di Fabio Carnelli, Orlando Paris, Francesco Tommasi
[Lo scritto che segue è l’introduzione del libro “Sismografie. Tornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma”. Il testo raccoglie una versione ampliata dei contributi apparsi sul blog lavoroculturale.org in un focus dedicato a L’Aquila post terremoto. Un intreccio di contributi realizzati da autori e autrici con diverse formazioni che si sono occupati o si stanno occupando quotidianamente di studiare, ricercare e interrogare le contraddizioni emerse dalle pratiche di ricostruzione della città abruzzese.]
A cosa serve un anniversario? A commemorare un evento accaduto nel passato. Si fanno discorsi ufficiali e si inaugurano memoriali, si mostrano vecchie immagini e si pubblicano libri. Presi in una retorica della ricorrenza, tra fanfare e commiati, ciò che sfugge è il senso di tale occasione, mentre già aspettiamo e programmiamo la prossima, e così via. Ricordare un evento accaduto significa prendere atto che è trascorso del tempo e che qualcosa ormai ci divide da esso, facendoci sentire al contempo vicini e lontani. A circa mille giorni dal sisma che ha colpito la città dell’Aquila e le zone circostanti, cresce l’idea di cominciare ad occuparsi delle conseguenze che il terremoto e le successive modalità di azione hanno generato sui molteplici attori sociali coinvolti. Ma tornare a riflettere sull’evento sismico del 6 aprile del 2009 non vuol essere un semplice atto commemorativo.
Si tratta piuttosto di riannodare i fili della storia e quelli della memoria per provare a individuare e rielaborare, a fianco alle faglie che hanno irrimediabilmente trasformato il paesaggio urbano, le reazioni che le istituzioni, i media e i cittadini hanno utilizzato per superare il
trauma della catastrofe. Un terremoto che ha provocato così tante vittime e una tale devastazione non poteva non riempire le pagine dei giornali per diverso tempo. Ma l’oblio dei mezzi di informazione è arrivato con rapidità, lasciando che agli onori della cronaca sopraggiungessero altre notizie, altre catastrofi. Più è urgente il tentativo di aderire al presente e agli eventi che scuotono la nostra esistenza quotidiana e più essi ci sfuggono, facendo vacillare le nostre certezze. Il presente non si lascia cogliere: sembra quasi un assioma che non concede vie di fuga. La cronaca, uniformandosi ai caratteri di immediatezza e istantaneità dei mezzi di informazione, è forse la modalità principale di gestione dell’attualità; in essa si rintracciano i sintomi di questa relazione quasi patologica con il nostro tempo. Per il saggista e giornalista Antonio Scurati la cronaca non è soltanto uno dei modi per raccontare gli anni che stiamo vivendo. La sua pervasività sembra aver contagiato la nostra stessa percezione del tempo . Il fatto di cronaca viene appurato per commuovere o indignare il lettore-spettatore che non riesce a ricavare quelle coordinate generali attraverso le quali diventa possibile orientarsi nella contemporaneità. Per sottrarre all’egemonia della cronaca il controllo del presente, per restituire all’avvenimento tutta la sua complessità sarebbe utile praticare un nuovo “sguardo ermeneutico” in cui si intrecciano saperi e metodologie differenti. Questo è l’orizzonte che ci siamo dati nel nostro lavoro, con la convinzione che le scienze umane possano confrontarsi e dialogare tra loro, a partire da problematiche cogenti e tematiche di interesse comune. Ma ancora di più con la convinzione che i saperi e le metodologie vadano di fatto messi in azione, quotidianamente, nelle pratiche professionali di chi — a vario titolo — lavora nel campo della comunicazione e della cultura. Siamo partiti da qui, dalla riflessione sulla necessaria responsabilità del sapere umanistico e sulla possibilità di declinarne la sua efficacia in senso critico. Le scienze umane possono essere pensate come un insieme stratificato di teorie che, nel momento in cui vengono attivate, offrono modelli analitici per indagare il presente, per ritracciarne le connessioni, le linee di continuità e di frattura con il passato e al contempo le tensioni verso il futuro. È nella diagnosi del presente che le discipline si incontrano per intraprendere un lavoro di scavo sulle modalità di costruzione e trasmissione degli eventi, così come sulle strategie retoriche e le scelte ideologiche che ne hanno garantito la conservazione oppure l’oblio. Pensiamo che sia questa una delle modalità con cui compiere il lavoro della
