Incipit del primo romanzo di Francesco Troccoli, edito da Armando Curcio, pagine 320, Euro 15,90.
Il piede destro scivolò sulla roccia coperta di licheni che la maggior parte dei mondi aveva dimenticato da millenni, e ruotando sul sinistro mi ritrovai con una metà del corpo libera nell’immensità. Sotto di me, un salto di duemila metri.
Ondeggiando, ritrovai un appiglio per puro caso.
Chi diavolo me lo ha fatto fare. Avrei potuto rifiutarmi. Dopotutto sono un veterano. Mi ero ripetuto il pensiero per l’intera durata dell’arrampicata.
La dorsale nord del massiccio di Hebron su Harris IV è una parete molto impegnativa, soprattutto se hai quarantatre anni e sei partito che hai già una gran voglia di tornare a casa. Ma c’era in gioco una quantità di soldi che non mi aveva permesso di esitare quando, tre giorni prima, il vecchio Kala mi aveva offerto quel “simpatico lavoretto”.
Era proprio così che lo aveva chiamato. Una cosa giusta per te, Tobruk. Fottutamente facile.
Mentiva, come al solito, e sapeva che lo sapevo, il che lo divertiva da morire.
Detestavo quell’uomo e la cinica disinvoltura con cui mandava la gente al macello. Aveva sempre usato quella tattica, sin dai tempi in cui era stato un capo-distretto della mafia di Boleda; possedeva un fiuto eccezionale per scovare le persone disposte a fare qualunque cosa gli occorresse. Individui che avevano un disperato bisogno di denaro per lasciare il pianeta, su cui erano stati banditi, o maledetti, oppure per comprarsi la conversione di una condanna ad una morte lenta e dolorosa in un’esecuzione rapida e con tanto di sedativi.
Da quando era Governatore del sistema di Harris, il bastardo non aveva cambiato i suoi metodi. Anzi, con la copertura economica dell’Oikos li aveva persino affinati, e avvolti in un manto di legalità.
Per fortuna il tratto verticale era quasi finito. Notai che circa dieci metri sopra la mia testa la parete sembrava interrompersi e giudicai che in quel punto potesse esserci un’inclinazione, che mi avrebbe regalato un cambio di pendenza quanto mai provvidenziale.
Era solo una possibilità, naturalmente, ma era più che abbastanza; estrassi la pistola, puntai in alto e sparai un grappino auto-sigillante.
Provai la tenuta del cavo, che era uscito per dodici dei venti metri in dotazione, e decisi che il grappino aveva arpionato una zolla non troppo friabile. La stanchezza non mi lasciava abbastanza lucidità per valutare alternative meno fortunate, e in ogni caso non avevo un’altra strategia per procedere oltre.
Harris IV non lascia mai molte possibilità di cavarsela indenni. Il sistema di cui fa parte è amministrato da una delle sue famiglie più potenti e sanguinarie, gli Harris, appunto, e il quarto pianeta è stato colonizzato da poco più di un secolo. Un pianeta appena terraformato è come un bambino capriccioso e malato; si agita continuamente, piange, sputa e tira calci. E se si incazza sul serio vomita all’improvviso. Lava e massi incandescenti, per lo più, o se non sei tanto fortunato, gas tossici spruzzati da geyser a duecento gradi.
Avevo perso le ventose antigravitazionali duecento metri più in basso e, finché c’erano state quelle, era stato facile come una passeggiata. Riuscii ad azionare i punzoni degli stivali e a forza di calci piantai il piede destro nella parete; mentre scaricavo tutta la forza che mi rimaneva sull’addome per far leva e assumere una posizione eretta, quasi innaturale su una parete tanto ripida, sentii le ossa della schiena scricchiolare in più punti. Mi ricordai dell’aggressione che avevo subito due giorni prima; su Harris IV le voci girano in fretta, ed ero perciò convinto che fosse stata opera dei compari di quelli cui stavo dando la caccia. Ma ero talmente imbottito di tetraetilmorfina che non sentii alcun dolore; prodigi dei farmacologi del Dipartimento di Ricerca dell’Oikos. Mi domando spesso quale meraviglioso mercato nascerà per tutte queste droghe pensate per noi militari: oppiacei potenziati, endorfine di sintesi, derivati della tanatina e stimolatori steroidogenici; proprio un business niente male. Avrei dovuto prenderlo in seria considerazione, con tutta l’esperienza personale che avevo accumulato negli ultimi anni.
Diedi un gran colpo di reni che in altre circostanze mi avrebbe costretto a mollare la presa sul cavo e prendere il volo nel vuoto, e finalmente riuscii a muovere i primi passi. Dopo essere avanzato ancora, mi resi conto che avevo visto giusto: il tratto verticale era finito, e mi trovavo sul ciglio di un gradone quasi orizzontale, con un lieve pendio, che per la felicità mi sembrò placido come una spianata per turisti pazzi in cerca di facili abbronzature sotto i tre soli di Harris.
