioire per la vittoria di Hollande.
Un candidato anonimo che ha vinto più per l’insofferenza dei francesi nei confronti dell’ormai decotto duo Sarkò-Carlà che per i propri meriti personali.
Un candidato di “sinistra” che sotto il tavolo si prepara a far piedino alla solita cancelliera e che ha già dichiarato che “la TAV è essenziale per lo sviluppo e il rilancio dell’economia europea” ha ben poco di interessante da proporre a chi medita su come uscire positivamente, in termini di classe, dalla crisi attuale. Piace pure a Monti, e quindi alla Trilateral e a Goldman Sachs, che c’è da dire d’altro?
Sì, qualcos’altro da dire forse c’è, ovvero che lo striminzito 51,9% con cui Hollande ha battuto Sarkozy non a caso è stato sventolato come un trionfo non solo dal nostrano PD, ma da tutte le forze interessate a mantenere la dittatura bancaria europea sulla forza lavoro.
Da Sergio Romano, sulle pagine del Corriere della sera, a Repubblica tutti cercano di spacciare il modesto socialista francese post-mitterandiano come un reale vincitore e valido compagno di viaggio nella gestione dell’economia continentale. Come dire. “Più Hollande, più sviluppo”.
Ma là dove gli asini non volano e si guarda alla realtà dei fatti si vedrà che anche in Francia le cose non stanno esattamente come le si vorrebbero presentare.
Intanto l’astensione , anche se è stata inferiore alle aspettative, si è comunque attestata intorno al 20%, mentre la destra populista e razzista di Marina Le Pen dopo aver raggiunto il 17,90% dei voti non ha premiato le sparate nazionaliste e razziste della seconda parte della campagna elettorale del presidente uscente proprio perché uno degli elementi cardine della campagna della Le Pen era costituito dall’indirizzo anti-europeo e anti-bancario.
In più c’è da dire che la presunta pacatezza della campagna di Hollande non è stata dettata da altro che dall’impossibilità di definire, con più rigore e precisione, le strategie destinate a soddisfare le speranze di minori sacrifici in lui riposte da una parte dell’elettorato francese, di sinistra e non. Elettorato che, va ancora aggiunto, non è ancora stato colpito dai pesanti tagli occupazionali, salariali, pensionistici e assistenziali che hanno invece già colpito gli elettori greci ed italiani.
Non è possibile stare col piede in due scarpe: le politiche del rigore della BCE e della Germania non possono più convivere, fuori dai confini tedeschi, con nessuna forma di Welfare o di protezione del lavoro. Non ci sono più i margini di trattativa. Chi afferma il contrario ha già deciso di arrendersi al capitale finanziario internazionale, alla BCE e al FMI.
Questo è stato ben compreso dagli elettori greci che, nonostante il 40% che ha disertato significativamente le urne, hanno punito duramente i partiti del rigore (Nuova Democrazia e Pasok) e premiato le ali estreme dello schieramento politico, in particolare i partiti di sinistra (Syriza e Sinistra Democratica) e di estrema sinistra (Kke). Ma anche la destra estrema e para-nazista di Alba Dorata. Unico comune denominatore: l’opposizione, diversamente manifestata e motivata, alle politiche del rigore europee e, in qualche caso, alla stessa Unione Europea.
Il fastidio e, in alcuni casi, il sarcasmo con cui sono stati trattati i risultati elettorali greci e il tentativo, rispedito malamente al mittente dal ministro del tesoro tedesco, del rappresentante di Syriza, chiamato per due giorni a cercare di formare un nuovo governo, di ridiscutere i patti assolutamente suicidi firmati dal precedente governo indicano chiaramente che il mondo finanziario europeo ed internazionale, così come il capitale tedesco, non ha nessuna intenzione di rispettare le decisioni democraticamente prese da una nazione o dai rappresentanti politici dei lavoratori e dei giovani della stessa.
Anzi, le minacce e i richiami al golpe dei colonnelli del 1967 si sono fatti evidenti negli ultimi giorni e non ci sarebbe affatto da stupirsi se, di fronte ad un nuovo risultato elettorale negativo in giugno, queste dovessero realizzarsi.
Anche se in un paese con il numero più elevato di bambini malnutriti tra quelli occidentali, con una disoccupazione galoppante e una riduzione drammatica degli stipendi questo significherebbe sostanzialmente aprire la strada ad una possibile guerra civile.
