di Francesco Ferri*
L’evento di per se appare notevole, e l’impatto visivo che lo accompagna ne rende benissimo l’idea, quasi fosse un ennesimo atto di sfida nei confronti di una comunità già martoriata da più fronti: la notte tra l’11 e il 12 aprile scorsi una nave portacontainer battente bandiera panamense ha sversato nel golfo di Taranto circa venti tonnellate di carburante. La modalità con la quale si è verificato il disastro, però, lo riconducono nella categoria del banale, iscrivendolo in questo modo in uno dei possibili paradigmi con i quali provare a decifrare la situazione-Taranto. La fuoriuscita del greggio è stata infatti determinata da un errore umano: a bordo del mercantile qualcuno dell’equipaggio, sbagliando una manovra, invece di aprire le valvole dell’acqua per svuotare le sentine, ha aperto quelle del carburante, dando il via alla fuoriuscita dell’inquietante chiazza nera nel Mar Grande.
Un errore appunto banale, che a pieno titolo si colloca nell’incandescente magma dell’ormai consolidato drammatico rapporto tra produzione industriale e ambiente tarantino. Intendiamoci: di banale non ci sarebbe granché, sia nel particolare (una chiazza nera, larga un chilometro, potenzialmente capace di causare disastri) che nel generale (presenza, per accumulo decennale e per emissioni tutt’ora in corso, di una tragica quantità di sostanze inquinanti da attività produttiva). Ma ormai il sensazionalismo che circonda i frequenti incidenti di questa natura è finito per diventare paradossalmente routine, con costanti picchi d’indignazione (causata soprattutto dall’ondata mediatica che puntualmente ne fa seguito) tanto frequenti quanto incapaci di produrre cambiamenti reali. Anche qui intendiamoci: la presa di coscienza della propria condizione di disagio e di sfruttamento è condizione necessaria per provare ad instaurare percorsi di modificazioni sistemiche. Non è, però, condizione sufficiente: qui si iscrive gran parte del dramma tarantino. L’indignazione e la costernazione, se non le si inquadrano collettivamente in un percorso di riappropriazione, anche prepotente, dello spazio di discussione pubblica in un’ottica di alternativa strutturale, finiscono per divenire normalizzazione dello stato comunitario di sofferenza rendendo quest’ultima, appunto, banale.
E così anche in questa circostanza il clamore isterico di una campagna elettorale che a pieno titolo si iscrive nella citata categoria del banale fin da subito finisce col ridurre l’ennesimo incidente in un referendum pro o contro l’amministrazione uscente, come se il problema fosse risolvibile con un cambio di giunta comunale. Taranto non sembra capace di volare neanche un pelo più in alto delle nubi che da decenni la circondano, rimanendo invischiata in un dibattito elettorale pieno zeppo di personalismi e di narrazioni di prospettive economiche che, da destra a sinistra passando per tutti gli undici candidati alla carica di sindaco, banalmente si assomigliano. Rinvigorire il turismo, riscoprire i fasti della Taranto magnogreca, ripartire dalla (non meglio identificata) cultura, dal porto, dal Mediterraneo e dal commercio dei mitili: la retorica della Taranto che verrà è trasversale quanto banale, con prospettive di reale crescita economica abbastanza improbabili e mai quantitativamente descritte, tanto da far presupporre per gli anni che verranno (con o senza Ilva) una fase di decrescita cosi violenta da essere ancor più drammatica dell’esistente torpore, se i rapporti di forza tra le classi dirigenti e le donne e gli uomini della città di sotto rimarranno immutati.
A dir la verità un paio di effetti simbolici l’enorme macchia nera potrebbe averli prodotti. Casualmente, quasi nelle stesse ore del propagarsi dello scuro in acqua, un nero, l’ex sindaco Cito, veniva nuovamente condotto in carcere in seguito all’ennesima condanna penale riguardante il periodo nel quale amministrava la città. Che questo curioso accostamento cromatico sia l’occasione per produrre definito congedo non solo dal noto picchiatore fascista, ma anche da quel diffuso citismo (mix di populismo, cultura mafiosa e valori fascisti) il quale, complice la miopia della sinistra Tarantina, ad ogni tornata elettore rappresenta un pericolo tutt’altro che remoto, con il figlio dell’onorevole, ombra muta del padre, candidato alla carica di sindaco.
