di Silvia Di Fresco
Intervento letto al convegno del Centro Studi per la Scuola Pubblica (CESP) I test Invalsi: stravolgimento della didattica, riorganizzazione neoliberista della scuola pubblica. Analisi e prospettive di lotta e di didattica resistente, Bologna, 20 aprile 2012. I video degli interventi di Matteo Vescovi, Valentina Millozzi, Enrico Roversi, Massimiliano Tagliente, Girolamo De Michele, Silvia Di Fresco, Antimo Santoro, Luca Castrignanò sono visibili qui.
È oramai dal DM. n. 9 del 22 gennaio 2010 che chi insegna alle superiori deve far i conti con la certificazione dei saperi e delle competenze, poiché, ci viene detto, è necessario a quegli alunni che assolvono l’obbligo d’istruzione. I saperi e le competenze da certificare riguardano 4 assi culturali: dei linguaggi, matematico, scientifico-tecnologico, storico-sociale con riferimento alle otto competenze chiave di cittadinanza peraltro simili, ma non uguali, a quelle raccomandate dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 18 dicembre 2006 (L 394 del 30.12.2006, p. 10).
Secondo la Raccomandazione del Parlamento europeo relativa a competenze chiave per l’apprendimento permanente (2006/962/CE), le principale competenze sono:
1. comunicazione nella madrelingua
2. comunicazione nelle lingue straniere
3. competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia
4. competenza digitale
5. imparare a imparare
6. competenze sociali e civiche
7. spirito di iniziativa e imprenditorialità
8. consapevolezza ed espressione culturale
Le competenze individuate dal ministro Fioroni (DM 139/07) e confermate da Gelmini sono:
1. imparare a imparare
2. progettare
3. comunicare
4. collaborare e partecipare
5. agire in modo autonomo e responsabile
6. risolvere problemi
7. individuare collegamenti e relazioni
8. acquisire ed interpretare l’informazione
Chi mi ha preceduto ha già evidenziato il rapporto tra Europa e Istruzione, e l’apparente differenza nella declinazione delle competenze italiane che risiede nella difficoltà, messa in conto dai ministri riformatori, di fare accettare senza polemiche l’entrata esplicita dell’economia nella cultura scolastica italiana. Si è preferito tradurre le raccomandazioni europee con definizioni più generiche e apparentemente etiche per poi attuare, senza problemi, la linea scolastico – economica dell’Unione. Bisogna inoltre sottolineare che l’unico punto a coincidere perfettamente è quello relativo alla flessibilità dell’individuo (imparare ad imparare), segno già di per sé esplicito dello scopo del concetto di competenza nel sistema educativo nazionale e non. Infatti tale obiettivo pedagogico non è inteso, da siffatti documenti, secondo l’ottica di didattica meta cognitiva che gli sarebbe propria, come per esempio favorire collaborazioni interdisciplinari al fine di sviluppare nel discente un insieme di abilità trasversali utili al suo processo evolutivo, bensì si sottolinea, con questa espressione, l’opportunità di educare l’alunno ad accettare quanto di volta in volta gli viene proposto nel mondo del lavoro, rinunciando così a conoscenze ed abilità specialistiche in nome di una ben più duttile capacità di adattarsi al mercato.
Come vedremo in seguito, i vari ministri italiani dell’istruzione hanno preferito iniziare ad inserire il termine “competenza” nei documenti che riguardavano la fine dei percorsi scolastici, poiché, come abbiamo constatato con l’Invalsi in Terza Media, cambiare le modalità di uscita è il modo migliore per condizionare i programmi d’insegnamento. Non stupisce quindi che anche le case editrici, consce di ciò, si siano adattate a tali modifiche facendo proliferare libricini per allenarsi sia alle prove Invalsi sia alle competenze. Ma in che cosa consistono tali competenze di cui tanto sentiamo parlare? Quando si è cominciato ad usarle come parametro del sistema formativo? In che modo esse si intrecciano con l’INVALSI?
Iniziamo a cercare di rispondere a questi interrogativi partendo proprio da uno di quei volumetti in cui le parole “Competenze” e “Invalsi” sono sempre indissolubilmente legate tra loro. Tra i tanti, cito qui uno della Paravia. Il titolo è già di per sé significativo: Quaderno di allenamento: – prove invalsi — competenze.