Non ho mai subito il fascino della retorica anti-fascista e della demagogia resistenziale con cui si sono ammantati i padri della patria nostrani, ma la presenza tra le file degli oppositori ai piani europei di personaggi come Manoliz Glezos, il novantenne partigiano della resistenza anti-nazista, accanto ai giovani che hanno tenuto per settimane la piazza antistante al parlamento greco, sotto lacrimogeni e manganellate, fa sicuramente ben sperare in una possibile e ritrovata unità di classe, anche generazionale, sul suolo dell’Ellade.
La burrasca scatenata in Italia dalle recenti elezioni amministrative, che hanno coinvolto circa dieci milioni di elettori, è stata però altrettanto significativa e se Atene (in questo caso Pdl e Lega) piange, Sparta (PD e IdV) certo non ride. E tanto meno ride il tiranno di turno nella figura rapidamente logoratasi di Mario “ex- Super” Monti.
Da qualunque parte le si guardi queste elezioni dicono una cosa : basta con le balle rigoriste e con tutte le altre. Ecco appunto: basta!
L’affanno con cui i rappresentanti dei partiti più trombati (Pdl e Terzo Polo, quest’ultimo mai nato ma già morto per un intervento abortivo di Casini) si sono affannati a prendere le distanze da Monti e dalle sue politiche è sintomatico. Se vuole recuperare qualcosa Berlusconi dovrà seguire la Lega sulla via del populismo anti-europeo e anti-rigorista (in questo caso, non dovrebbe nemmeno essere necessario dirlo, a favore di evasori e piccoli imprenditori disperati), mentre Casini, nel suo voler andare “oltre il Terzo Polo” non potrà far alto che ricercare un accordo con i berlusconiani delusi (dalle tasse). L’ABC è finito, stracciato e buttato via dall’alba di domenica 6 maggio al pomeriggio di lunedì 7. Amen, si passi al nuovo.
Bersani, autentico genio della politica, da un lato comincia a vagheggiare per sé un governo post-montiano e, dall’altro, spera in un rilancio dell’alleanza con lo sbandato Casini, ovvero “salvate il soldato Casini” e salviamoci dalla ventata populista. Sì perché, nonostante gli scongiuri e le figuracce del novantenne Giocoliere della Repubblica, il populismo dei grillini ha dimostrato di essere diventato una significativa realtà, Proprio mentre tutti i topi cominciano ad abbandonare una nave che affonda.
Ora però, se si vuole davvero comprendere e contrastare il populismo variamente travestito che si sta sviluppando in Europa, occorre analizzarne i motivi di forza e gli spazi politici che gli sono stati lasciati aperti e il tipo di elettorato che lo contraddistingue e lo sostiene.
Affermazioni come quelle fatte dal “Manifesto” nei giorni scorsi, secondo il quale il Movimento 5 Stelle è andato a caccia dei voti perduti dalla Lega e dal Pdl, non solo sono solo parzialmente vere, ma anche sostanzialmente fuorvianti per la comprensione del fenomeno.
Anche le riduzioni del populismo ad anti-politica sono fuorvianti e riduttive.
Certo il voto populista è contrario alle politiche e ai partiti istituzionali, ovvero a quelle forze politiche riconducibili ad un ambito parlamentare dato, ma è anche sostanzialmente “politico” nel senso di voler affermare qualcosa che nella politica istituzionalizzata sembra esser venuto a mancare.
Cerca, nella sostanza e nella forma, un approccio più diretto ai rapporti tra cittadini e Stato, eludendo a livello teorico il problema fondamentale della funzione dello Stato nella società moderna.
In questo il Movimento 5 Stelle di Grillo adegua ai tempi ciò che all’inizio degli anni novanta era stato già, almeno in parte, uno dei punti di forza e di attrazione della Lega di un Bossi ancora giovane e “promettente”.
Certo i modi sanguigni, talvolta cialtroneschi, del comico genovese rinviano al palco da rock star su cui si muoveva un più atletico Senatur, ma qualche differenza di riferimento (ambiente più che semplice localismo) è intervenuta nel frattempo a rinnovare il populismo oggi più in voga.
