di Franco Ricciardiello
Il movimento femminista ucraino Femen si è conquistato ampio spazio sui mezzi di informazione perché durante le azioni di protesta le attiviste si spogliano mostrando il seno. I servizi fotografici naturalmente si sprecano, ma a 4 anni dalla sua nascita Femen si ritrova su uno spartiacque: diventerà un fenomeno folcloristico — superficiale e autolesionista per alcuni, un club di esibizioniste per altri — o riuscirà a incidere sulla qualità della democrazia in Ucraina e di conseguenza in Europa?
Femen viene fondato nel 2008 per iniziativa di Anna Gucol, economista ucraina nata nel 1984 (i media occidentali in genere usano la vecchia traslitterazione anglosassone del suo cognome, Hutsol), che decide di mobilitarsi contro la prostituzione delle giovani attratte all’estero da promesse di un lavoro onesto. Partendo dalla desolante constatazione che la donna si accontenta di un ruolo passivo nella società ucraina, Gucol attrae intorno a sé altre studentesse che si sono scontrate con i meccanismi maschilisti del potere: le sorelle Aleksandra (studentessa di economia, nata 1988) e Inna evčenko (n. 1990), Irina Fomina (1986) e soprattutto Oksana čačko (1986), militante del Partito comunista da quando aveva 14 anni, stomacata dalla nostalgia stalinista dei compagni più anziani.
L’Ucraina si trova alle porte dell’Europa, ma malgrado 70 anni di socialismo reale la situazione femminile è ancora arretrata. La differenza salariale uomo/donna è del 27% (l’Italia ha uno dei dati più bassi, 5,50%). In questa società patriarcale la donna rimane sottomessa; nella cittadina dove abitano le sorelle evčenko l’età media del matrimonio per una donna è 20 anni; molti uomini sono alcolizzati, come il padre di čačko che dopo il crollo dell’Urss e dello stato sociale si è dato alla vodka, poi è scomparso abbandonando moglie e figli. Ai tempi dell’Urss tutte le ragazzine da grandi volevano fare la cosmonauta come Valentina Terekova, la prima donna nello spazio, adesso se glielo domandi rispondono “Nulla.”
Dall’incontro delle cinque giovani nasce “Nuova Etica”, che il 10 aprile 2008 prende l’attuale nome, Femen. Le attiviste dividono un appartamentino in un fabbricato anni Settanta nella zona nord di Kiev. La crisi economica è terribile, non hanno neppure i soldi per l’autobus e devono recarsi in centro a piedi, camminando per chilometri. Oksana, che la madre chiama “la piccola rivoluzionaria”, viaggia tra casa e la capitale sui treni di notte. La democrazia in Ucraina è giovane e fragile, la “rivoluzione arancione” dell’inverno 2004 appoggiata dagli Usa non ha portato a un rinnovamento; la dialettica politica altalena tra forze filo-russe (una consistente parte degli abitanti del paese è russa, grazie ai confini arbitrari decisi da Stalin per contenere il possibile autonomismo ucraino) e quelle nazionaliste dell’ex premier Julia Timoenko, attualmente detenuta per corruzione. Femen ha sempre precisato di non appoggiare nessuna delle due parti, anzi ha accusato Timoenko di non avere fatto nulla per la condizione femminile durante la propria presidenza.
Per attrarre l’attenzione dei media nazionali, le attiviste di Femen cominciano a dimostrare in pubblico vestite solo con la biancheria intima, anche d’inverno. Ma non riescono a mobilitare come vorrebbero l’attenzione pubblica sulla condizione femminile. Il “salto di qualità” nella forma di protesta avviene un anno dopo la fondazione: nell’agosto 2009, per protestare contro la prostituzione via Internet un gruppo di attiviste leva la camicia: indossano solo gli shorts e si lasciano fotografare di spalle, con le mani alzate a coprire i seni. Da qualche tempo in Femen ci sono pareri discordanti su come provocare la reazione di un’opinione pubblica anestetizzata; a inaugurare il nuovo look della protesta è Oksana čačko, che invece di limitarsi a mostrare gli slogan verniciati sulla schiena, scosta le braccia e mostra il seno ai fotografi. Prima di pensare a cosa stanno per fare — altrimenti probabilmente non lo farebbero mai — tutte le attiviste la imitano.
