di Sandro Moiso
William T. Vollmann, Zona proibita, Mondadori 2012, pp. 122, € 10,00
C’è una bellissima scena all’inizio di Zombi, il secondo film della saga dei morti viventi di Gorge Romero. Il titolo americano, più consono alla bisogna, era Dawn of the dead, l’alba dei morti.
Il contagio delle resurrezioni cannibalesche si sta diffondendo a macchia d’olio e in uno studio televisivo giornalisti, scienziati, militari e politici cercano di calmare la popolazione enumerando le diverse ipotesi per spiegare ciò che sta succedendo e i comportamenti più adatti da mettere in atto.
Pian piano, però, lo studio televisivo diventa un’arena dove i differenti esperti si insultano e si affrontano brutalmente. Mentre all’esterno i membri delle SWAT affrontano con progressiva difficoltà l’espandersi del contagio, sugli schermi televisivi appaiono immagini sempre più confuse, il panico dilaga mentre il dibattito si fa sempre più concitato e sfocia in un’autentica rissa.
Poi, poco per volta, lo studio si svuota. Non c’è più nessuno.
E così davanti agli schermi.
Nel 1978, alla sua uscita, vidi quel film tre, quattro volte di seguito ed infinite volte l’ho ancora visto negli anni seguenti. Proprio per quelle immagini.
Che descrivevano il crollo della società occidentale come nessuna altra.
La fine, il crollo di un sistema che si vuole perfetto ed è incapace di reagire alle crisi, se non divorando se stesso. Immagini che ci portavano e ci portano ancora nel cuore della catastrofe futura.
Nella zona del disastro.
Proprio come fa William Vollmann con il suo ultimo libro, un reportage su Fukushima e le zone limitrofe, frutto di un viaggio dell’autore in Giappone nel mese seguente allo tsunami e al successivo disastro nucleare. Ci prende per mano e, con la solita spassionata lucidità cui ci ha abituati con tutti i suoi testi precedenti, ci porta all’inferno.
Quello della stupidità e dell’arroganza dei governi, delle menzogne televisive e della disperata passività sociale di fronte ad un avvenimento catastrofico destinato a modificare definitivamente o a distruggere la vita di un enorme numero di esseri umani.
Così un dramma di portata storica, paragonabile a quello di Chernobyl oppure a quelli di Hiroshima e Nagasaki, viene ridotto ad un puro problema di promesse di aiuti e di ripresa dei consumi.
“Ho ritenuto che l’elemento più importante fosse l’incidente del reattore. Il terremoto e lo tsunami erano stati una tragedia, ma il danno oramai era fatto[…]. Quest’altro orrore, invece, nel suo involucro di becquerel, sievert e millirem, era appena cominciato, e nessuno sapeva prevederne la gravità” (pag.37).
Già, perché proprio dalla confusione fatta in termini di becquerel, sievert e millisiert (differenti unità di misura della radioattività presente nell’ambiente) inizia la disamina delle menzogne e/o dell’ignoranza della comunità politica, giornalistica e scientifica giapponese.
Per semplificare la questione occorre dire che confondere le tre unità di misura sarebbe come dire che una certa quantità di pere pesa trenta grammi, tre chili oppure tre quintali e che è la stessa cosa.
Vollmann, che prima di partire dagli Stati Uniti si è procurato un rilevatore di radioattività individuale, è particolarmente attento alla questione e ben presto si rende corto che non solo le persone comuni, ma anche le autorità e l’informazione fanno una gran confusione nell’utilizzo dei termini e delle differenti unità di misura.
Così un taxista, parlando con l’autore, afferma ridendo:”Mia moglie mi ha detto di non uscire perché pioveva, ma io me ne sbatto! Il governo dice sempre: nessun effetto immediato sulla vostra salute! Ah ah ah! Ogni giorno informano sul livello di radiazioni in questa prefettura. In confronto alla dose di una radiografia, che è di 600 sievert, non misera poi tanto spaventoso!”. “Sievert o millisievert?” domanda l’autore (pag.85).
Sì, perché la cosa non è di poco conto poiché 600 sievert costituirebbero cento volte la dose letale di radiazioni assorbibili da un corpo umano. La dose di una radiografia al torace è di 0,001 sievert.
E quello della disinformazione casuale o programmata è solo uno degli aspetti del lento aggirarsi tra i gironi infernali che circondano l’area evacuata di Fukushima.
