di Girolamo De Michele
Il romanzo di una strage è, in prima battuta, un titolo ammiccante. Pasolini, Il romanzo delle stragi, io so ma non ho le prove: avete presente? Quella roba lì. Quella roba che nel film non c’è. Detto fuori dai denti: cominciano a svenderli a 3×2, i pasoliniani de noantri che si riempiono la bocca col coraggio della verità, il dovere della verità, la religione della verità fino all’estremo, e poi continuano a ruzzolare e razzolare come e peggio di prima. Il modo peggiore di uccidere una seconda o terza volta Pasolini è quello di usarlo come specchietto per le allodole: e Giordana, dopo aver girato un film su Pasolini nel quale, com’era suo dovere di intellettuale, lasciava intendere altri scenari e altri finali al di là di quelli giudiziari ufficiali, tradisce se stesso, il suo mentore e il pubblico con un film nel quale non si arriva neanche alle verità giudiziarie, figurarsi spingere lo sguardo un filo più in là.
Il romanzo di una strage è, quindi, un titolo menzognero. Perché “romanzo” dovrebbe alludere a un’opera di fantasia che non replica il reale, ma lo arricchisce attraverso una grammatica delle immagini che sopravanza quella grammatica delle parole che ripete il mondo. E in tal modo rende possibile dire ciò che la parola non può dire: la potenza della fantasia, si direbbe nella lingua di Dante. Ricorda Goffredo Fofi che il cinema italiano fu capace, all’indomani di dittatura e guerra, di opere che raccontarono ciò che ancora non si aveva la forza di dire. A l’alta fantasia qui mancò possa, si potrebbe dire: ma ciò ch’è certo è che qui s’è parsa la sua (di Giordana) nobilitade.
Il romanzo di una strage è, dunque, un film pavido. Che non ha il coraggio di dire che non segmenti marginali o laterali dello Stato, ma lo Stato in quanto tale, o se si preferisce l’altra faccia dello Stato, il doppio Stato, pianificò e attuò coscientemente la strategia della tensione, delle stragi, dei depistaggi, al fine di “destabilizzare per stabilizzare”. A mettere la bomba (la “seconda”, quella “vera”) sono stati figuri di secondo o terzo piano, esaltati e manovrati da soggetti stranieri, o al massimo dei “servizi” — espressione buona per indicare tutti e nessuno. Non c’entra la Democrazia Cristiana, non c’entrano i padroni (neanche quelli che, tra una sambuca e un motorino, finanziavano lo stragismo), non c’entrano Guida e Allegra, non c’entra neanche Junio Valerio Borghese, e alla fine probabilmente nemmeno Umberto D’Amato. Al massimo i colonnelli greci, che tanto non ci sono più. Tutto qui, quel che c’è da sapere? Ne sapevamo di più non dico dalle contro-inchieste — a partire da La strage di Stato [qui] —, ma dal memoriale di Moro. Non c’era bisogno di Cattleya, di un cast sontuoso (e in buona parte meritorio), del pacchetto Giordana-Petraglia-Rulli. O forse sì, c’era proprio bisogno di loro. Perché, lo spiego tra breve
Il romanzo di una strage è un film vigliacco: ma appena un filino. Giusto un pelo, un pelino di vigliaccheria: ma pelo di cinghiale, spesso e duro. Forte coi deboli, indulgente coi potenti: piuttosto li si fa passare per coglioni (Rumor), sant’uomini cascati dal pero (Moro), iracondi poco ragionevoli (Saragat), stronzi (Guida e Allegra), ma colpevoli e complici mai. Valpreda (come in generale gli anarchici tutti, e anche Feltrinelli) è raffigurato come un esaltato, uno che ha tanti di quei lati oscuri da aver potuto davvero metterla, la bomba (quella “finta”). E per rafforzare questo quadro — tanto Pietro non può più difendersi, e di parenti che si battono per la sua memoria non ne sono rimasti, e anche se fossero nessuno dirige un giornale — il Valpreda del film, come il mostro della “macchina del terrore” che vollero fosse — fa su e giù da Milano a Roma, da Roma a Milano, poi di nuovo a Roma con la vecchia 