Quello che preoccupa, però, non è tanto il dietro-front con cui una parte delle forze politiche è passata, PD in testa, dall’insulto e dall’anatema alla rassegnata accettazione della nuova e ingombrante presenza politica con cui occorrerà presto fare i conti (anche in termini di alleanze), ma, piuttosto il rischio che forze che si richiamano in qualche modo al movimento antagonista finiscano col sussumere nella propria teoria e nel proprio operato i contenuti tipici del movimento di Beppe Grillo.
Per questo va detto a chiare lettere che non può esistere un populismo “di sinistra”; perché ogni populismo, dalla Lega a Grillo passando per la Le Pen, affonda le sue radici nel nazionalismo, nel più biecolocalismo, nel giustizialismo e nella riduzione ad interesse privato ed egoistico di tutte le sofferenze sociali ed è sempre destinato a sfociare in derive autoritarie, a dispetto delle premesse politiche iniziali. Il richiamo delle sirene populiste è forte, ma altrettanto ingannatore del canto di quelle che cercarono di ammaliare Ulisse e i suoi compagni.
Anche per questo un Bossi, ieri, e, magari, un Grillo domani saranno sempre ben accetti (beh, forse con qualche smorfia di circostanza) nei salotti buoni della borghesia e della politica. Come dire: sono dei barbari e dei cafoni, ma meglio che la protesta si esaurisca attraverso di loro, piuttosto che si organizzi in altre forme destinate a svilupparla diversamente e più compiutamente
Ma, detto ciò, non si può assolutamente escludere che, in determinati frangenti, un numero anche consistente di lavoratori o di elettori non possa pensare di aggrapparsi ad una forza o ad un leader che faccia sue, in maniera caotica, egoistica e disordinata, le speranze precedentemente riposte “a sinistra”. Per cui la nascita, lo sviluppo e il rafforzamento dei movimenti populisti è sempre da addebitare, principalmente, all’incapacità delle forze politiche di sinistra di mantenere i propri riferimenti ed obiettivi di classe.
Da Peron ed Evita a Bossi, dalla LePen a Grillo non solo si assiste, come avrebbe fatto notare il solito Marx, alla trasformazione della tragedia in farsa, ma al passaggio da rivendicazioni proletarie ed antagoniste a rivendicazioni spesso razziste, moralistiche e autoritaristiche di stampo fascista. Che, ricordiamolo, presero il via da uno scafato ex-leader giovanile del Partito Socialista Italiano. Per questi motivi populismo e fascismo, quasi sempre. si assomigliano ed entrambi germogliano dagli errori e dai fallimenti della sinistra.
Sinistra che, per essere tale e anche solo per essere riformista, non può che essere internazionalista, anti-capitalista e rappresentativa delle istanze sindacali e di classe dei lavoratori (anche nei termini del proletariato diffuso di oggi), capace sempre di universalizzare i contenuti delle lotte. La Sinistra che si vuole tale, ma è succube degli interessi imprenditoriali, produttivi e nazionali non può che aprire la strada al populismo.
Proprio per questo, fuori dai parametri precedenti non c’è sinistra che tenga nei confronti delle ondate politiche populiste.
Ondate populiste che, nella notte oscura, fan sì che tutte le vacche diventino grigie e i suicidi, pur drammatici, degli imprenditori oberati di debiti finiscano col pesare più delle quotidiane morti sul lavoro o dei suicidi dei disoccupati e che i dirigenti “esodati” costituiscano un problema pari a quello dei lavoratori licenziati e dei giovani disoccupati.
Occorre prestare molta attenzione, dunque, alle parole d’ordine che si cavalcano. Sinistra e populismo sono, e devono rimanere, due cose diverse; hanno obiettivi diversi e si rivolgono con finalità diverse ad un pubblico diverso. Come in un dialogo di “Pulp Fiction”, non sono lo stesso gioco, non hanno le stesse regole e non si giocano sullo stesso campo.
Oggi si è aperta in Europa e in Italia una nuova aspra stagione di confronti e di lotte di classe. Dire chi uscirà vincitore e come e quando è ancora difficile e qualsiasi pronostico sarebbe dunque più che azzardato.