Da questo momento le proteste-choc si moltiplicano; attualmente Femen conta almeno 300 attiviste di cui oltre 20 (comprese tutte le fondatrici tranne Anna Gucol, l’ideologa del movimento) si denudano abitualmente durante le proteste. “Il nostro modo di lottare contro il maschilismo sessista è usare le sue armi, il suo vocabolario e in suoi insulti per ritorcerglieli contro”. Le proteste eclatanti si moltiplicano, Femen sa che per ottenere risultati deve oltrepassare i confini nazionali e attrarre l’attenzione dei media occidentali, che infatti nell’ultimo anno pubblicano notizie e (naturalmente) dossier fotografici delle giovani attiviste in topless: alla centrale di Černobil, per protestare contro l’energia nucleare; a Kiev contro il turismo sessuale (il 73% delle ucraine sotto i 23 anni confessa di avere considerato la possibilità di rapporti a pagamento con stranieri); contro le molestie dei professori nelle università; al forum internazionale di Davos; in piazza San Pietro contro la misoginia del cattolicesimo; all’ambasciata italiana di Kiev per salutare la caduta di Berlusconi, dove cantano “Berlo ciao” sull’aria di Bella ciao — non soltanto in omaggio al patetico machismo dell’ex presidente del consiglio, ma anche per la sua amicizia con due bestie nere di Femen: il russo Putin e il bielorusso Lukaenko. Più aumenta la visibilità di Femen, più la forza pubblica moltiplica le iniziative di contrasto, lecite o meno, malgrado il carattere rigorosamente nonviolento delle manifestazioni: tre attiviste arrestate a Mosca per la protesta in topless al seggio dove vota Putin (espulse e dichiarate “persona non gradita” dopo alcuni giorni di detenzione); fermate e identificate dalla polizia l’8 marzo a Istanbul, contro la violenza sulle donne e contro gli uomini turchi, i maggiori utilizzatori del turismo sessuale in Ucraina; tenute fuori dalla Germania che non concede il visto d’ingresso; spiate e intimidite dai servizi segreti ucraini; colpite dopo ogni arresto con detenzioni e sanzioni economiche cha riescono a pagare grazie a donazioni raccolte sul sito internet e alla vendita del merchandising; bandite da Facebook che non gradisce le foto in topless perché sinonimo di pornografia (!); osteggiate in famiglia, incomprese dalle donne ucraine tradizionalmente sottomesse all’uomo, private di supporto popolare al di fuori di uno strato comunque vasto di giovani democratici. L’intimidazione più grave avviene nell’ottobre 2011 in Bielorussia, dove Femen protesta contro il presidente Lukaenko, pubblicamente elogiato da Berlusconi, definito invece “l’ultimo dittatore europeo” dal ministro degli esteri tedesco Guido Westerwelle (al quale Lukaenko risponde “meglio dittatore che frocio” alludendo alle preferenze sessuali del ministro). Dopo la protesta a seno nudo a Minsk, tre attiviste (fra cui Inna evčenko e Oksana čačko) vengono sequestrate da uomini armati dei servizi segreti bielorussi (che hanno ancora la sigla KGB di quelli sovietici) e condotte a forza in un bosco distante dalla capitale. Qui vengono costrette a spogliarsi, legate, insultate, minacciate con coltelli che usano per tagliare ciocche di capelli.
Bisogna dare atto che Femen è l’unica organizzazione a protestare a favore dei detenuti politici sia in Ucraina che in Russia. Al forum internazionale di Davos nel gennaio 2011 il presidente ucraino Janukovič ha il cattivo gusto di invitare gli investitori stranieri a recarsi nel suo paese in primavera, quando la temperatura sale e le donne sono meno vestite. Femen, che nel maggio 2009 ha proposto l’introduzione di reato penale per gli utilizzatori dell’industria del sesso, mette immediatamente tra le proprie priorità la lotta alla vergogna del turismo sessuale. Le attiviste scendono in piazza molto meno vestite di quello che intendeva il presidente con la sua infelice boutade. Femen contesta che non ci sia una sola donna nel nuovo gabinetto ucraino, il premier Azarov risponde che a suo avviso le donne non sono capaci di pronunciare un NO duro, se necessario. Femen invita allora mogli e fidanzate dei ministri a dire no alle richieste sessuali dei partner, come nella Lisistrata di Aristofane le ateniesi scioperano a gambe chiuse contro la guerra. Lo scorso 8 marzo 2012 a Istanbul le attiviste si truccano simulando orribili ferite di acido sul volto e sul corpo, per denunciare la violenza di genere nei paesi musulmani. Non è un caso che Femen appoggi l’attrice iraniana Golshifteh Farahani che ha posato nuda contro un sistema maschilista che opprime il corpo della donna. Va da sé che uno degli obiettivi dichiarati di Femen è l’estensione della lotta a favore delle donne nei paesi islamici. Si è già tenuta una manifestazione in Tunisia con simpatizzanti locali, un’altra fuori dall’ambasciata saudita a Kiev e poi ancora all’ambasciata iraniana contro la pena di morte per lapidazione di Sakineh Ashtiani.