rimemorazione e non della semplice commemorazione, della presa cosciente sul passato attraverso la quale è possibile ripensare quegli intrecci temporali, quello “sguardo ermeneutico” che sembra essersi dileguato nella cronaca. Sismografie. Ritornare a L’Aquila mille giorni dopo il sisma raccoglie un insieme di saggi realizzati da autrici e autori con diverse formazioni che si sono occupati o si stanno occupando di studiare, ricercare e interrogare le contraddizioni emerse dalle pratiche di ricostruzione del territorio aquilano. Dalla “fabbrica del terremoto” alle relazioni tra le istituzioni del territorio e la cittadinanza, dalla ridefinizione degli spazi di esistenza alle politiche della Protezione Civile, dal ruolo delle immagini nella rappresentazione di un mondo in frantumi alle sue conseguenze sulla vita dei cittadini che gli sono sopravvissuti. Nove contributi, ciascuno dei quali capace di raccontare e analizzare una parte o un aspetto dei luoghi, delle vite e delle forme della narrazione mediatica che sono state messe in atto a seguito del terremoto. Uniti in un unico contenitore, le singolarità dei temi che i vari articoli affrontano rivelano la complessità di un evento che non
riesce ad esaurirsi nella categoria di “catastrofe naturale”. Il libro si divide in tre macro-aree di analisi: i sistemi economici che si innescano intorno ai processi di ricostruzione, le forme inedite dell’abitare, dalle tendopoli alle New Town, infine le strategie della rappresentazione mediatica del sisma. La prima sezione del libro, Economie del sisma, propone una riflessione attorno alle forme d’intervento economico a seguito del terremoto aquilano. Superata la contingenza della catastrofe come evento naturale inaspettato, nasce la necessità di una riflessione più approfondita attorno alle macerie del centro storico dell’Aquila. La messa in moto della macchina economica relativamente ad un evento di tipo catastrofico impone una particolare attenzione rispetto ai processi decisionali, ai luoghi di questi processi e agli attori coinvolti. L’esistenza di diverse economie morali che si scontrano nell’agire intorno ad uno spazio collettivo diviene drammaticamente evidente già nei primi giorni dopo il terremoto e, come a sancirne simbolicamente la presenza, viene intercettata una telefonata fra i due imprenditori Pierfrancesco Gagliardi e Francesco De Vito Piscicelli. Quello che emerge dalla diffusione di questa comunicazione privata non è soltanto una manifestazione del cinismo e della corruzione presente nel settore imprenditoriale italiano, ma anche il preludio di un modus operandi che caratterizzerà buona parte della ricostruzione post sismica dell’Aquila. Pochissimi saranno i dibattiti pubblici veramente finalizzati a conoscere le necessità e le volontà della popolazione abruzzese, molte di più, possiamo immaginare, sono state le telefonate private e le decisioni di Palazzo lontane dai luoghi e dalle persone interessate. Quello che affiora dai processi di ricostruzione del territorio aquilano è uno sfasamento consistente fra la concezione politica d’interesse generale e le necessità