Ma in un’epoca, paradossalmente, non così diversa dall’attuale Simone Weil ebbe a scrivere:” Davanti ai pericoli che la minacciano, la classe operaia tedesca si trova a mani nude. Ovvero, si è tentati di chiedersi se per essa non sarebbe meglio trovarsi a mani nude; gli strumenti che essa crede di tenere in pugno sono manipolati da altri, i cui interessi sono contrari, o quanto meno estranei ai suoi.”
L’anno era il 1932 è il testo è tratto da una corrispondenza dalla Germania della stessa Weil, pubblicata in “La Révolution prolétarienne” dell’ottobre dello stesso anno.
I pericoli per la classe operaia tedesca erano rappresentati dal nazismo ormai quasi prossimo al potere e dalle contorsioni politiche, da una parte, di un partito comunista e di una Internazionale stalinizzata, dall’altra, che di lì a qualche anno avrebbero ceduto alle lusinghe hitleriane con il Patto Ribbentropp — Molotov.
In una situazione in cui il previsto sciopero generale unitario dei sindacati confederali si è rapidamente trasformato in una manifestazione a Roma nel pomeriggio del 2 giugno c’è ancora da chiedersi se le parole della stessa autrice non siano ancora più che valide.
“E’ la struttura stessa dei sindacati tedeschi a vietare loro di distaccarsi dall’attuale sistema sociale, sotto pena di andare in frantumi. [… ] sarebbe impossibile per i sindacati tedeschi cambiare orientamento, e diventare strumenti in grado di abbattere il regime.
[…]E via via che la crisi scuoteva sempre più duramente il regime capitalista, i sindacati tedeschi, invece di staccarsi dal regime, si sono effettivamente aggrappati con crescente timore all’unico elemento di stabilità, il potere dello Stato. Già da molti anni la confederazione sindacale tedesca ha apertamente subordinato la propria azione allo Stato accettando ciò che i Tedeschi chiamano il “principio delle tariffe”. Secondo questo principio, ogni contratto di lavoro ha forza di legge, ogni vertenza deve essere obbligatoriamente portata davanti a un tribunale di arbitraggio la cui decisione ha a sua volta la forza di legge. Se gli operai vogliono scioperare senza che i padroni abbiano violato le condizioni imposte dal contratto di lavoro o dalla decisione arbitrale, i sindacati legati dalla Friedenspflicht (dovere di pace), devono opporvisi, sotto pena di cadere nell’illegalità.
Beninteso, l’apparato sindacale rispetta scrupolosamente la Friedenspflicht, non solo privando di qualsiasi sostegno tutti gli “scioperi selvaggi”, cioè non approvati dal sindacato, ma altresì espellendo, di volta in volta, gli iscritti al sindacato che vi partecipano”.
Queste parole provengono dalla stessa corrispondenza e appartengono allo stesso anno e soltanto per una apparente distorsione cronologica possono sembrare appartenere ad un’epoca lontana dalla nostra.
L’epoca, purtroppo, è sempre quella del dominio del capitale sul lavoro e del lavoro morto accumulato sul lavoro vivo. Anzi, l’aspirazione alla dominazione tirannica e totalitaria del capitale finanziario sulle esigenze di vita e rinnovamento della maggioranza della società è sempre viva, oggi come al tempo del nazionalsocialismo. Con buona pace di chi s’accontenta di affidarsi al valore delle costituzioni, degli Statuti dei lavoratori (dimenticando forse che fu il fascismo a dar vita alla prima “Carta del lavoro”) e dell’articolo 18.
Sono però, ancora una volta, altre parole della Weil, tratte da un altro articolo del dicembre del 1932, ad avvicinare ancora di più i due periodi storici :
“Ogni grave crisi solleva in tutti gli strati della popolazione, eccetto i più alti, masse in rivolta; tra queste masse ci sono uomini capaci di essere gli artefici coscienti e responsabili di un nuovo regime. Ma ci sono, in numero maggiore, uomini incoscienti e irresponsabili, capaci solo di desiderare ciecamente la fine del regime che li schiaccia. Riuniti dietro ai primi, essi costituiscono una forza rivoluzionaria; ma se un uomo riesce, ed è il caso di Hitler, a riunirne a parte il maggior numero, essi cadono inevitabilmente sotto il controllo del grande capitale, al cui servizio formano delle bande armate per la peggiore reazione, per la dittatura, per i pogrom.
