di Sandro Moiso
Da molti anni non vado a votare.
Dal 1976 per dirla tutta.
Ma in trentasei anni ho partecipato a tre referendum.
L’ultima volta sulla questione nucleare e privatizzazione dell’acqua.
La prima volta nel 1978 per il cosiddetto referendum sull’aborto e l’altra, nel 2003, sull’estensione dell’articolo 18 alle aziende con meno di 15 dipendenti.
Inutile dire come ho votato in tutti e tre i referendum. E’ scontato.
Ma poiché questa forma di democrazia diretta applicata alle leggi dello stato mi è stata altrettanto a cuore in tutte e tre e le occasioni, è chiaro che ricordo bene le vicende che hanno portato ai differenti risultati raggiunti.
Due, come tutti sanno,sono stati un trionfo; l’altro no.
E quella sconfitta, che pur vide più di dieci milioni di italiani andare a votare a favore dell’estensione delle garanzie rappresentate dall’articolo 18 ai dipendenti delle piccole aziende, pesa ancora come un macigno sulle vicende odierne.
A quel referendum, su cui si sarebbe giocato il futuro delle condizioni di lavoro in Italia, partecipò poco più del 25% degli aventi diritto.
Di questi soltanto un milione e mezzo seguì le indicazioni dell’allora presidente della Confindustria D’Amato che, invitando a votare per il “no”, chiariva con nettezza che allo sperato fallimento di quel referendum sarebbe presto seguita la cancellazione dell’art.18 per tutti e in ogni azienda ciascuno avrebbe potuto essere licenziato arbitrariamente, consolato da un «risarcimento» monetario. Dieci milioni e 245mila altri votarono per il “sì”, ma non fu sufficiente per il raggiungimento del quorum necessario alla convalida del risultato.
Eppure poco più di un anno prima, il 23 marzo 2002, al Circo Massimo, si erano dati appuntamento tre milioni di manifestanti per il comizio di Sergio Cofferati, in una delle più partecipate e visibili manifestazioni pubbliche nella storia della CGIL. Tanto da far dire, oggi, allo stesso Cofferati che ci vorrebbe un’altra manifestazione come quella. Già, proprio come quella.
Tanta gioia, tanti applausi, tanto moto, tanti abbracci, poca o nulla sostanza.
Maxi-schermi che proiettavano “La vita è bella” di Benigni, slogan anti-berlusconiani, dirigenti delle varie correnti della sinistra parlamentare e degli oramai dimenticati “girotondini” e poi tanti studenti, dipendenti pubblici e, ancora, tanti, tanti pensionati.
Tutte cose che facevano tanto “Festa dell’Unità”…che, come recitava un vecchio slogan degli anni settanta, “la lotta di classe non la fa”!
Eppure, oltre che contro il governo Berlusconi, la manifestazione prendeva spunto proprio dal primo serio tentativo, dell’allora governo in carica, di abolire o ridurre le garanzie rappresentate dal famigerato articolo 18.
Ma da lì ad un anno, una volta che la strada verso il referendum fosse stata definitivamente imboccata, si sarebbe visto lo stesso Cofferati, non più segretario della CGIL, dichiarare che il referendum era inopportuno e che quindi non sarebbe andato a votare.
In questa posizione l’ex-leader CGIL non fu solo.
La compagine degli astensionisti fu piuttosto numerosa e vide schierati non soltanto l’unto del signore che invitò, craxianamente, gli italiani andare al mare (si era di giugno), ma anche quasi tutti i dirigenti diessini.
Fassino, che com’è noto non si è mai sbagliato ed è sempre stato dalla parte dell’imprenditoria, si dichiarò nettamente a favore di un astensionismo attivo. Come dire:”non dirò di andare a votare no, ma di non andare a votare sì”. Miracoli della dialettica revisionista!!
La CGIL in quell’occasione diede l’indicazione di votare sì, ma sostanzialmente ciò che rimaneva della compagine politica della sinistra moderata rifiutò di impegnarsi a favore della riuscita di quel referendum. Che rimase perciò sulle spalle di Rifondazione Comunista e dei poche dirigenti sindacali e dissidenti DS che lo avevano promosso e/o appoggiato.
Tenuto conto che la televisione, pubblica e non, di fatto ignorò quasi del tutto l’avvenimento, insieme agli organi di stampa nazionali, è chiaro che il risultato non poteva essere che scontato.