Riacquistai una posizione verticale, mantenendo stretto il cavo. Poi allungai le braccia sulla terra nera e mi tirai su, felice come un bambino che è riuscito a salire sul letto del papà per la prima volta. Quando entrambe le ginocchia furono saldamente poggiare sul piano, mi lasciai andare e rotolai per qualche metro. Riavvolsi il cavo nella pistola e la misi via nello zaino, poi estrassi il Mariner.
La parte peggiore era passata. Secondo il Mariner, l’ingresso della grotta era a circa una lega, nel punto in cui alla fine del gradone iniziava un’altra parete, a cui stavolta avrei mandato le mie maledizioni dal basso.
Dannati vulcani.
Guardai il cielo, e ciò che vidi non prometteva nulla di buono. Su Harris IV una mappa satellitare è valida per non più di qualche giorno, a volte anche meno. Frane, smottamenti, eruzioni e tempeste modificano continuamente l’orografia del territorio, e per essere certo che quel che leggi è corretto sei costretto a fare continuamente il download degli aggiornamenti. Ce n’è uno ogni sei ore. Ma io non ne avevo avuto il tempo.
Una cosa giusta per te, Tobruk. Fottutamente facile.
Sentii il torrente di calore avvampare su ogni centimetro quadrato di pelle esposta all’aria, ma non attesi che superasse i miei abiti per capire e mettermi a correre come un disperato. Dovevo avere un paio di costole rotte, ma non me ne accorsi nemmeno; la tetraetilmorfina stava facendo egregiamente il suo lavoro. Le mie gambe avevano preceduto il mio cervello e correvo oltre i miei limiti.
Hebron è un vulcano spento, ma è circondato da fratelli più grandi, molto attivi e pieni di rabbia. Un cratere secondario doveva essersi aperto nella montagna a fianco, e avevo solo qualche minuto prima che una pioggia di massi infuocati mi desse il benvenuto sulla spianata. La vibrazione del suolo era debole; doveva trattarsi di un’eruzione di piccola portata, ma sarebbe bastata per cancellarmi dal pianeta.
Corsi più in fretta della nube di fuliggine che mi sovrastava. Avevo impostato il Mariner sulle coordinate della grotta, e così seguii il segnale acustico sparato a tutto volume per dare una direzione precisa alla mia fuga dall’ira del vulcano. Il bip-bip era sempre più veloce, segno che andavo dalla parte giusta. Ad ogni passo, qualcosa in me decise l’ordine delle priorità fra ascoltare il suono intermittente che mi portava in salvo o respirare.
Vidi la grotta e mi ci tuffai dentro; il foro d’ingresso aveva un’altezza di un metro al massimo. Grazie ai sensori della casacca i proiettori si accesero e illuminarono il percorso; continuai a correre per una cinquantina di metri. Non era necessario, ma volevo sentirmi al sicuro dal magma e dalla pioggia infuocata. Mi resi conto che il pavimento della grotta saliva, proprio come il gradone di fuori, e questo mi tranquillizzò ulteriormente.
Ero al sicuro.
Questa considerazione ebbe vita breve, perché avvertii presto un gran puzzo di tiocianato, che precede notoriamente l’arrivo di sostanze poco gradite all’organismo umano. Valutai che avevo pochi minuti prima che l’aria si saturasse di gas velenoso. L’idea di diventare cibo pregiato per i vermi del sottosuolo non mi andava a genio.
Scaraventai lo zaino a terra ed estrassi le cariche. Se non fosse stata quella la grotta che cercavo, dopo aver fatto saltare la volta sarei potuto morire soffocato in quel lugubre antro, ma almeno avrei avuto qualche ora in più per pensare alla vita che avevo vissuto fino a quel momento.
Accesi gli inneschi e ripresi a correre verso la profondità. Fortunatamente non incontrai ostacoli. L’altezza della volta saliva, e raggiunse quasi tre metri, o così mi parve. Questa straordinaria corrispondenza con le dimensioni e le esigenze degli esseri umani mi fece pensare che ero finito nel posto giusto. Dopo quattro minuti mi fermai, mi stesi in terra e mi rannicchiai con la testa avvolta fra le braccia; non potevo prevedere le conseguenze dell’esplosione a quella distanza.
Percepii un tonfo sordo, e dopo cinque o sei secondi arrivò anche una violenta onda d’urto; ma a parte un vapore residuo che giunse già esile e rarefatto, non avvertii altro.
Ero vivo, e a parte le costole rotte e qualche graffio, non mi pareva di avere ferite degne di menzione.
Decisi di riposare, un’ora al massimo.
Chi diavolo me lo ha fatto fare.
[Francesco Troccoli, è scrittore, traduttore e speaker. Autore di diversi racconti, ha vinto numerosi premi letterari, tra i quali il Giulio Verne. Firma le pagine di «Fantascienza e dintorni» ed è membro del collettivo di autori «La Carboneria letteraria». Ferro Sette è il suo primo romanzo.]