[…] Tra questi ultimi, che almeno in parte sono nelle truppe d’assalto in qualità di semplici mercenari, si trovano molti adolescenti tra i quindici e i diciotto anni, che a malapena appartengono alla classe operaia; perché c’era già la crisi quando hanno finito di studiare e di lavoro non se ne parlava nemmeno.[…] La loro parola d’ordine principale è «contro il sistema»”.
Alba dorata in Grecia, Forza Nuova in Italia rappresentano perfettamente, a lato degli altri movimenti populisti più moderati, questa stessa tendenza: la volontà acefala di rottura con un sistema in cui però nazione e finanza sono separati attraverso un’acrobazia dialettica che separa il capitale dallo stato…così come alla fine fanno tutti i difensori e finti riformatori dell’ordine esistente.
“Un operaio tedesco, anche hitleriano, resta innanzitutto un operaio. E soprattutto i giovani operai conservano intatto, nel movimento hitleriano, il sentimento che alberga in tutta la gioventù operaia tedesca, il sentimento imperioso di un avvenire che appartiene loro, al quale hanno diritto, dal quale il sistema sociale li taglia fuori spietatamente, e per il quale bisogna mandare a pezzi il sistema”. Sono, ancora della Weil, parole dure, aspre, chiare.
Ben prima però che una parte significativa di diseredati si trasformi in una micidiale macchina da guerra nemica, cui potrà essere data soltanto una risposta di tipo militare, occorre fare estrema chiarezza sulle tattiche e le parole d’ordine che una sinistra reale deve tenere a mente e portare avanti.
Perché chi intende ancora barcamenarsi tra Monti e la Merkel, tra il Sì-TAV e gli interessi bancari e di impresa è già condannato a sparire dall’agone politico.
Rinunciare alle parole d’ordine anti-capitaliste, al rifiuto di pagare un debito accumulato da altri che continuano ad arricchirsi sullo stesso, al rifiuto delle spese militari e delle politiche imperialistiche travestite da missioni di pace; rinunciare al rifiuto dello sperpero della ricchezza sociale in opere faraoniche inutili e dannose destinate ad arricchire le mafie della finanza e del cemento; rinunciare alla difesa degli interessi di classe, dei giovani precari, dei disoccupati e dei lavoratori anziani, delle donne e degli immigrati significa abbandonare un mondo di rabbia, pronta ad esplodere positivamente, alle forze della conservazione sociale.
Questo deve essere compreso da chi, oggi, vuol essere a Sinistra in Europa: dall’Italia alla Grecia, dal Portogallo all’Irlanda e dalla Spagna alla Francia e, perché no, anche alla Germania.
Nella classe, nella sua difesa e nell’affermazione della sua autonomia politica ed organizzativa sta l’unica forza in grado di contrastare qualsiasi reazione, qualsiasi ricatto, qualsiasi minaccia e soltanto agendo in nome di chi è sempre più escluso dalla ricchezza sociale che ha contribuito a produrre, si potrà avere la capacità, il carisma e la forza per raccogliere il rifiuto delle politiche di austerità espresso collettivamente e, anche, le forze confuse e disperse delle classi medie.
Perché, alla fine, l’antagonismo su basi classiste è l’unica forza destinata a rinnovarsi e a ripresentarsi periodicamente nell’ambito del perpetuo sommovimento economico e politico della società moderna. Potrà anche non chiamarsi comunista, potrà anche non chiamarsi Sinistra (definizioni che ormai sembrano troppo spesso dire tutto e nulla), ma sarà sempre il prodotto naturale delle contraddizioni di una società basata sullo sfruttamento intensivo dell’uomo e sullo spreco e la distruzione delle risorse ambientali. Tutti i populismi sono invece destinati a perire e ad essere dimenticati, prima di tutto,dai loro stessi elettori e sostenitori momentanei. Traditi dalle loro stesse fasulle premesse e false aspettative.
N.B. Tutte le citazioni di Simone Weil sono tratte da “La Germania in attesa” (La Révolution Prolétarienne, n° 138, 25 ottobre 1932 ) e da “La situazione in Germania” (serie di dieci articoli comparsi su “L’École émancipée” dal 4 dicembre 1932 al 5 marzo 1933).
Gli articoli sono tutti reperibili, insieme ad altri, in: Simone Weil, Sulla Germania totalitaria, Adelphi, Milano 1990.