di Alessandro Villari
1. Alessandro
– È questa l’ora di arrivare in ufficio?
(Buongiorno, pensò con sarcasmo Alessandro, sbuffando tra sé e sé) – Mi scusi. Il treno è stato fermo quaranta minuti in mezzo alla campagna. Il gelo…
– Beh, avvisi la prossima volta.
– Ma ho avvisato! Ho chiamato in studio Martina un’ora fa.
Martina, seduta oltre il parapetto della segreteria, distolse lo sguardo nell’assurda speranza che il capo si convincesse di non riuscire a vederla, dal momento che lei non vedeva lui. Ma il ragionier Bianchi, che pure non era un fulmine di guerra, non era nemmeno un totale sprovveduto.
– Scommetto che non si è fermato nessun treno, a giudicare da quelle occhiaie avrà fatto tardi stanotte e se la sarà presa comoda. Controllerò il sito delle ferrovie, e se non risulta alcun ritardo… Con lei, Martina, facciamo i conti dopo. Ora devo uscire, ho un appuntamento fuori studio: segni tutte le telefonate per il tardo pomeriggio.
Prese dal ripostiglio la sacca con le mazze da golf e uscì senza degnarli di ulteriore attenzione.
“Cazzo vuoi controllare? ‘E se non risulta alcun ritardo…’ che mi fai, stronzo? Peggio di così…” pensò Alessandro. Poi si rese conto che non c’era alcun motivo di trattenere dentro di sé lo sfogo, dal momento che il capo non c’era, e una volta chiusa la porta della sua microstanza si concesse un Vaffanculo a voce alta. Per fortuna il turpiloquio era consentito dal programma, senza esagerare.
La pila di pratiche che lo scrutava da sotto in su lo attendeva probabilmente dal venerdì sera: ecco la punizione per aver chiesto il permesso di uscire un’ora prima, quel giorno. Ma era colpa sua se avevano anticipato la partita alle 18 causa neve? Fosse stata un’altra magari avrebbe rinunciato e amen, ma il derby… Certo, per essere il penultimo giorno di contratto, peraltro senza che nessuno gli avesse ancora parlato di rinnovo, era un bel po’ di roba! E ovviamente nessuna delle pratiche aveva nulla a che fare con il suo “progetto” – sempre che quella specie di supercazzola scritta sul contratto si potesse definire tale.
Con un sospiro si sedette e accese il computer.
2. Martina
Uscito il capo, la segretaria chiuse con un clic del mouse la finestra con l’agenda elettronica dello studio. Da sotto ricomparve il testo a cui stava lavorando dall’inizio della mattina: la recensione del film che aveva visto la sera prima, da finire e inviare entro mezzogiorno al sito www.lasermovies.net. Collaborava con quella rivista da qualche anno, ovviamente gratis, più che altro per riuscire a vedere qualche anteprima e per non perdere del tutto l’esercizio: “una laurea e un master in critica cinematografica prima o poi serviranno a qualcosa” — si ripeteva nei sempre più rari momenti di ottimismo. Un lavoro da segretaria a 800 Euro al mese (400 in nero, così non sforiamo i 5.000 all’anno dichiarati, tanto a te non cambia niente, no?), con un contratto di “lavoro occasionale” che durava ormai da dieci mesi, non era certo quello che sognava quando si era trasferita a Milano dalla provincia. Ma di meglio, al momento, non c’era.
Cercò di concentrarsi su quel che voleva scrivere, ma era troppo nervosa per riuscirci. “Quel bastardo di Alessandro,” pensava, “con questa storia di avvisare del ritardo voleva solo fare scena. Se solo il capo fosse uscito 5 minuti prima, senza incrociarlo e senza rimproverarlo… Adesso dovrò inventarmi qualcosa per recuperare.”
Per una frazione di secondo volse lo sguardo verso il grande ficus proprio davanti alla sua postazione. Ma fu questione di un attimo: sapeva bene che il regolamento della trasmissione vietava di guardare nell’occhio della minuscola telecamera nascosta tra le fronde. Subito tornò a fissare svogliata lo schermo del computer.
Forse un cappuccino l’avrebbe calmata. Alzò il ricevitore e compose il numero del bar sotto lo studio.