Ma dietro a queste considerazioni, forse fin troppo note, occorre farne alcune altre. Forse più antipatiche.
La prima, e ce l’hanno ricordato in questi ultimi giorni alcuni quotidiani nazionali, è che fin dal 1985 la CGIL, nella persona dell’allora segretario Luciano Lama, si era detta d’accordo alla riforma dell’articolo 18 e, in particolare, a limitare il reintegro sul posto di lavoro se non per cause legate alla discriminazione sindacale o di altro genere oppure a procedure viziate.
Accanto a ciò il documento, elaborato nel corso di tre anni dalla commissione lavoro del Cnel (Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), intendeva equiparare le tutele dei lavoratori senza più nessuna differenza o quasi basata sulle dimensioni dell’impresa.
Come ci ricorda Alessandro Ricciardi in un articolo pubblicato su Italia Oggi il 23 marzo 2012:
”Nel documento si mettevano all’indice il sovraffollamento di norme che creano «sperequazioni irrazionali di trattamento, perfino la possibilità di trattamenti radicalmente diversi» per lo stesso lavoratore. La necessità di unificare le leggi si somma poi all’urgenza di riportare l’obbligo di rientegrazione allo spirito iniziale dello Statuto, limitandolo ai licenziamenti viziati per forma e alla discriminazione, ma estende questa tutela anche ai lavoratori delle imprese con più di 5 dipendenti al tempo esclusi. In tutti gli altri casi dovrebbe essere lasciato al datore di lavoro, dice il documento, la scelta tra la riassunzione del lavoratore ingiustamente licenziato oppure il pagamento di una penale a titolo di risarcimento. I componenti della commissione avevano la consapevolezza che un sistema farraginoso e fortemente diversificato di tutele finisse per essere dannoso non solo per le imprese ma anche per i lavoratori”.
Sono più o meno le stesse parole con cui questo piatto di qualità piuttosto scadente ci viene ripresentato oggi dal governo dei professori, da un lato, e dall’acceso dibattito interno al PD, dall’altro. PD che, dicono le cronache, si è ricompattato intorno alla proposta Letta.
Sì lui, Enrico Letta, vicesegretario del PD e membro italiano del ramo europeo della Commissione Trilaterale insieme a Mario Monti, John Elkann (Presidente della FIAT Spa), Carlo Pesenti (consigliere delegato di Italcementi), Marco Tronchetti Provera ed altri blasonati nomi del capitalismo italiano.
E allora? Sempre a menarla con il PD e le sue malefatte? Eh, basta!!
Giusto, basta. Pensiamo al futuro, ma sempre senza dimenticare due o tre cosette del passato.
Prima cosa, antipatica anche questa: l’articolo 18 così come si è dato ha da sempre costituito una sorta di discriminazione tra i dipendenti delle imprese di medie e grandi dimensioni e quelli delle imprese piccole e piccolissime. Per non parlare poi di tutti quelli che lavorano, ma non esistono (in nero)…miracolo della dialettica capitalistica.
Venti giorni dopo la manifestazione del 23 marzo a Roma, ci fu lo sciopero unitario del 16 aprile 2002, sempre a difesa dell’articolo 18.
Tenendo conto dei dati forniti da Confindustria, l’autore delle presenti note, nella corrispondenza intrattenuta allora con una rete di compagni, poteva svolgere alcune, matematiche considerazioni.
“Mentre i sindacati affermano una partecipazione di 13 milioni di persone allo sciopero del 16, Confindustria stima a 4.881.200 le adesioni allo sciopero. Effettivamente su 13.973.000 lavoratori dipendenti, le stime sindacali sembrano un po’ esagerate. Ma scendiamo nel dettaglio:
– il 35% dei lavoratori che ha scioperato sarebbe ripartito in un 20% nell’agricoltura, 47% nell’industria, 20% nei sevizi privati e 44% nella pubblica amministrazione.
– Esaminando con più attenzione si vede come nelle imprese industriali con almeno 500 addetti ha scioperato il 70%, in quelle con meno di 16 addetti il 5%, nei trasporti e comunicazioni il 70% e nella intermediazione monetaria e finanziaria il 55%.
– Teniamo conto del fatto che restano esclusi da questo conto almeno 5 milioni di lavoratori “in nero” limitandoci ai dati forniti dalla Banca d’Italia per il 1998. E che difficilmente hanno scioperato (facilmente intuibile, no?).