Anche sulle vittima dello tsunami non vi sono certezze e così quando , dopo aver visitato l’obitorio di Ishinomaki, dove l’espressione sofferente che i cadaveri assumono “dipende molto da come è inclinata la testa” (pag.60), Vollmann decide di chiedere al locale capo della polizia quante siano state le vittime locali, si sente rispondere: “Il nostro orientamento è di non rispondere a domande sulle cifre”(pag. 61). Inoppugnabile.
Nella zone del disastro, tra rovine infinite e persone che sgattaiolano come ladri tra ciò che rimane delle proprie case alla ricerca di un ricordo o di un oggetto, la polvere sospesa nell’aria fa bruciare la gola. Tutti hanno paura e, spesso, la proverbiale gentilezza giapponese lascia il posto a risposte affrettate e nervose. Così mentre cerca di avvicinare due persone di mezz’età con il volto coperto da inutili mascherine di carta, probabilmente marito e moglie, che si stanno dirigendo verso la propria auto dopo essere usciti da una casa, l’autore si sente rispondere:”Non abbiamo tempo. E’ la prima volta che riusciamo a tornare qui per controllare la nostra casa, da quando siamo stati evacuati a Tochigi,[…]Non abbiamo tempo, non abbiamo tempo!”(pag.110). Poi li vede correre verso l’auto e allontanarsi a tutta velocità dalla zona contaminata.
Sì, perché si preferisce la parola contaminazione piuttosto che parlare di radioattività, quasi si trattasse di un’influenza. La verità deve essere esorcizzata, sia in alto che in basso.
E’ questo limbo, in cui finiscono col vivere tutti i superstiti delle aree devastate dal sisma e gli sfollati delle aree più vicine alla centrale nucleare, che costituisce il centro del reportage di Vollmann. Una sorta di nulla definito soltanto dall’incertezza dei dati e delle informazioni.
L’autore arriva a Tokyo esattamente un mese dopo la catastrofe. E’ l’11 aprile 2011 e solo quel giorno il governo giapponese ammette che l’incidente alla centrale è di livello 7 ovvero uguale a quello di Chernobyl.Trenta giorni di ritardo! A fronte di un incidente destinato ad inquinare mortalmente aria, territori ed acque marine, a questo si riduce la tanto vantata competenza dei tecnici, degli scienziati, dei governanti giapponesi, modello supremo di efficienza capitalistica!
E coloro che nel disastro naturale hanno perso tutto, cosa ricevono?
Rifugi per sfollati o alberghi, dove devono usare i propri risparmi per vivere, oppure miseri aiuti economici locali. “Ho saputo che il comune dà cinquantamila yen (l’equivalente di 450 euro) a famiglia, ma non sono riuscita a iscrivermi nelle liste. L’ufficio del municipio non funziona molto bene. Ho perso il lavoro,ma non so se posso iscrivermi all’ufficio di collocamento in questa prefettura” (pag.45) dice una giovane donna con due figli piccoli.
Mentre a Tokyo si registrano black out quotidiani e non si sa quando arriverà la nube radioattiva portata dai venti, nelle due fasce di evacuazione (un primo anello di 20 chilometri di evacuazione obbligatoria intorno alla centrale ed un secondo , più ampio, dove l’evacuazione è soltanto consigliata) si sopravvive…come all’Aquila o in qualsiasi altra area dove disastri naturali ed umani abbiano rivelato il vero volto del nostro tanto decantato progresso.
Ma nelle città limitrofe tutto continua a funzionare come se nulla fosse successo, anzi!
“A Ishinomaki il primo piano del supermercato era aperto e nuovamente tirato a lucido. Quasi tutte le merci erano abbondanti come prima del sisma.[…] Le lavatrici erano esaurite. Dato che lo tsunami ne aveva distrutto un gran numero; per la stessa ragione, anche le concessionarie d’auto stavano facendo grandi affari” (pag.51). La merce circola in abbondanza, il capitale vive.
Ancora una volta un disastro per la specie umana può trasformarsi in un momento di rilancio dell’economia e della produzione. In fin dei conti è per questo che lavorano professori, economisti e governanti. Di modo che un altro taxista giapponese alla domanda: “La Tepco (Tokyo Electric Power Company, società proprietaria della centrale nuclear di Fukushima) dovrebbe essre punita?” Può rispondere onestamente: “Era la politica del governo. Lo hanno fatto per il paese” (pag.111).
Disastro nucleare? In nome del paese!
Guerra? In nome del paese!
Taglio della spesa pubblica e delle pensioni? In nome del paese!
Abolizione di qualsiasi garanzia sindacale e di ogni difesa del posto di lavoro? In nome del paese!
Realizzazione della TAV e di altre opere inutili, costose e dannose? In nome del paese?
Amen e così sia.