Nella presentazione dello stesso, sotto la dicitura “Prove Invalsi”, ci viene detto che nel Quaderno «sono proposte numerose esercitazioni in vista della prova nazionale Invalsi […] per verificare le conoscenze e le abilità in italiano degli studenti del biennio della scuola secondaria di secondo grado. Le prove elaborate dall’Invalsi sono mirate a verificare la competenza nella lettura, intesa come capacità da parte dell’allievo di comprendere, interpretare e valutare testi scritti di vario tipo». Chiaramente se i test cui io e i miei allievi siamo sottoposti vanno a verificare le competenze, sarà oltremodo necessario prepararli ad esse, e infatti, sotto la voce “Competenze”, lo stesso libricino dice: «Per potenziare le competenze nell’uso della lingua italiana, l’antologia propone un percorso di lettura, scrittura ed espressione orale: i testi hanno lo scopo di allenare in modo progressivo a leggere, scrivere e parlare». Da insegnante di lettere quale sono non posso non notare che la parola “educare” è stata sostituita con “allenare”, e tale sostituzione non è affatto innocente. Mi potreste dire che si tratta solo di un manualetto scolastico e quindi non vale la pena attribuirgli tanta importanza, ma invece è esattamente il contrario. Proprio perché in uso in un libro di testo, quindi fruibile tutti i giorni da alunni, insegnanti e genitori, tali termini assumono un significato ancora maggiore.
Mettiamo che io sia un insegnante dotato di medio senso critico. Mettiamo che io desideri far bene il mio lavoro e che identifichi questo bene con i risultati conseguiti dai miei alunni. Mettiamo che tali risultati vengano misurati attraverso un test somministrato da un valutatore esterno e mettiamo anche che dagli esiti di tali test io verrò giudicato più o meno meritevole. Mettiamo poi che, al contempo, i manuali che utilizzo ogni giorno con i miei studenti si occupino, in ogni loro attività, di accennare, anche solo tangenzialmente, alle suddette prove. Alla fine dell’anno quale sarà la mia idea di buon lavoro e di scuola? E quale quella dei miei allievi?
Partendo quindi dal presupposto che bisogna prestare attenzione alle parole che utilizziamo, andiamo a vedere nel dettaglio come il termine “competenza” è stato pensato e utilizzato in ambito scolastico servendoci delle interpretazioni che di esso hanno dato studiosi del campo.
Etimologicamente essa deriva dal latino cum petere e significa “incontrarsi, coincidere, andare insieme”. A tal proposito, nel maggio del 2009, nell’incontro organizzato a Roma dal Centro Studi per la scuola Cattolica, il professore di Didattica Giuseppe Zanniello afferma che «in tal senso si intende che le conoscenze e le abilità possedute dalla persona sono indirizzate sinergicamente per affrontare una serie di compiti previsti in un contesto particolare. Il corrispondente italiano è “competere” cioè far fronte a una situazione di sfida, gareggiare, il che presuppone la presenza di due contendenti: il compito da svolgere e la persona che lo deve svolgere. Il costrutto “competenza” è stato inizialmente usato dagli economisti aziendalisti e dagli psicologi del lavoro per indicare la padronanza delle proprie attività specializzate in uno specifico settore» [1].