Le esibizioni delle attiviste vengono duramente represse, forze dell’ordine vestite di tutto punto tentano di bloccare le ragazze seminude che hanno ideato una loro tattica per disorientare i poliziotti: si divincolano, fuggono, si mettono a strillare. Durante la protesta contro la riforma pensionistica, i poliziotti con pancione da scrivania si affannano dietro alle attiviste che fuggono a torso nudo, con corone di fiori e nastri rossi e gialli nei capelli. Il contrasto tra l’espressione afflitta degli inseguitori e il sorriso raggiante delle attiviste è un capolavoro di comunicazione.
Alle manifestazioni di solito le attiviste si presentano a seno nudo, con calzoni o calzoncini; indossano la corona di fiori decorata con lunghi nastri colorati, propria del tradizionale costume delle donne ucraine, e gridano le loro parole d’ordine sollevando il pugno chiuso, oppure alzano a braccia tese i cartelli con slogan che negli ultimi tempi sono scritti in più lingue: “l’Ucraina non è un bordello”, “Finish Berlusconi”, “Festa di gangster a Davos”. Quasi sempre ricoprono i seni, il ventre, il dorso con le medesime scritte. Spesso si riconoscono slogan del movimento anticapitalista, in alcuni casi anche antifascista come durante la commemorazione del contributo femminile alla vittoria nella Seconda guerra mondiale, “Il fascismo non tornerà”, oppure alla sfilata di Versace a Milano contro il modello di donna anoressica, “Fashion=Fascism”, moda=fascismo. Era da tempo che in Italia non si sentiva pronunciare con tanta rabbia la parola fascismo, mentre all’estero — in Germania, negli Usa, all’est — è ancora utilizzata nella dialettica politica.
Cosa c’è di così innovativo nella pratica di Femen? Si tratta soltanto di un gruppo di esibizioniste che sfruttano il sesso per farsi pubblicità o è una nuova, rivoluzionaria forma di lotta, la “quarta onda” del femminismo? Non sono certo le femministe ucraine che hanno inventato il nudo come forma di protesta: l’esibizione del corpo è da sempre percepita come radicale anticonformismo, spesso usata nella contestazione perché va contro al sistema delle convenzioni sociali. Nello statuto di Femen si parla di una “forma unica di espressione civile basata su coraggio, creatività, efficienza e choc”, il cui riferimento sono i valori europei di libertà, uguaglianza e sviluppo della persona sulla base del “movimento euro-atlantico delle donne”. “Lottiamo per la difesa dei diritti delle donne, per l’ecologia, contro la prostituzione, lo sfruttamento la corruzione, l’abuso di potere, il traffico di persone e cerchiamo rispetto per i soggetti più vulnerabili della società.” Femen preconizza una “rivoluzione internazionale delle donne” per il 2017.
“Il topless può essere un’arma politica pacifica,” così Anna Gucol spiega il salto di qualità della contestazione. “Abbiamo capito che le donne nude fanno paura e che ogni volta che ci leviamo le T-shirt mettiamo un chiodo in più nella bara del sistema patriarcale.” Non sono soltanto le attiviste più giovani e belle a mettersi a torso nudo: durante la protesta contro l’innalzamento dell’età pensionabile per le donne si spogliano anche attiviste più anziane; quando Femen appoggia la lotta dei lavoratori edili in crisi, le attiviste indossano gonna corta o shorts ma sono vestite, gli operai al contrario sono a torso nudo. Eppure i notiziari e i fotografi indugiano sui seni, e parlano delle femen come se si trattasse di un nome comune, e non di un movimento chiamato Femen. Incarcerate di continuo, si rendono conto che la loro popolarità tra le altre detenute aumenta a mano a mano che l’attenzione mediatica cresce. È la fama che si sono create a proteggerle dalla repressione dell’autoritaria democrazia ucraina. Adesso, a ogni manifestazione le ragazze in topless sono difese da una cortina di babuke che si interpone tra loro e la polizia per dargli il tempo di dileguarsi.