Nel banale rientra anche la scelta di una parte del mondo ambientalista tarantino di candidarsi alle elezioni amministrative cittadine. Banalità nel metodo (Grillo insegna: più ci si sente in bisogno di giurare e spergiurare che non ci si candiderà mai, tanto più facilmente si cede alla tentazione di buttarsi nella mischia) e nella collocazione ideologica (Bonelli, leader nazionale dei Verdi, candidato sindaco di una parte degli ambientalisti, si autoiscrive nella categoria, di dubbio gusto e di pressoché nulle prospettive sistemiche, del nédidestra-nédisinistra cosi come declinato dal comico ligure, con in più la fastidiosa demagogia del vogliamo solo aria pulita).
L’elemento più rilevante delle ultime settimane in riva allo ionio sembra essere invece legato alla marcia degli ottomila dipendenti Ilva che, in concomitanza con la presentazione della perizia medico legale nel processo nei confronti dei massimi dirigenti dell’acciaieria, hanno manifestato in difesa dell’azienda, sotto la spinta emotiva (ed organizzativa) della stessa. Appare invece decisamente ancora banale la reazione dei partiti e delle forze sindacali locali, impegnati nel costruirsi l’immagine di commentatori esterni della vicenda, quasi che non fosse un problema politico e sindacale una mobilitazione di operai ed impiegati in difesa di un lavoro nocivo. In questi termini, la galassia politica tarantina è stata complessivamente efficiente nel non far perdere agli operai tarantini la voglia di lavorare, per giunta in un ambiente decisamente insalubre. Ma si sa, in ogni caso Arbeit macht frei.
Non mancano, certo, tentativi e sforzi collettivi per provare a far raggiungere un livello diverso e più ampio alle mobilitazioni in corso, tale da superare il perdurante stato di vaga indignazione. Quel che manca probabilmente è un linguaggio politico che sappia far percepire a tutti i soggetti in causa cosa ne si voglia fare di questa città una volta che la grande industria (per esaurimento del suo ciclo produttivo, per mancanza di convenienza nel continuare a produrre acciaio in occidente, o addirittura per intervento della magistratura) sarà una parentesi conclusa della storia tarantina. Allo stato attuale sembra che (a buon titolo) in pochi siano disposti a battersi per una vaga lotta ambientalista, se la prospettiva della mobilitazione è tutta ripiegata nel provare ad accelerare il passaggio (nei fatti, per altro, già verificato anche a queste latitudine da ormai tre decenni) per consegnare anche visivamente (via fumi e nubi) Taranto ad un sistema produttivo compiutamente postfordista, privo sì di effetti collaterali cosi macroscopici, ma che in ogni caso produce disperazione, crisi e morte (immateriale e anche materiale, come testimoniano la serie di suicidi in giro per l’Italia nelle ultime settimane).
In questi termini è proprio la produzione di elementi simbolici di alternativa sistemica, da costruire nella lotta per la chiusura dei mostri inquinanti che circondano la città e allo stesso tempo dentro la sfida per una decrescita dignitosa e di pari passo con le lotte contro le barbarie dell’attuale sistema produttivo in crisi, in connessione con lo spirito della Val Susa e con tutte le esperienze che si muovano in questi termini, l’unico percorso potenzialmente vincente, capace di delineare un immaginario nuovo, più equo e più bello, per il quale valga la pena mettersi collettivamente in gioco fino in fondo, oltre l’attuale rappresentanza politica anche a Taranto irrimediabilmente e consapevolmente impotente. Se cosi non fosse il nero dell’effimera macchia scura tornerà, prestissimo, a lasciar posto, senza soluzione di continuità, al solito, banale e tremendo grigiore che avvolge la città.
*Attivista di Occupy ArcheoTower – Taranto e redattore di “Siderlandia Redazione”, rivista online [qui].