della popolazione: qui emerge il nodo critico che ha fatto del dopo sisma aquilano una lunghissima “emergenza”. La dimensione emergenziale ha inoltre favorito l’instaurarsi di uno stato d’eccezione evidente, costringendo la popolazione ad accettare la non intelligibilità dei processi che andavano definendosi. Il sostanziale deficit democratico che si è prodotto ha costretto le persone a ripiegare verso luoghi di democrazia sempre più ridotti, come nel caso della gestione delle tendopoli. L’articolo di Stefano Ventura, a partire da “Le macerie invisibili”, il rapporto presentato nel 2010 dall’Osservatorio Permanente sul Dopo Sisma diretto da Antonello Caporale, costruisce un’analisi storica comparando diversi processi di ricostruzione post sismica. Il saggio, inoltre, pone una particolare attenzione alla gestione economica del sisma evidenziando i vantaggi prodotti da una maggiore prevenzione ambientale e culturale dei territori. Nell’articolo di Fabrizia Petrei vengono invece analizzate le modalità di partecipazione utili a un processo democratico di ricostruzione. L’autrice propone forme di co-working, come la trasformazione dell’arena del dibatto pubblico in uno spazio di trasparenza, coinvolgimento e partecipazione per arrivare ad un vero e proprio open government della ricostruzione. Un tema affrontato anche al saggio di Lina Maria Calandra, nel quale l’idea di emergenza viene trasferita dall’evento naturale, in questo caso il terremoto, al contesto territoriale sul quale accade. L’autrice spiega come la gestione dell’emergenza aquilana abbia palesato
un deficit democratico che si è manifestato nella scarsa comunicazione fra le istituzioni, le organizzazioni e gli abitanti del territorio. La seconda sezione del volume affronta la problematicità delle pratiche e delle rappresentazioni di ricostruzione dell’abitare. La cornice è quella del dopo sisma che costituisce per i soggetti coinvolti diversi motivi di spaesamento, legati sia all’impatto del terremoto sia, come emerge dagli articoli, alla gestione dell’emergenza da parte del Dipartimento di Protezione Civile. In questo contesto emergono le tensioni, per utilizzare le parole di Michel de Certeau, fra le tattiche dei soggetti e le strategie delle istituzioni: se infatti la gestione delle istituzioni risulta essere precisa e razionale, varie e talvolta impossibili da portare in atto sono le tattiche dei soggetti, incessanti bricoleur in spazi e tempi completamente da ricostruire. Dalla tendopoli di Collemaggio, a pochi giorni dal terremoto, l’antropologa Rita Ciccaglione nel suo saggio riporta un’etnografi a che riflette sulle pratiche di reinterpretazione di spazio, tempo e relazioni: entriamo nel vivo di un tempo routinizzato, scandito dai pasti e dall’alzabandiera, ma percepito come vuoto, “schiacciato”, all’interno del quale è impossibile immaginarsi un futuro prossimo. Proprio per questo è necessario ripercorrere a ritroso le dinamiche di vita degli Aquilani fin dai quei primi giorni, quando una ben precisa riorganizzazione dei soggetti e del territorio aveva già in nuce una seconda distruzione della città, attraverso la creazione di una cultura dell’emergenza che ha protratto il tempo del trauma. È proprio l’esperienza del trauma il tema trattato dallo psicologo Emanuele Sirolli, protagonista di una ricerca svolta in tre New Town del Progetto C.A.S.E. Grazie all’intreccio fra i dati qualitativi e quantitativi raccolti e ad un’ampia riflessione sull’intera gestione emergenziale, l’autore ci spiega come, anche in una società “libera”, sia possibile subire i segni di una “sindrome da istituzionalizzazione”. Andando a toccare con mano le macerie di una frazione dell’Aquila che si è sempre pensata come una “comunità”, l’antropologo Fabio Carnelli ci fornisce gli spunti etnografi ci per poter interpretare l’impatto del dopo sisma dai più stretti e dimenticati vicoli di uno dei tanti piccoli borghi che compongono il variegato