3. Patrizia
– Su allo studio Bianchi, veloce.
Patrizia prese il vassoio che Mario, padrone del bar omonimo, le passò con malagrazia da dietro il bancone, e si avviò fuori dal locale. — E conta il resto stavolta!
Era già la terza volta nel giro di poche ore che saliva allo studio Bianchi: un caffè alle otto, un cappuccino alle dieci, adesso panini e piadine avvolti nella carta argentata. Nonostante l’ingresso del condominio distasse solo pochi metri dal bar, pativa atrocemente il passaggio al freddo: probabilmente aveva un po’ di febbre. Del resto Mario le aveva probito di indossare il giaccone per uscire, perché non “perdesse tempo”.
Scese dall’ascensore al sesto piano e suonò alla porta, che si aprì con un ronzio.
– Un boscaiolo, un tirolese e una piadina crudo e brie: sono 16 Euro.
Martina le porse una banconota da 20 e una moneta da 2 Euro, senza dire una parola. Patrizia posò il contenuto del vassoio su un tavolino e le rese i 6 Euro; quindi, altrettanto silenziosamente, si chiuse la porta alle spalle.
Si osservò nello specchio dell’ascensore: era molto pallida e aveva gli occhi lucidi. Si passò una mano sulla fronte, era calda. “Mario si arrabbierà se gli dico che vado a casa, ma non ce la faccio ad arrivare a sera così.”
Era talmente assorta nell’anticipazione della sfuriata, che si accorse appena dell’ometto in tuta da lavoro che la salutò incrociandola nell’atrio del palazzo. — Ah, buongiorno! — mormorò fuori tempo massimo: la figura stava già scomparendo dietro le porte dell’ascensore.
– Se te ne vai adesso, puoi anche fare a meno di tornare domani!
Mario era fin troppo prevedibile: del resto, senza contratto, che poteva fare lei? A parte sperare nel gioco, ovviamente. Patrizia esitò per qualche istante, quindi prese dall’attaccapanni giaccone, sciarpa e berretto di lana e uscì tremando dal bar.
4. Vincenzo
“Stronza — pensò Vincenzo mentre saliva al sesto piano — va bene la gara, ma almeno salutare…”
Aprì la porta dello studio Bianchi, scambiò un rapido Buongiorno con la segretaria ed estrasse dal ripostiglio l’aspirapolvere e il carrello con i prodotti e i sacchi della spazzatura. Si infilò i guanti di lattice e spinse il tutto verso la stanza del ragioniere.
Per prima cosa, svuotò il cestino, quindi cominciò a passare l’aspirapolvere, metodicamente, senza tralasciare neppure un centimetro quadrato dell’ambiente. Il ronzio familiare dello strumento gli diede come sempre un senso di tranquillità: in quel momento ne aveva bisogno più che mai. Isolato dal mondo, sia pure per pochi minuti, poteva mettere ordine nei suoi pensieri e cercare di uscire dal pasticcio in cui era finito.
La sera prima, per via della neve, era arrivato in ritardo nello studio dell’avvocato Rossi: vedendo una luce accesa proveniente dalla stanza del titolare, che del resto non di rado si fermava fino a tardi, aveva pensato di andare subito a scusarsi. Con ancora indosso il giaccone aveva bussato e, non sentendo risposta, aveva aperto la porta già socchiusa (“perché non mi sono fatto gli affari miei!?”) L’avvocato si era girato verso di lui, il volto paonazzo, aveva abbassato con violenza lo schermo del portatile ma non aveva potuto far nulla per nascondere la patta slacciata da cui fuoriusciva… beh, si può immaginare. Vincenzo avrebbe fatto volentieri a meno di assistere a quello spettacolo, ma ancor più volentieri avrebbe fatto a meno della pioggia di insulti che l’aveva inseguito oltre la porta, richiusa in tutta fretta. A gelargli il sangue era stata l’ultima minaccia dell’avvocato: Quanto è vero Dio lei qui non ci metterà più piede, la faccio licenziare domani!