Don Michele Pellerey, professore di didattica presso l’Università Pontificia Salesiana e considerato, in Italia, il massimo teorizzatore del concetto di “competenze”, ci dice che tale lemma è polisemico e che «probabilmente le ragioni principali che ne hanno favorito la presenza derivano dalla constatazione che anni di insegnamento scolastico non hanno portato spesso alla capacità di utilizzare quanto appreso sia all’interno degli stessi insegnamenti specifici, sia soprattutto all’esterno di essi. Se si va a vedere che cosa sono in grado di dire o di fare i giovani a partire dalle conoscenze acquisite a scuola ci si confronta con non piccole delusioni» [2]. Da qui quindi la necessità di, cito ancora Pellerey, «considerare e definire in maniera più puntuale nei vari processi formativi gli obiettivi intesi come comportamenti finali osservabili e in qualche modo misurabili» [3]. Il concetto di competenza nasce quindi dalla necessità di misurare gli obiettivi che ci si prefigge. Non a caso esso inizia a essere utilizzato nel 1973 dallo psicologo del lavoro americano David McClelland, il quale si accorse che ai risultati eccellenti di Q.I. misurati a scuola, non sempre corrispondevano buone prestazioni lavorative. Da tale dato, egli trasse la conclusione che buone performances lavorative fossero dovute non solo all’intelligenza e alle conoscenze del soggetto, ma anche ad altri fattori che egli chiamò, appunto, competenze. Sempre Pellerey sottolinea che l’anomalia riscontrata da McClelland era dovuta al fatto che i test scolastici, al contrario delle azioni umane, fossero decontestualizzati: pertanto «emerge in questa prospettiva l’esigenza di prendere in considerazione nella valutazione di un soggetto i contesti reali nei quali egli deve manifestare le sue competenze». Nell’ottica di McClelland si iniziò a considerare competenze l’insieme di sapere, saper fare e saper essere. Tale definizione, seppur declinata in modi diversi e diversamente ampliata, viene mantenuta sino agli anni Novanta, quando la necessità di rendere operativo il concetto di competenza divenne pregnante. A occuparsi di modificare in tal senso suddetto concetto fu Guy Le Boterf, consulente per l’engineering delle risorse umane, la formazione e il management presso numerose aziende e organizzazioni, tra cui, non a caso, l’Unione Europea. È proprio lui, infatti, che inizia a considerare la competenza come un processo e non come una somma di risorse. Per questo consulente d’azienda bisogna distinguere l'”essere competente” dall'”avere delle competenze”: la prima definizione vuol dire essere capaci di agire e di riuscire con pertinenza e competenza in una situazione di lavoro, mentre la seconda significa possedere delle risorse (conoscenze, abilità, comportamenti, modi di ragionare) per agire con competenza. Di conseguenza, continua, possedere delle risorse è necessario ma non sufficiente, è invece fondamentale che la persona le sappia combinare e mobilitare per gestire una situazione in un contesto dato al fine di produrre dei risultati soddisfacenti per il destinatario che li richiede. Inoltre, aggiunge, è inutile perdersi nel tentativo di definire il concetto di competenza, piuttosto è fondamentale fissare gli obiettivi da raggiungere in una data situazione per poi cercare (e nominare) quali risorse siano necessarie e in che modo esse vadano messe in campo. Infatti ciò che importa descrivere o valutare, non è soltanto cosa viene prodotto mediante una certa attività, ma la maniera in cui l’attività stessa deve essere realizzata. «All’interno di un’economia dei servizi, la differenza di competitività non risiede più soltanto nella qualità dei prodotti ma anche nella maniera in cui essi vengono proposti e venduti» [4]. È evidente come Le Boterf diriga le proprie riflessioni alla pratica delle imprese, ivi incluse le agenzie formative, senza però operare alcuna differenza nella finalità dell’uso del termine competenza, il quale qui si intreccia, non solo etimologicamente, con quello di competitività.
Se ripensiamo ai cambiamenti nel sistema d’istruzione italiano, da Berlinguer a De Mauro, è proprio in quegli anni che la scuola inizia a essere pensata come un servizio e non più come un diritto. Non è infatti una coincidenza che nel Libro Bianco della commissione europea (Crescita, competitività, occupazione) del 1993 [5], primo documento in cui la parola competenza fa il suo ingresso nelle politiche scolastiche europee, si dica che bisogna investire nel capitale umano, il quale deve essere aperto a una formazione lungo l’intero arco della vita affinché diventi flessibile e si possa riconvertire professionalmente in un mercato del lavoro sempre più dinamico.
Nel 1996, nel documento introduttivo all’Anno europeo dell’istruzione e della formazione lungo tutto l’arco della vita, si precisa che «l’istruzione e la formazione contribuiranno incontestabilmente al rilancio della crescita, al recupero delle competitività e al ristabilimento di un alto livello occupazionale» [6].
In Italia, per continuare a sottolineare il rapporto con l’Europa, nell’Accordo per il lavoro del 24 settembre 1996, si afferma che «la qualificazione dell’offerta di lavoro, nel senso dell’acquisizione di competenze tecniche e professionali, chiama in causa l’intero processo formativo» [testo reperibile qui], e nella legge 196/97 si attribuisce al Ministro del Lavoro, e non della Pubblica Istruzione, di proporre modalità e criteri per la certificazione delle competenze in merito alla formazione professionale [7].
Nello stesso anno la legge 425 riforma l’esame di Stato e fa entrare così, come ho accennato inizialmente, il concetto di competenza dalla porta di uscita: «Il rilascio e il contenuto delle certificazioni di promozione, di idoneità e di superamento dell’esame di Stato sono ridisciplinati in armonia con le nuove disposizioni al fine di dare trasparenza alle competenze, conoscenze e capacità acquisite, secondo il piano di studi seguito, tenendo conto delle esigenze di circolazione dei titoli di studio nell’ambito dell’Unione europea» (Art. 6) [8].