500… Poco importa che in questi 40 anni Carla Fracci abbia confermato che Valpreda era a Roma per un provino alla RAI, dove si incontrarono e si salutarono (e le pressioni da lei ricevute per tacerlo); poco importa che Valpreda nei giorni dopo la strage era a letto col febbrone: «l’accusa voleva un Valpreda completamente fuori di senno che porta la bomba (in taxi), si costruisce un alibi milanese (a casa sua), si precipita a Roma (mostrandosi in pubblico), infine ritorna a Milano (per dare nuova conferma all’alibi milanese) e, veramente diabolico, si presenta al giudice Amati». Sono parole, queste, di Marco Nozza, Il pistarolo, Saggiatore, 2011, p. 45: libro che Giordana dichiara di aver letto. E Nozza è anche presente nel film — uno dei pochi meriti di questa pellicola, è di rendere onore ai “pistaroli” — Nozza, Cederna, Stajano, Palumbo. Ma è un onore anch’esso un po’ vigliacco: ogni volta che c’è da dire qualcosa di scomodo — l’agente Annaruma non è stato assassinato dai manifestanti, Pinelli aveva ambedue le scarpe ai piedi, cose così — è sempre la voce di un giornalista che lo dice: mai una telecamera che inquadra, mai il film che mostra, figurarsi se Giordana ha il coraggio di dirvi cos’è davvero successo al Pinelli, quella sera che a Milano era caldo. Dietro al dito dei pistaroli gli autori del film si nascondono, metti mai che arrivi una querela… Basterebbe mostrare la foto del cosiddetto “riconoscimento” di Valpreda, lui scarmigliato e insonne in mezzo a quattro agenti vestiti da manichini Facis: ma così è troppo facile, si corre il rischio di dire la verità. E Valitutti, il testimone che NON VIDE uscire Calabresi dalla stanza della defenestrazione [qui la sua testimonianza]? Cucchiarelli, nel suo Il segreto di piazza Fontana, fa fare a Pinelli, Calabresi e compagnia il giro dei quattro cantoni della Questura, neanche fossero le stanze di Hogwarts, per trovare un angolo nascosto alla visuale di Valitutti: Giordana lo trasforma in un mezzo scemo che vede Calabresi uscire, poi tace, poi mente. Sapete, gli anarchici…
E Pinelli? Uno schizzetto di fango, ma piccolo, appena appena: il sospetto che le bombe sui treni, l’8 agosto 1969, le abbia messe lui. È vero, verissimo, che alla fine apprendiamo che quelle bombe le misero i fascisti: ma la modalità del prefetto ex machina che verbosamente rivela tutto ha un impatto retorico ben diverso da un sospetto che è stato più volte reiterato nell’azione filmica. Ma forse Giordana, Rulli e Petraglia queste cose da cinematografari non le sanno, faranno un altro mestiere. Resta che Pinelli viene assolto dallo spettatore non perché la trama lo dimostri: perché a rappresentarcelo come un uomo buono ci mette la sua faccia Favino. La responsabilità di mostrare il vero Pino Pinelli, Giordana non se l’è presa: c’era il rischio di far fare una brutta figura al commissario Calabresi. Per la cronaca: Pinelli quelle bombe non poteva averle messe, perché era su un treno partito da dieci minuti quando il treno su cui furono messe arrivò in stazione a Milano. È scritto negli atti (Sofri lo riporta a p. 89 del suo 43 anni), bastava leggerli: Giordana e gli sceneggiatori dicono di averlo fatto, sarà…
Il romanzo di una strage è un film politicamente corretto, che conclude una trilogia iniziato con Maledetti vi amerò e La caduta degli angeli ribelli. Nel mezzo, Rulli e Petraglia ci hanno infilato anche la sceneggiatura di La prima linea. Cos’hanno in comune questi docu-film? Il racconto di un decennio depurato del contesto sociale, delle lotte, delle ragioni del conflitto di classe. A parte qualche corteo e qualche manganellata, del conflitto di classe stesso. Lo spettatore ideale presupposto da Giordana è quell’archetipico cretino che ritorna in Italia in Maledetti vi amerò, ed è riuscito, dal Venezuela (ma dov’era? In