di Marilù Oliva
David Monteagudo non è l’unico scrittore sdoppiato nella forzatura di un altro lavoro — in questo caso l’operaio —, per citare uno tra mille chiamo in causa Gutierrez, che di arti e mestieri è collezionista (è stato infatti strillone, gelataio, bracciante, istruttore di kajak e tantissime altre cose). La peculiarità di Monteagudo — nato in Galizia nel ’62 ma residente a Barcellona, socialmente catalano, culturalmente castillano, così almeno lui stesso si definisce — è questa sua ambivalenza serena tra passione e fatica, per cui, almeno per ora, il fatto di figurare in Spagna come caso letterario del momento non lo porta a licenziarsi o a chiedere aspettativa alla fabbrica di confezionamento in cui si presenta puntuale tutte le mattine. Forse che è solo all’inizio o forse che, come lui stesso ha ammesso, “si tratta di un lavoro meccanico, un po’ alienante, ma lascia un sacco di tempo per pensare” e quindi dalla vita concreta, quella di sopravvivenza per intenderci, trae — come molti suoi colleghi scrittori — la linfa vitale per le narrazioni.
Non uso il plurale a caso: l’autore aveva dieci manoscritti nel cassetto. Come capita a decine di centinaia di aspiranti, ne spedì uno a diverse case editrici senza ricevere risposta. Poi per lui invece arrivò la svolta, sotto forma di segnalazione di un giornalista su La Vanguardia — Jordi Llavina faceva il nome di questo sconosciuto — e una delle case editrici che l’aveva fino ad allora ignorato decise di pubblicarlo. Così nel 2009 “Fin” fu lanciato dall’editore barcellonese Acantilado e questo mese è uscito per Guanda, che ne ha acquistato i diritti per l’Italia.
La storia sa di suspense e nostalgia, di tonfi nel passato e amarezze antiche che si trascinano nel presente, letargie nell’animo e vespai: un gruppo di amici che non si frequentano più da lustri decide un revival. Devono tornare nello stesso posto in cui, venticinque anni prima, hanno suggellato di ritrovarsi, per rimirare lo stesso cielo di stelle, lontano dalle luci, in una località così isolata che per raggiungerla si attraversano strade che s’interrompono e il niente sbuca in agguato, magari nelle forme più impensate:
“Ginés ammutolisce all’improvviso, e adesso avvicina il viso al parabrezza guardando fuori, la strada, con smisurata intensità. Anche Maria guarda avanti, cercando quello che ha attirato l’attenzione di Ginés, e vede una specie di ombra grigia al limite del fascio di luce dei fari, qualcosa di vagamente sferico che si muove verso di loro, come un rovo che rotola spinto dal vento. Tutto accade in pochissimo tempo, appena due o tre secondi. L’oggetto non è un rovo, è qualcosa di grande, un animale che si ferma un momento e poi corre di sbieco verso di loro, cercando il ciglio della strada, attraversando la carreggiata in un’ampia diagonale”. Un cinghiale, forse. Ma la tensione si srotola negli incontri — e negli scontri — tutti umani e disperati che colpiscono i protagonisti.
Sono nove, tra rimpatriati e accompagnatrici: Amparo, Cova, Maria, Maribel, Nieves — le donne — più gli uomini: Hugo, Ibanez, Ginés e Rafa, ciascuno con la sua zavorra di disillusioni, incertezze, frustrazioni, di cui i dialoghi sono i grandi veicoli espressivi. Su di loro incombe l’ombra dell’assente, un ragazzo che avevano soprannominato Il Profeta e che avevano sottoposto a uno scherzo terribile. Succedono cose strane nel frattempo, come in “Dieci piccoli indiani” di Agatha Christie: prima sparisce Rafa, poi uno ad uno altri membri, mentre attorno una natura ostile e disabitata rende più inquietante l’isolamento anche se, per assurdo, è proprio la natura che schiarisce un cielo nuvolosissimo ed elargisce lo spettacolo anelato:
“Il cielo è ricoperto, inondato, stracolmo di stelle. Il cielo è tutto una luce polverizzata, frammentata in milioni di piccoli punti che si addensano e si aggrappolano capricciosamente, in zone di diversa intensità. Ciò che più impressiona è la quiete immutabile dell’insieme. Le stelle non risplendono, non tremolano: emettono una luce tranquilla e fredda, perfettamente ritagliata malgrado l’abbondanza, sullo sfondo nero come l’inchiostro, privo di sfumature, identico e insondabile dallo zenit fino alla sagoma scura, dentata e irregolare, delle montagne.”
Trascorre la notte che il lettore ha nitidamente chiari i problemi esistenziali di tutti i personaggi, i loro difetti, assapora le scaramucce, s’impunta nelle discussioni, simpatizza per le esterne (Cova e Maria, quest’ultima moglie fittizia di Ginés, assoldata appunto in vista di questo incontro), ma se il mattino reca consiglio, non porta certo rassicurazione:
“È razionale che non abbiamo visto un… fottuto essere umano in tutta la mattina? Qui dovevano essercene, cazzo, qui sì. E’ come se qualcuno ce li avesse tolti di mezzo proprio quando… quando dovevamo arrivare noi”.
Poi che succede? Non anticipo altro se non che il titolo è esplicativo. Con atmosfere alla “The Walking Dead” di Kirkman (fumetto disegnato da Moore e Adlard) e patine cupe alla “The Road” di Cormac McCarthy, questo romanzo si consuma come in una scarpata mortale dove i protagonisti, membri diversificati della classe media, non sanno che la discesa avviene in compagnia di mostri invisibili. Non posso accettarlo, perché i mostri sono in primis dentro di loro. E concludo rubando le parole a El Mundo, che ci prende in pieno quando inquadra il loro calvario come “una favola generazionale di puro terrore metafisico”.