di Filippo Casaccia
They don’t make them like you anymore,
That’s for sure
Io ascoltavo Gallagher.
Rory Gallagher, non uno di quei due cialtroni degli Oasis. Sto parlando di fine anni Ottanta: a seconda della propensione avventurosa degli amici rockettari, si partiva dai Dire Straits per arrivare fino al metal; ma in quel periodo arido di chitarre pochissimi ascoltavano il blues hard del decennio precedente. E quando veniva fatta l’immancabile domanda che definiva — ancora per poco — quelli della mia generazione, “tu, cosa ascolti?”, io rispondevo Gallagher, provocando sgomento. Ovviamente non era l’unico musicista che mi piacesse, anzi. Ma questo chitarrista irlandese era il più esotico — più di Janis Joplin o di Johnny Winter, per dire — ed era quello che mi permetteva di capire se l’interlocutore capisse qualcosa di musica.
Perché Rory Gallagher, allora come oggi, era stato dimenticato, travolto da punk, new wave, dark, rock da stadio e schifezze pop.
Eppure quindici anni prima aveva avuto il suo momento di gloria e qualche milione di album li aveva venduti (si parla di 14, ma non ho una fonte attendibile, sempre che ne esistano). Era venuto fuori alla fine del boom del British Blues con una formazione tutta irlandese, i Taste, infiammando le serate del club londinese Marquee. Blues viscerale e mai prevedibile, ammorbidito dal folk e da fughe jazzistiche e psichedeliche, senza ricorrerere alle abusate 12 battute straziate da qualunque pischello. Paragonati ai Cream, i Taste finiscono quasi subito: nonostante dischi in classifica in USA (dove avevano aperto per i Blind Faith di Clapton e Winwood), non si vede una lira e i dissidi con un management truffaldino portano allo scioglimento del gruppo e alla perenne diffidenza di Rory verso qualunque intermediario. C’è tempo solo per un’incendiaria performance all’isola di Wight (sette bis, per capirci), tanto che alla domanda di come ci si sentisse a essere il miglior chitarrista della terra, Hendrix rispose: I dont know man, you should ask an irish cat called Rory Gallagher!
Il bravo chitarrista (e bravo cantante e bravo compositore) pubblica a breve il suo esordio e comincia a esibirsi ovunque in maniera parossistica, proponendo un mix di pezzi originali e omaggi alla tradizione: a fianco dell’epica cavalcata blues rock Tattoo’d Lady ci sono la ballata celtica dal sapore indiano Just the Smile, il folk dylaniano di Dont’ Know Where I’m Going, il boogie sismico di Bullfrog Blues o la rarefatta ballata bluesy A Million Miles Away. La formula funziona, dai club ai teatri, dai college fino alle arene, in un successo crescente di critica e di pubblico: nel 1972 Melody Maker lo elegge miglior chitarrista davanti a Clapton e Page (e Townsend, McLaughlin, Blackmore and so on). Ma Gallagher fa sempre un passo indietro, umilmente, temendo di entrare nel vortice della celebrità: lui è un rocker “popolare”, fedele alla sua immagine proletaria e vestito come i suoi fan, armato solo dell’inseparabile Stratocaster scrostata del 1961.
In quegli anni di esperienze felici (il bell’album londinese di Muddy Waters, per esempio) e di qualche passo falso (pur di non rinviare due date già fissate declina l’offerta di Robbie Robertson e della Band di far parte del cast dello scorsesiano The Last Waltz) escono anche i dischi migliori, specialmente quelli dal vivo, Live! In Europe (1972) e il fenomenale Irish Tour ’74 che fu immortalato su pellicola nell’omonimo film: mentre a Belfast esplodevano le bombe, Rory suonava imperterrito per i fratelli irlandesi (protetto dalla non meglio specificata Organizzazione, ma questa è un’altra storia), a differenza di chi dall’Ulster stava ben lontano. Tony Palmer, già regista con Beatles, Zappa e Monty Phyton, voleva un ritratto televisivo dell’isola verde: finì per dedicarsi cinematograficamente al musicista pretesto per la sua narrazione, documentando un tour da paura che consiglio vivamente di recuperare in musica e immagini. Gallagher ti dava sudore e lacrime blues e ti faceva pure cantare e ballare. Era un timido, un solitario e un testardo che non voleva scendere a patti. In lui non c’era nulla di artefatto. Pubblicava album ma rifiutava di licenziare singoli che gli avrebbero dato visibilità. Perché un singolo di successo ti appiccica un’etichetta. E delle aspettative e degli obblighi e — per la disperazione delle case discografiche e del fratello Donal che lo gestiva — questo era un compromesso che Rory non voleva accettare.
A metà Settanta il suo nome è caldo: i Deep Purple devono sostituire Blackmore e pensano anche a lui prima di scegliere un altro grande, Tommy Bolin. Un pensiero più concreto lo fanno i Rolling Stones orfani di Mick Taylor, che invitano l’irlandese a jammare per 4 giorni ad Amsterdam. Durante le sessions vengono fuori i riff di Start Me Up e di Miss You (per il reparto recriminazioni vedi Ry Cooder e Gram Parsons… Keith e Mick sono così, si sa), ma anche qui non se ne fa nulla. Gallagher ha la sua carriera e la sua band da portare avanti e gli Stones si rendono conto che gli serve un (favoloso e debosciato) gregario come Ron Wood, non un virtuoso cocciuto.