Ancora una volta la connessione tra mercato del lavoro e concetto di competenza è evidente, ma sarà solo con il regolamento dell’autonomia scolastica del 1999, affinato e completato dalla Moratti negli anni successivi, che l’apprendimento sarà subordinato alle competenze. Nella legge 53 del 2003, infatti, si dichiarava che la Riforma era tesa a trasformare gli obiettivi generali del processo formativo e quelli specifici di apprendimento «in competenze di ciascun allievo» [9]. Ecco seguito il consiglio di Le Boterf: decidere gli obiettivi e, in seguito, definire e nominare le risorse da mobilitare.
A fare chiarezza su quali fossero gli obiettivi europei e dell’Europa è il Libro Bianco della commissione europea del 1995, dove si lanciò l’idea, poi colta da Lisbona nel 2000, della “società conoscitiva”, in cui la visione di conoscenza è largamente dipendente da quella di informazione e di tecnologia dell’informazione. Questa nuova società, ci viene detto, ha come principale conseguenza quella di trasformare le caratteristiche del lavoro e l’organizzazione della produzione, quindi è fondamentale avvicinare la scuola all’impresa, perché a società dell’informazione corrisponda una scuola dove conoscere significa possedere e dominare le informazioni, in un’ottica del mercato flessibile. «La mondializzazione degli scambi, la globalizzazione delle tecnologie, in particolare l’avvento della società dell’informazione hanno aperto agli individui maggiore possibilità di accesso all’informazione e al sapere. Ma nello stesso tempo questi fenomeni comportano una modificazione delle competenze acquisite e dei sistemi di lavoro» [10]. La scuola quindi cambia le sue finalità, le quali si spostano dal soggetto (sviluppo della persona) all’oggetto (sviluppo di ciò che il soggetto produce). Come fa notare Sergio Cicatelli, «nel momento in cui le raccomandazioni internazionali diventano punti di riferimento autorevoli e quasi fondanti per le riforme dei sistemi educativi nazionali, emerge il rischio di ridurre tutta l’educazione all’acquisizione di strumenti […], secondo un’ottica essenzialmente liberista e funzionalista che potrebbe finire per sacrificare la persona al sistema economico» [11].
Vi chiedo: adesso avete capito cosa sono le competenze? Ho citato fior di documenti nazionali ed europei ma nessuno di essi, seguendo probabilmente il consiglio di Le Boterf, esplicita a cosa si faccia riferimento con tale costrutto. Nelle nostre giornate lavorative ci viene detto, attraverso decreti e linee guida, che dobbiamo “insegnare per competenze”, “progettare per competenze”, avere e trasmettere “competenze disciplinari” e “competenze trasversali”, competenze relazionali, espressive, linguistiche eccetera eccetera.
L’Europa, l’abbiamo appena visto, ci ripete poi che, per cambiare il nostro obsoleto sistema scolastico, dobbiamo puntare tutto su una “didattica per competenze” senza però specificare esattamente cosa sia. Come fa notare Bertagna, le parole fondano una pragmatica personale, sociale, istituzionale e, nel nostro caso, didattico-educativa. In altri termini esse «si fanno pratica e organizzazione, e si trasformano in veri e propri dispositivi pedagogici latenti. Com’è noto, i dispositivi pedagogici latenti sono talmente potenti e invasivi che si impongono, evacuandole, addirittura sull’intenzionalità e sulla riflessività critica delle persone» [12].
Se ripensiamo a tutte le espressioni sulle competenze che ho citato prima, allora vediamo come emerge chiaramente che, al di là delle dichiarazioni, esse vengono considerate come qualcosa che si può apprendere, quindi, di conseguenza, insegnare. Ma se, ancora una volta, andiamo a cercare a fondo nel termine, scopriamo che chi se ne è occupato è arrivato alla conclusione che la difficoltà di definirle risiede nel fatto che esse sono dentro di noi, esse sono noi. A tal proposito risulta molto chiara la metafora dell’iceberg delle competenze [a destra] unita alla definizione di Perrenoud: «il concetto di competenza può essere riassunto nella capacità di mobilizzare diverse risorse cognitive per far fronte a una tipologia di situazioni» [13].