cratere aquilano. Scopriamo come un insieme di luoghi “antropologici” sia stato espropriato alle vite delle persone. È estremamente problematico colmare la distanza fra le politiche della ricostruzione e i vissuti individuali e collettivi; si tenta così di ricostruire una memoria presente, in un mondo crollato, attraverso azioni concrete e processi simbolici. Nella più piccola delle frazioni aquilane si nasconde invece un processo consapevole di vera e propria ricostruzione identitaria che “traccia un cammino” nell’attuale dibattito nazionale sui Beni Comuni. Salima Cure, Isabella Tomassi e Filippo Tronca, descrivono come Pescomaggiore abbia “fatto da sé”, o meglio, abbia continuato un processo di patrimonializzazione già avviato, facendo del sisma un’occasione per ripensare totalmente il proprio orizzonte sociale, politico ed economico. I tre autori ci mostrano chiaramente il lungo percorso di produzione e riproduzione di nuove pratiche socio-politiche che, dopo la ricostruzione fisica delle case, sta portando alla creazione di una “coscienza di luogo” e di una nuova comunità. La terza e ultima sezione del libro, Spettrografi e, raccoglie gli interventi che si focalizzano sulle forme della rappresentazione dell’evento sismico aquilano da parte dei media. Questi ultimi sono considerati uno strumento determinante nella gestione del dopo sisma e dei suoi risvolti traumatici, così come nella ridefinizione dei valori comunitari. Ecco allora che l’informazione diventa principalmente uno strumento politico, di potere e di forza. Le retoriche e le immagini mediatiche
plasmano la nostra coscienza del presente e del passato più recente, tracciano percorsi di riferimento e possono, di fatto, servire da totem di una causa. Il saggio di Francesco Zucconi riflette sulle retoriche utilizzate dai giornali e dalle televisioni, che in buona parte hanno sfruttato la coincidenza dell’evento sismico aquilano con la Settimana Santa durante la quale, secondo la religione cattolica, “si segue la Passione di Gesù, se ne accompagna la morte e si testimonia la Resurrezione”. È disinnescando queste retoriche che si palesa l’efficacia del discorso mediatico nel costruire la narrazione di un evento di cronaca capace di selezionare i valori e le chiavi di interpretazione da parte dell’opinione pubblica. L’autore apre due
spazi di riflessione critica, il primo sulla possibilità che tale condotta del sistema dei media, anziché favorire la circolazione dell’informazione, possa schiacciare la partecipazione e limitare la presa di consapevolezza da parte della cittadinanza; il secondo sulla necessità di “un’etica delle immagini” intesa come una pratica,
che mira a coinvolgere gli operatori culturali come gli artisti e i giornalisti stessi, in grado di portare alla luce i processi di funzionamento delle rappresentazioni e le scelte che guidano le dinamiche di produzione e di condivisione delle immagini. Daniele Dodaro e Antonio Milanese, infine, analizzano il discorso fotografico
prodotto dagli speciali di “Repubblica.it” ed “Espresso.it”, per capire con che tipo di visibilità fotografica e forma narrativa sia stato riprodotto il dramma aquilano, e che memoria visiva sia stata restituita alla collettività. Come sottolinea Susan Sontag, quella che si definisce “memoria collettiva” non è affatto il risultato di un ricordo, bensì di un patto, per cui ci si accorda su quale versione dei fatti ritenere valida, «utilizzando le fotografi e per fissare gli eventi nella nostra mente» . I due autori si misurano, quindi, con l’analisi della “scrittura fotografica del trauma”: sono le immagini in sequenza nelle gallerie fotografi che online a generare la narrazione dell’evento sismico, che a volte procede per semplice accumulo di
informazioni mentre altre volte tratteggia delle vere e proprie storie lineari. Tre sezioni, nove saggi, dodici autori, offrono al lettore una costellazione di punti di vista sull’Aquila post-sisma che, lungi dal delineare un quadro interpretativo esaustivo e definitivo, denunciano l’importanza sociale e politica di continuare a scavare tra le macerie della tragedia. Non tanto e non solo per individuare dei colpevoli o dei capri espiatori, bensì per fornire alla memoria collettiva quegli strumenti necessari per imparare dagli errori del passato.
[AAVV, Sismografie, Arcidosso, 2012, Edizioni Effigi, pp. 119,12 euro]