Sul finire del decennio un episodio che chiarisce il rapporto controverso del musicista col successo: a San Francisco produce un album che, nella testa dei dirigenti della sua etichetta, dovrebbe permettergli il grande salto nella Serie A musicale. Dopo mesi di lavoro e paccate di dollari spesi, Rory rifiuta quel suono pulito, ricco e tutt’altro che piacione. Vuole un impatto più grezzo e immediato: sente l’urgenza del punk e vuole rimettersi in discussione. L’album che inciderà subito dopo sarà uno dei migliori, ma anche uno degli ultimi con quella grinta.
Son cambiate troppe cose e gli anni Ottanta vedono il nostro trascinarsi nel circuito, senza i riscontri e l’entusiasmo che meriterebbe. Trionfa altra musica più vacua, impazzano giacche di Armani e tagli di capelli da denuncia e il nostro, con basettoni e giubbotto di jeans, non ha armi contro le star di plastica di MTV.
Affiorano superstizioni, ipocondria, paure (il terrore del volo che limita i tour) e complessi persecutori. Mettiamoci inoltre una certa propensione alla bevuta, specie della Guinness nera spessa come il Mar Morto, e pure il fisico di Rory dà segni di affaticamento. Con depressione e insonnia comincia l’abuso di pasticche, tranquillanti e soprattutto paracetamolo, mangiato come caramelle, pensando che faccia passare tutto. E che invece gli fotte il fegato.
Quando esce The Commitments (film che non potete non amare) nessuno sa che Alan Parker si è ispirato proprio alle esperienze giovanili del musicista di Cork, trasponendole nell’Irlanda attuale: Gallagher avrebbe dovuto impersonare il trombettista della band, ma la consueta timidezza lo fa rinunciare.
Ancora pochi album, sempre di buon livello anche se senza i sacro fuoco degli inizi, ma è dal vivo che Rory non ce la fa più. Io non potevo saperlo: non c’era Internet e per me lui era una figura mitologica, sospesa nel tempo, legata a qualche rara foto o alle copertine dei dischi dove campeggiava fiero con la chitarra vissuta e le camicione di flanella a scacchi. Cose che, tra l’altro, mi avevano infelicemente ispirato: la camicia a quadrettoni (col foularino alla Battisti) è stato il mio tragico trademark sartoriale pre-grunge sinché un tipo odioso, a una festa, mi ha salutato ironicamente chiamandomi John Wayne. E anche la mia chitarra, una Eko da poche lire dal suono unico (il mio! Orrendo!), dovette subire l’onta di sfregi incontrollati per assomigliare a quella gloriosa Strato corrosa dal sudore acido dell’irlandese. Il fatto è che Rory aveva sverniciato la sua chitarra con la passione, mentre io — scarsissimo — l’aveva fatto con un coltello, per poi scoprire, sotto l’approssimativa finitura, dei fogli appiccicati di compensato.
Il 2 luglio 1994 Gallagher suona al Pistoia Blues Festival e io rinuncio perché quel sabato lì devo fare il cameriere e a 24 anni quelli son soldi su cui si campa un’estate. Tanto — penso, quando VideoMusic trasmette il bel concerto qualche mese dopo — per vedere Rory ci sarà ancora tempo.
E invece Rory muore. È il 14 giugno del 1995, a soli 47 anni.
Un trapianto improcrastinabile del fegato, riuscito, cui è seguita un’infezione, fatale.
Lo vengo a sapere grazie a un trafiletto sul Secolo XIX che parla di un “musicista popolare durante gli anni Settanta”. Adesso se ne ricordano tutti e tutti gli rendono omaggio: Bob Geldof, The Edge e Bono, Johnny Marr degli Smiths, Slash dei Guns n’ Roses, Lou Reed, Bob Dylan, Jimmy Page, Gary Moore e anche quel Brian May che usa un amplificatore Vox AC30 proprio perché voleva imitare il suo suono…
Dal 1995 a oggi — curati dal fratello — sono usciti dischi inediti, antologie e Dvd che hanno provato a rilanciare un’artista umile, schivo e colto, uno che amava il cinema noir francese, Wenders, la Deneuve e il conterraneo Liam Neeson e che leggeva Orwell, la Highsmith, Chandler e Hammett (identificandosi) o Le Carré. E che poteva dedicare una canzone alla spia traditrice Philby per la quale provava una sorta di ammirazione (in generica chiave antimperialistica).
Questo culto ultraterreno non è però servito molto: oggi come ieri sono uno dei pochi a parte di questo segreto musicale unico e prezioso. Peccato.
Ma forse voi siete ancora in tempo, no?
Da ascoltare:
Rory Gallagher (1971)
Live! In Europe (1972)
Irish Tour ’74 (1974)
Calling Card (1976)
Da vedere:
Irish Tour ’74 (1974) di Tony Palmer
Ghost Blues: The Story of Rory Gallagher (2010) di Ian Thuillier
Da leggere:
Gallagher, Marriott, Derringer, Trower: Their Lives and Music (2002) di Dan Muise
Riding Shotgun (2005) di Gerry McAvoy