– Aggiungiamo ancora a questi circa 4 milioni di lavoratori atipici, parasubordinati o con contratti di formazione e/o apprendistato (dati aggiornati al 1999 secondo il Rapporto CNEL del 2000).
Ci accorgiamo che, per prima cosa, tutti barano sui numeri e che lo sciopero sull’art. 18, sugli investimenti al Sud e, sostanzialmente, contro il governo Berlusconi, ha coinvolto, se non nei casi in cui i sindacati di base sono particolarmente significativi (leggi trasporti e, parzialmente, scuola) anche se è difficile attribuire la partecipazione all’una o all’altra sigla sindacale, una massa composta prevalentemente di operai delle grandi aziende e dipendenti pubblici […]
Probabilmente i soggetti meno garantiti, esposti allo sfruttamento più selvaggio, coloro che per antonomasia rientrerebbero nelle file del proletariato di cui parla Engels, erano scarsamente o per nulla presenti. Perché non solo non avevano modo di esser sicuri della copertura sindacale, ma anche perché nulla in quella piattaforma sindacale li poteva rappresentare: l’art.18 per chi già ne usufruisce e investimenti facilitati al Sud, dove già gli imprenditori hanno scoperto la manna dei contratti diversificati e delle facilitazioni contributive.
Ora, pensare che tutto ciò non abbia risvolti sui rapporti tra e nelle classi è frutto solo di ragionamenti che banalizzano ed impoveriscono la realtà con cui occorre fare i conti.
Realtà in cui la capacità di coinvolgere sia sul piano sindacale che politico i dannati del lavoro diventa inscindibile dall’attività di propaganda e irrinunciabile per lo sviluppo di lotte future. Per questo motivo, pur criticandone tutti i limiti, occorre tener conto di quelle forze sindacali (ad esempio i COBAS) che nelle loro piattaforme hanno inserito temi sindacali veri: orario, salario, diritti uguali per gli immigrati e i non garantiti, etc. E che su questa base hanno portato in piazza diverse centinaia di migliaia di scioperanti”.
Pur chiedendo venia per la lunga auto-citazione, resta comunque innegabile che l’abbandono di una buona parte dei lavoratori produttivi alle grinfie pure e semplici del proteiforme capitale ha costituito da sempre un motivo profondo di indebolimento della classe in sé.
Per cui resta sempre valida la considerazione che la classe si rafforza soltanto nelle lotte che rilanciano verso l’alto la posta in gioco e soprattutto nelle lotte che riguardano il salario e le condizioni di lavoro.
Ieri come oggi la profferta di condizioni comuni in realtà, sia che venga da parte governativa, sia che provenga da parte del PD, nasconde sempre un’offerta al ribasso.
Ovvero uguali condizioni contrattuali per tutti a patto che queste segnino un peggioramento delle condizioni lavorative a vantaggio degli imprenditori (italiani o stranieri non importa).
I contratti diventeranno tutti atipici, con grande sfoggio di contratti d’apprendistato già previsti dalla legge Biagi e già fin troppo diffusi tra i giovani lavoratori. Naturalmente con gran libertà di licenziamento, per tutti, per cause economiche e giammai per discriminazione.
Bravi, ma il lavoro salariato non è già di per sé sintomo di una discriminazione, non è già di per sé alla base delle differenze di classe che vorremmo abolire?
Il referendum del 2003, pur contraddittorio e, probabilmente, legato a logiche politiche ormai superate, segnava un passo in direzione di un’altra e più equa organizzazione contrattuale. Tutto il resto, come al solito, son balle.
Si vuole forse affermare con ciò che la battaglia sull’articolo 18 non sia oggi importante o che le garanzie da esso fornite non siano lecite? Tutt’altro, anche alla luce delle recenti sentenze sull’affaire FIAT vs. FIOM, ma allo stesso tempo è assolutamente necessario chiarire che ogni battaglia politica e sindacale va condotta innanzitutto in nome degli interessi di classe e non di quelli nazionali e che, tale battaglia, per essere efficace deve essere sempre condotta in maniera offensiva.
La guerra di trincea è stata la peggior trovata dal punto di vista tattico di tutta la storia dell’arte bellica mentre la guerra di movimento si è rivelata vincente sia sul piano della guerra tradizionale che, e soprattutto, su quello della cosiddetta guerra asimmetrica.
Eppure le dirigenze politiche e sindacali moderate invitano sempre la classe a scendere in trincea in difesa di qualche immancabile “ultimo baluardo”.