A dire la verità, tecnicamente, al momento non poteva essere licenziato, visto che non aveva un contratto: il secondo contratto a termine era scaduto da più di due settimane e gli era stata ventilata la possibilità di un rinnovo, sempre per “ragioni organizzative” non meglio specificate. Il capo l’aveva informato che, come l’altra volta, il contratto non glielo poteva fare se non passati 20 giorni dalla fine del precedente (così gli aveva detto il consulente del lavoro): nel frattempo Vincenzo doveva continuare a lavorare come se nulla fosse. Ma a questo punto era piuttosto sicuro che il capo l’avesse convocato quella sera non certo per fargli firmare il rinnovo, ma per chiedergli indietro le chiavi, tanto più che l’avvocato Rossi era un suo amico personale.
— Almeno avrò qualche speranza in più nella gara. E speriamo che mi paghi questi 18 giorni — mormorò Vincenzo sconsolato. Ma il rumore dell’aspirapolvere impedì al microfono nascosto che portava addosso di registrare la sua voce: per fortuna, altrimenti sarebbe stato squalificato.
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Quattro precari, quattro storie che si incrociano quotidianamente sotto gli occhi delle telecamere e le orecchie dei nostri microfoni. Chi potrà fare causa per uscire dalla precarietà? Lo deciderete voi votando chi pensate abbia più speranze di vincerla, sul sito www.truelife.tv/precarityshow/! Precarity Show, puntata finale, questa sera alle 21 su True Life.
5. Puntata finale
Alessandro era nervoso, ovvio. Il suo contratto a progetto era scaduto quel giorno e il ragionier Bianchi gli aveva comunicato che non poteva rinnovarglielo subito ma avrebbe dovuto attendere un paio di mesi, e comunque non alle stesse condizioni: la crisi economica, diceva. “Ma quale crisi, se sono entrate dieci pratiche nuove nell’ultima settimana!” Probabile poi che il consulente del lavoro gli avesse suggerito di tenerlo in sospeso giusto due mesi in modo da far scadere i 60 giorni per impugnare il contratto precedente.
Ora con gli altri concorrenti attendeva in una saletta proprio sopra il palco, lontano dagli occhi del pubblico, che i rispettivi “capitani” completassero la loro arringa. Tra un’ora o poco più avrebbe conosciuto il suo destino.
* * *
In saletta, Martina scriveva a tutti i suoi contatti di Facebook e della rubrica telefonica di collegarsi al sito e votare per lei. In grembo, nella cartelletta blu, aveva l’estratto conto degli ultimi dieci mesi: regolari, ogni mese, figuravano il bonifico di 400 Euro dello studio Bianchi e, subito sotto, il deposito degli altri 400 ricevuti in nero. Aveva consegnato le fotocopie al suo capitano pochi minuti prima del programma, sperando che potessero risultare decisive.
* * *
Sul comodino di fianco al letto, una confezione di Tachipirina aperta, un bicchiere d’acqua (mezzo vuoto) e un vecchio termometro a mercurio: la colonnina rossa sfiorava la tacca dei 38,5°C. Per terra una bacinella, per ogni evenienza. Davanti al letto, su un tavolino spostato per l’occasione, il televisore acceso su True Life. Acciambellato sopra il letto, il gatto Senza Nome sonnecchiava. Dentro il letto, sotterrata da un paio di strati di coperte di lana spesse, la testa appoggiata su due cuscini, Patrizia dormiva profondamente sotto l’effetto dei medicinali. Non ce l’aveva fatta ad andare in trasmissione e neppure a rimanere sveglia.
* * *
Il vociare dei capitani sul maxischermo e l’ossessivo picchiettare di Martina sui tasti del telefonino gli avevano fatto venire il mal di testa. Quanta differenza rispetto all’ordinato e rilassante rumore dell’aspirapolvere! L’occhio clinico di Vincenzo aveva già notato qua e là sul pavimento depositi di pulviscolo: chi faceva le pulizie in questo posto non era scrupoloso come lui.
La sera prima, come temeva, il capo gli aveva detto che non gli avrebbe rinnovato il contratto. Non aveva menzionato l’avvocato Rossi, ma non c’era dubbio che il motivo fosse quello. Dopo aver avuto indietro le chiavi gli aveva consegnato una busta con il compenso per gli ultimi 18 giorni di lavoro (Non posso farti una busta paga per questi, prendili così, che tra l’altro ci guadagni pure tu): quando l’aveva aperta, a casa, aveva scoperto che mancavano 50 Euro ma non aveva voglia di tornare a chiederli.