Ognuno, quindi, combinando le abilità e le conoscenze apprese con l’impegno la motivazione, la consapevolezza di sé, l’immagine cha ha di se stesso, il suo ruolo sociale, le sue strategie metacognitive, la sua sensibilità al contesto, reagisce in un modo più o meno efficace in determinate situazioni. Possiamo affermare, pertanto, che il modo in cui tutti questi elementi si relazionano tra loro sia soggettivo. Ma se le competenze così intese sono soggettive, nel senso che riguardano il soggetto, da dove sorge la necessità di renderle oggettive, ovvero oggetti di insegnamento e, come tali, misurabili alla pari delle conoscenze e delle abilità? La risposta l’abbiamo trovata nei documenti europei esaminati in precedenza: nella società dell’informazione, esse (quindi le conoscenze, i saperi, le abilità, le motivazioni che dentro di noi, per tornare all’etimologia, vanno insieme) devono diventare merce. Non sono più conoscenze utili al soggetto per il suo sviluppo personale, ma diventano strumento di potere di chi, quel soggetto vuole misurare, quindi controllare.
Se ora torniamo ai dispositivi pedagogici latenti, notiamo come il termine “competenza” abbia agito in questa direzione nel nostro modus operandi quotidiano. Credo infatti che nessuno di noi si sia sottratto alla programmazione per competenze e per assi; e credo che in alcuni casi si sia discusso parecchio con i colleghi sulle differenze tra competenza, conoscenza e abilità. Stilata la programmazione comune, quindi, in base a tale conformità di obiettivi si saranno pensate anche delle prove comuni, ed esse saranno magari state fatte, per lettere e matematica, emulando le prove Invalsi che, come, abbiamo visto, hanno proprio il compito di misurare le competenze. Ecco fatto. Siamo stati inglobati dal sistema senza accorgercene.
Qualcuno di voi penserà: che male c’è? È giusto inserire la scuola nel mondo del lavoro ed è importante che ci siano degli standard qualitativi cui far riferimento. Inoltre lo sviluppo del soggetto è tra le competenze richieste, quindi anche la finalità educativa della scuola viene mantenuta. Invece no. E non è per affezione alla divisione gentiliana tra conoscenza e abilità pratiche, né per ridurre la cultura ai meri saperi, né, tantomeno, per astrarre la scuola dal mondo in cui essa è inserita, come affermano i sostenitori dell’approccio per competenza rispondendo alle critiche che vengono loro mosse, semmai è il contrario. Proprio perché non si vuole vedere la scuola atta solo a sfornare lavoratori, che è necessario non accettare passivamente la sua trasformazione da formatrice (intesa, citando Calamandrei, come formatrice di coscienze, di persone oneste e leali, di soggetti autonomi e liberi) a informatrice (prendendo le parole del Libro Bianco dell’Unione). A maggior ragione se, come in Italia, in concomitanza a tale disegno di “rinnovamento”, si è proceduto ad un continuo taglio delle risorse della Scuola Pubblica e alla precarizzazione programmata della classe insegnante. Tale parallelismo, tagli da una parte, elenco ed elogio delle competenze dall’altra, non può non mostrare le cattive intenzioni di chi tali riforme ha attuato. La stortura infatti è evidente: la scuola viene inserita all’interno del sistema economico e sociale europeo attribuendole il compito di “adattarsi con flessibilità ai cambiamenti”, ovvero alla decostituzionalizzazione della società, alla precarietà lavorativa e alla trasformazione dei diritti in privilegi. Al contempo, definanziandola, è stata provocata una crisi educativa a cui i vari governi hanno provveduto attuando il pacchetto europeo delle competenze. A tale cambiamento hanno unito la creazione di un ente valutatore esterno che suddette competenze deve misurare; ai risultati di tale misurazione hanno poi attribuito il merito dei docenti e delle scuola. E al merito hanno corrisposto un finanziamento proporzionale ai risultati raggiunti.