Nossignori, non funziona così.
La classe si è sempre difesa attaccando: che fossero le occupazioni degli anni settanta, gli scontri di Corso Traiano o le iniziative dei movimenti dei disoccupati americani degli anni trenta o dei cittadini greci di oggi, la capacità di mantenere l’iniziativa e di rilanciare le richieste è stato sempre un fattore determinante per il rilancio delle lotte e dell’unità di classe oltre che fattore di vittorie politiche e sindacali decisive.
Oltre a ciò va ancora detto che la fretta e la furia con cui si vuole modificare o abolire l’art.18 non riguarda nemmeno l’interesse generale degli imprenditori.
Molti di loro hanno già dichiarato che non è quello il punto (soprattutto per le aziende che già ne sono escluse), ma, piuttosto, gli investimenti.
Ovvero: signori del governo fate uscire più soldi dalle banche, in direzione degli investimenti produttivi. Qui, in Italia.
Eppure Monti promette affari ed investimenti d’oro se l’articolo sarà abolito…già..
In effetti i grandi investimenti stranieri in Italia non sono altro che le acquisizioni di stabilimenti importanti da parte del capitale tedesco (Ducati) e cinese (FIAT). Ma per fare ciò i futuri padroni vogliono essere sicuri di aver mano libera nella gestione della manodopera (turni, orari, licenziamenti).
Il governo dei tecnici mira alla terzomondizzazione della società italiana, altro che sviluppo e fine “dello sfruttamento dei giovani” (che belle parole Signor Presidente della Repubblica)!
In Italia bassi stipendi, orari molto flessibili, scarse o nulle garanzie per chi lavora, alle imprese straniere i profitti…ma scusate non era così anche in Thailandia, in Argentina, in Cile e in cento altri paesi schiavizzati dal FMI?
Qui non occorrono colpi di stato però, basta far scendere prontamente il valore dei titoli bancari italiani e far risalire a quota 350 il mitico spread. Così come è di nuovo accaduto negli ultimi giorni.
Tra mille deplorazioni, un folto numero di operai dell’ALCOA ha bruciato in piazza, l’altro giorno, il tricolore e le tessere elettorali. Capelli ritti in testa a tutti, da Bersani alla Presidenza della Repubblica, mentre Susanna Camusso promette uno sciopero generale subito…a fine maggio oppure, ridotto a 4 ore, il 13 aprile.
Vladimir Il’ic Ul’janov, in arte Lenin, insegnò, ai comunisti di sinistra italiani ed europei, che cent’anni fa proprio in parlamento non ci volevano andare, che alle elezioni si partecipa soltanto per portare la lotta di classe anche all’interno dei parlamenti borghesi e non per partecipare alle coalizioni per gestire gli interessi del capitale.
I lavoratori italiani ed europei iniziano a ricordarlo naturalmente e, forse, è questa l’unica riforma del lavoro e della politica che potrebbero condividere.
Allegato: Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (Legge 20 maggio 1970 n.300)
Ferme restando l’esperibilità delle procedure previste dall’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, il giudice con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento ai sensi dell’articolo 2 della predetta legge o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità a norma della legge stessa, ordina al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici prestatori di lavoro o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro. Tali disposizioni si applicano altresì ai datori di lavoro, imprenditori e non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano più di quindici dipendenti ed alle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa alle sue dipendenze più di sessanta prestatori di lavoro.
Ai fini del computo del numero dei prestatori di lavoro di cui primo comma si tiene conto anche dei lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale, per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale.
Il computo dei limiti occupazionali di cui al secondo comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
Il giudice con la sentenza di cui al primo comma condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata l’inefficacia o l’invalidità stabilendo un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione e al versamento dei contributi assistenziali e previdenziali dal momento del licenziamento al momento dell’effettiva reintegrazione; in ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità di retribuzione globale di fatto.Fermo restando il diritto al risarcimento del danno così come previsto al quarto comma, al prestatore di lavoro è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto. Qualora il lavoratore entro trenta giorni dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro non abbia ripreso il servizio, né abbia richiesto entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza il pagamento dell’indennità di cui al presente comma, il rapporto di lavoro si intende risolto allo spirare dei termini predetti.
La sentenza pronunciata nel giudizio di cui al primo comma è provvisoriamente esecutiva.
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
L’ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l’ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell’articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
L’ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
Nell’ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all’articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all’ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l’ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all’importo della retribuzione dovuta al lavoratore.