Trovati un altro posto, gli aveva suggerito. Come se fosse facile, a 45 anni. Magari poteva chiedere a quelli della televisione di segnalarlo alla ditta che faceva le pulizie da loro… Almeno questa storia del reality show sarebbe servita a qualcosa.
6. Uno, nessuno o centomila?
Ciuffo accuratamente scarmigliato e barba pseudo-sfatta, occhiali dalla montatura inspiegabilmente spessa, camicia a scacchi, jeans di un colore improponibile e sneakers ai piedi, Stefano era il prototipo dell’hipster: gli autori del programma pensavano che conciato in questo modo il conduttore avrebbe riscosso più simpatie tra un pubblico di giovani per lo più precari. Scrutava sul gobbo il conto alla rovescia che indicava la fine della pubblicità. 3… 2… 1…
– Stop al televoto!
E improvvisamente si spense tutto.
Luci, microfoni, gli altoparlanti per gli applausi registrati: silenzio e oscurità calarono sullo studio. Stefano ebbe il riflesso di controllare la scaletta del programma, provò a togliersi gli occhiali (tanto non erano graduati), ma non riuscì a vedere nulla lo stesso e cercò a tentoni la via delle quinte.
Il regista pensò a un blackout e maledisse la sorte. Ma un rapido sguardo alla consolle dei comandi gli mostrò che non era saltata la corrente, le telecamere erano accese e stavano riprendendo, sotto la direzione di qualcuno che non era lui: erano ancora in onda.
Nella saletta sopra il palco Martina piangeva e gridava frasi sconnesse, Alessandro a sua volta le urlava di smetterla ottenendo l’effetto opposto, Vincenzo se ne stava seduto zitto e assaporava la quiete del buio e del silenzio, che sembravano avere lo stesso effetto isolante del suo aspirapolvere. Patrizia continuava a dormire davanti allo schermo divenuto momentaneamente nero. Il gatto Senza Nome invece si svegliò quando, dopo circa 30 secondi, un unico riflettore squarciò il buio.
La luce rivelò, sul palco, una sessantina di persone con il viso coperto da maschere che rassomigliavano ai volti dei quattro concorrenti, allineate su quattro file. Una “Martina” fece tre passi avanti seguita dal cono di luce del riflettore e lesse da un foglio che reggeva in mano:
– Siamo i lavoratori precari di True Life TV, operatori, macchinisti, addetti alle luci e al suono,centralinisti, addetti alle comunicazioni stampa e web. Siamo “assunti” in stage, a progetto, con contratti a termine o tramite agenzie di lavoro. Siamo decine, con contratti rinnovati a volte perfino di mese in mese.
Il responsabile del programma raggiunse il regista nella sua cabina, il cellulare in mano.
– Che cosa cazzo sta succedendo qui?? Chiudi subito! Il direttore di rete ci farà un culo così!
Il regista, in stato confusionale, non riusciva a parlare. A gesti cercò di spiegare che non aveva il controllo delle luci e delle telecamere, non c’era nulla che potesse fare. Intanto la ragazza mascherata proseguiva:
– Non occorre aspettare di vincere un concorso a premi per fare una causa. Sappiamo che la stragrande maggioranza dei nostri contratti sono illegali come quelli di Martina, Alessandro e Vincenzo, non vogliamo più accettare di essere sfruttati come Patrizia.
– Sì signore, stiamo facendo il possibile. Purtroppo sembra che il controllo remoto non funzioni. Il quadro elettrico, resettare tutto. Sì signore, provvedo subito.
– Non vogliamo più subire il ricatto che il sistema ci impone: silenzio in cambio della speranza di un rinnovo. Da oggi in poi, ogni nostro contratto che non diventerà a tempo indeterminato lo impugneremo. Speriamo che tanti precari seguano il nostro esempio.
Le luci si spensero non appena la ragazza ebbe finito di parlare. Quando si riaccesero, partirono automaticamente gli applausi registrati. Sul palco non c’era più nessuno.