Le scuole ora sono competitive. Gli alunni che ne hanno le possibilità lo saranno a loro volta e scaleranno il successo acquistando pacchetti di competenze da enti preposti a formare la nuova classe dirigente. Gli altri, la maggioranza, invece, delle competenze apprese a scuola non saprà cosa farsene, visto che il mercato del lavoro cui sono destinati ha bisogno soltanto di forza lavoro. Ecco allora che l’esigenza di tagliare risorse all’attuale sistema d’istruzione pubblica e la volontà di trasformare il docente in un facilitatore (altrimenti detto “tutor”) di competenze risulta coerente con il proposito di mantenere tale forbice sociale, così da predisporre i primi a un sapere specialistico acquistabile altrove e da privare i secondi di quelle conoscenze utili all’uomo, ma non al lavoratore flessibile/precario della nuova economia [15]. Infatti, come afferma lo stesso Pellerey [16]:
«Non è più questione di aumentare il tempo scolastico, i contenuti, le discipline. È più importante collegare le attività formative con gli apprendimenti successivi, con le esperienze esterne alla scuola, con il mondo del lavoro e delle professioni, con un progetto di vita personale e professionale aperto al futuro, con l’elaborazione di molteplici sé possibili».
Quest’anno insegno in un professionale alberghiero. La prima volta che sono entrata nella mia prima li ho guardati tutti e 28 e ho avuto la netta sensazione che non avessero speranze. La loro vita è lì, sulla loro faccia, nella difficoltà di avere i soldi per i libri, nell’incapacità di avere i mezzi per un futuro migliore, nell’esempio di frustrazione che vedono nei genitori senza lavoro. Alcuni di loro non sono competenti nella loro lingua madre; altri non hanno competenze digitali; alcuni nemmeno sociali e civiche. L’altro giorno stavo ripassando storia, dall’inizio, nei suoi concetti chiave. Così, mentre ci soffermavamo sul ruolo della scrittura nella società sumera, Davide mi dice: «prof, ma si rende conto? anche adesso cioè chi c’ha il sapere c’ha il potere!!! Cazzo non c’avevo mai pensato…»
Note al testo
[1] G. Zanniello, “Origine ed evoluzione del concetto di competenza” in: G. Malizia, S. Cicatelli (a cura di), Verso la scuola delle competenze, Armando Editore, Roma, 2009, p. 29.
[2] Michele Pellerey, Competenze, Tecnodid Editrice, Napoli, 2010, p. 59.
[3] Ibidem, p. 33.
[4] G. Le Boterf, Repenser la compétence, Groupe Eyrolles, Paris, 2010, pp. 18 e seguenti.
[5] Commision of the European Communities, Growth, Competitiveness, Employment. The challenges and ways forward into 21st century. White Paper, «Bullettin of the European Communities», Supplement 6/93, 5 December 1993; tr. it., J. Delors (a cura di), Crescita, competitività, occupazione, Il Saggiatore, Milano, 1994.
[6] Decisione n. 2493/95/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 23 ottobre 1995.
[7] Legge 24/06/1997 n. 196: “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, art. 17, c. 1, lett. e).
[8] Legge 10/12/1997 n. 425: “Disposizioni per la riforma degli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore”, art. 6, c. 1.
[9] DLgs 19/02/2004, n. 59: “Definizione delle norme generali relative alla scuola dell’infanzia e al primo ciclo dell’istruzione, a norma dell’art. 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53”, Allegato C.
[10] Commissione della Comunità Europea, Insegnare e apprendere. Verso la società conoscitiva, Lussemburgo 1995.
[11] S. Cicatelli, “Le competenze nella legislazione europea e italiana”, in: G. Malizia, S. Cicatelli (a cura di), Verso la scuola delle competenze, Armando Editore, Roma, 2009, p. 84.
[12] G. Bertagna, “Che cos’è la ‘competenza’? Un’analisi e una proposta”, in: Ibidem, p. 37.
[13] M. Castoldi, “Valutare le competenze: un problema complesso”, in L’Educatore, n. 3, 2006-2007.
[14] P. Perrenoud, Dix nouvelles compétences pour enseigner. Invitation au voyage, ESF, Paris, 1999, pp. 17-18. Si veda anche Pellerey, il quale intende per competenza «la capacità di mobilizzare (attivare) e orchestrare (combinare) le risorse interne possedute (conoscenze, motivazioni, significati, schemi interpretativi, routines pratiche, etc.) e quelle esterne disponibili per far fronte a una classe o tipologia di situazioni sfidanti in maniera valida e produttiva»: M. Pellerey, Le competenze individuali e il portfolio, La Nuova Italia, Scandicci, 2004, p. 23.
[15] Nico Hirtt, “L’Europa, la scuola e il profitto”, in Fisicamente.net, qui.
[16] Michele Pellerey, Competenze, Tecnodid Editrice, Napoli, 2010, p. 76.