cima a una montagna?) a non sapere nulla di quel che era accaduto in Italia: per sapere dell’assassinio di Aldo Moro ha bisogno di un commissario di polizia che gli fa leggere il numero di “Lotta Continua”. Gli spettatori a cui Giordana si rivolge sono così: non sanno nulla, e si fidano ciecamente del nulla che Giordana & C. hanno da dire loro. E quello che Giordana ha da raccontare loro è una storia rassicurante, nella quale i conflitti sociali sono opera di qualche svitato (“Svitol” è per l’appunto il nome del protagonista del suo primo film), di cui forse non sappiamo molto, ma tant’è… «Com’è possibile che ci si possa accontentare di parodie di ricostruzione storica come questa, da opera dei pupi, da filodrammatica e da sceneggiata, da museo delle cere, da gara paesana di imitatori, tra santini e macchiette e tra opposti buoni e i morti non possono più parlare, i vivi che sanno tacciono, i “servizi” — nazionali e internazionali — continuano, come hanno sempre fatto, a insabbiare, a inquinare, a manovrare, i politici a preferire la retorica alla persuasione», si chiede Goffredo Fofi: perché è rassicurante sapere che qualcun altro pensa e provvede per noi — sia pure un Aldo Moro santo subito fin dalla prima inquadratura, impersonato da un insopportabile Fabrizio Gifuni con il suo perenne essere-sopra-le-righe, e al quale bisognerebbe dire che non solo non è Gian Maria Volonté, ma neanche Roberto Herlitzka. Più inquietante sarebbe scoprire che il conflitto aveva delle cause, che c’è stato davvero, che ha lasciato delle tracce, degli sconfitti e dei vincitori. Ma questo sarebbe cinema, di quello vero.
Il romanzo di una strage è, infine, un film discretamente cialtrone. Lascia che siano le facce degli attori, e non la trama e la tecnica narrativa, a orientare il pubblico: provate a mettere al posto di Favino e Mastrandrea due facce qualunque, per dire. Che Moro e Calabresi siano da santificare, s’è detto, lo si capisce dalle prime inquadrature: il film comincia nel 1969, ma ciò che è accaduto ai due è retroattivamente già presente nella fisiognomica, e pazienza se Calabresi il vizio di interrogare gli anarchici sulla balaustra della finestra lo aveva anche prima. Per Valpreda no, non c’è retroazione: ha pagato e sofferto come pochi, ma la faccia che resta impressa è quella dell’esaltato del ’69. Stesso discorso per l’espressione da genio malvagio che accomuna Delle Chiaie e Freda: fisiognomica di basso livello davvero. E tra un’inquadratura piatta e una scelta scenica banale (dovrà pur passare in televisione, questa roba), senza mai un piano-sequenza degno di questo nome, un movimento di macchina originale, un’inquadratura particolare, arriviamo al gran finale, con la famosa finestra nella “famosa stanza” inquadrata in secondo piano, in leggera dissolvenza, mentre in primo piano D’Amato spiega a Calabresi che la terra gira attorno al sole, l’erba di una volta era più verde e i neri hanno il ritmo nel sangue. Da un regista come Giordana non si può pretendere che impari, riguardandosi chessò, Deserto rosso o Professione reporter, come Antonioni riusciva a fare di una finestra un’immagine alla Mark Rothko. «Com’è che artisti, intellettuali e professionisti delle comunicazioni di massa, dei settori più ufficiali di esse, non riescano mai o quasi mai a raccontare degnamente il tempo passato e a essere all’altezza dei problemi di questo, che dei primi ha ereditato il peggio?», si chiede ancora Fofi: beh, se non sono capaci dei fondamentali del mestiere, la risposta c’è. E la domanda diventa un’altra, che forse è poi la stessa: com’è che questa Italia osanna come intellettuali e artisti gente così?
Su Il romanzo di una strage consigliamo anche la lettura delle recensioni di Jumpinshark [qui], di Christian Raimo [qui] e di Corrado Stajano [qui].