“Siamo psicologicamente e emotivamente preparate a una risposta aggressiva,” dice Saa evčenko. “Sappiamo che ci sarà, senza dubbio. Quando ci arrestano, quando ci ammanettano e il dolore è intenso, la soddisfazione di avere fatto il nostro dovere ci conforta e ci dà una sensazione di successo, di avere ottenuto ciò che vogliamo, e di essere dalla parte della ragione.” Indubbiamente occorre coraggio e carattere per vincere le inibizioni e denudarsi in pubblico. La nudità sottolinea la vulnerabilità non solo dell’attivista nel momento in cui viene inseguita, arrestata, ammanettata, ma la vulnerabilità della donna: ed è su questo che si basa la scelta di protesta nonviolenta di Femen. Il movimento precisa: “La protesta a seni nudi è probabilmente la più forte e efficace forma di ribellione nonviolenta che possa attirare attenzione. Si può lanciare bombe, fare scioperi della fame, sparare a qualcuno; oppure puoi metterti a seno nudo.” Bisogna ammettere non c’è una singola dimostrazione di Femen che non abbia un contenuto politico.
Ovviamente i pareri non sono unanimi sull’attivismo di Femen, neppure nell’ambito del movimento. La rete “femminista e materialista” francese Pelenop sostiene che le azioni di Femen si vendono bene perché le attiviste sono nude, ma nessuno si cura delle vere intenzioni; come esempio dopo la manifestazione sotto la casa di Dominique Strauss-Kahn a Parigi tutti hanno sbattuto in prima pagina le foto delle attiviste con grembiulini da cameriere sexy, ma nessuno ha pubblicato il testo diffuso da Femen: “La giustizia non può proteggere le donne, le donne devono proteggersi a vicenda.” Pelenop sostiene che Femen rappresenta un anticapitalismo romantico, e che le sue azioni fanno il gioco della stampa borghese: se ne parla ma niente cambia perché “non è appropriandosi della visione sessista che si combatte il sessismo, lo stupro, l’impunità borghese; tutte le oppressioni verranno meno con la distruzione del capitalismo”.
Tuttavia, grattando sotto la superficiale retorica gossip dell’informazione, leggendo tra le righe di una spettacolarizzazione tenacemente perseguita dalla stampa per depotenziare la carica eversiva della protesta, sono arrivato a alcune considerazioni. Innanzitutto, nessun movimento oggi ottiene una visibilità così vasta con parole d’ordine così radicali e attenendosi a una rigorosa nonviolenza; in più, non c’è dubbio che Femen non ha nessun timore di esporsi con parole d’ordine classiche della sinistra radicale. È piacevolmente incredibile che nel nostro secolo ci sia ancora chi riesce a praticare la lotta nonviolenta.
Onestamente, le immagini delle studentesse immobilizzate dalla polizia e caricate seminude sui cellulari mi fanno molta più impressione dei seni al vento; trovo che abbiano una forza non solo politica e sociale, ma artistica. “L’etica sarà l’estetica dell’avvenire”, scrive Lenin, e Wittgenstein riecheggia: “Etica e estetica sono tutt’uno.” La lotta di Femen è politica, ma è anche arte postmoderna le cui parole d’ordine sono scritte sul ventre di giovani donne che accettano di fare del proprio corpo un’opera d’arte pop. Da sempre l’arte è per sua natura all’opposizione, perché deve preparare la civiltà al mondo a venire. La feroce repressione, il conflitto estetico tra le divise pesanti, le manette e la pelle nuda smascherano la violenza istituzionalizzata su cui si fonda il capitalismo. Quando vedo le immagini di Oksana čačko arrestata a Davos, penso che qualcosa di nuovo sta nascendo: nella sequenza di foto che fa il giro del mondo, la ragazza continua a guardare l’obiettivo mentre gli agenti la trascinano verso il cellulare. Giubbotti antiproiettile, giacconi imbottiti con l’orgoglio della scritta Polizei, anfibi pesanti, fucili antisommossa, e lei vestita solo di un paio di jeans mentre le ammanettano i polsi dietro la schiena nel gelo dell’inverno svizzero. Allora mi vengono in mente le parole che Saa evčenko si è fatta tatuare sul costato sotto il seno sinistro, in corsivo nero, versi che il poeta suo omonimo Taras evčenko, romantico e maledetto, ha dedicato alle donne ucraine: “Mie piccole colombe / perché vivete in questo mondo? / Siete cresciute servendo gli altri / tutti gli stranieri. / Da serve vedrete le vostre trecce ingrigire. / È da serve, sorelle mie, che morirete.”