di Girolamo De Michele*
[Per Francesco Lorusso, Antonio Mariano, Barbara Azzaroni e Valerio Spisso: Emancipate yourselves from mental slavery]
Fosse un film o un romanzo, potrebbe intitolarsi “La leggenda del pianista sulle barricate”. Ma non è un’invenzione narrativa: è successo davvero, e chi c’era ricorda. Era la sera del 12 marzo 1977, Francesco Lorusso assassinato dagli sgherri di Kossiga, la zona universitaria di Bologna assediata dai carri armati e chiusa dalle barricate. Da una di esse, in via Zamboni, si levano le note di una canzone: “Chicago” di Graham Nash. La registrazione audio di quel momento è da poco riemersa da un qualche scatolone o cassetto: basta cliccare sull’immagine in alto per ascoltarla — fatelo, prima di continuare a leggere.
Molte storie sono nate da quella storia. Era Chicago, o Chopin? Era uno solo, il pianista? E il pianoforte, com’era arrivato all’interno di una barricata? E dov’era?
Molte storie, molte memorie. Connettendo i diversi ricordi, unendo una sfaccettatura all’altra, il disegno alla fine è abbastanza nitido da essere raccontato. Grazie, soprattutto, al lavoro di Enrico Scuro, che con la raccolta delle foto dei “ragazzi del ’77” ha riaperto i cancelli della memoria. E liberato qualche frammento di quei sogni rimasti impigliati nel cancello dei denti.
Il pianoforte fu portato fuori dal Conservatorio, e posizionato in via Zamboni, davanti a un locale: questo ha fatto pensare che venisse dal locale. In una narrazione romanzesca (M. Marino, Non sparate sul pianista, Libro Libero, Pavia 1978, p. 26) l’intera barricata viene trasfigurata in un’assemblaggio di strumenti musicali:
Il cielo era nuvoloso a forma di fumo. Quella volta abbiamo fatto una barricata di strumenti musicali. Appartenevano ad un conservatorio. Trombe, clarini, contrabbassi, violini e tamburi, ma il più voluminoso era un meraviglioso pianoforte a coda.
Imponente stava in mezzo alla barricata e sembrava, lui da solo il vero argine che avrebbe impedito che noi fossimo travolti dalla polizia che minacciosi se ne stavano dall’altra parte coi fucili puntati.
Poi è partito un candelotto. Sassi. Fucilate. Pistole. Fucilate. I bossoli volavano sulle teste infuriate e allora mi è parso di sentire una musica. Da dove viene? Viene forse dai nostri gesti, dalla nostra rivolta. Si è vero. È vicina questa musica. Questa musica è in noi.
Più volavano i proiettili, più la musica cresceva, ritmica, imponente, meravigliosa.
Era Antonio che suonava sul pianoforte a coda in mezzo alle barricate la musica che era in noi, e sulla schiena aveva un cartello con su scritto: NON SPARATE SUL PIANISTA.
In realtà il piano non aveva coda: secondo Gianluca Galliani, ex tastierista dei Gaz Nevada, «era uno Steinway 9 Grand Piano, cioè the best del pianoforte. OK, suonarono in 2-3, uno fui io che feci una “Mussorgsky Pictures at an Exhibition” (ma solo la breve promenade) con seguito rock’n’roll vecchio stile “Honky” (non quella di Emerson, ma simile). Gli altri prima di me e dopo, di cui purtroppo non ricordo i nomi».
Uno dei nomi era quello di Claudio Lolli: «Su quel pianoforte ho messo anch’io le mani una notte, pochi minuti amichevoli con lui e, tra i sassi che giravano in aria e i postumi dei manga nella schiena, quel suono spettrale e magico era come se aprisse un’altra dimensione. Forse proprio quella che avevamo sperato di aprire. Chicago o non Chicago, una questione di suono. Coi suoi cani vicini che non abbaiavano mai come se avessero capito che quel pianoforte sotto il portico emetteva dei suoni anomali, non disturbabili».
E poi Antonio Mariano, da Campomarino, vicino Termoli. Lo ricordano tutti come sorridente e gentile, leggermente claudicante a causa di una poliomelite infantile; aveva adottato due cagnolini, uno per sé e il suo amico, e li aveva chiamati Harold e Maude. Si sedette al piano e suonò “Chicago”. E qualcuno gridò davvero: NON SPARATE SUL PIANISTA!
Qualcun altro compose dei versi che furono letti su Radio Alice:
Il pianoforte borghese / trascinato sulla strada / fra due barricate / si trova stupito / a suonare note / più calde, più dolci. / Il mogano lucido / circondato dal fumo / sporco dei lacrimogeni. / Ed uno strano pianista / deposti i sampietrini / suona imprevedibile / la sua serenata. / Sul suo capo / sassi e cose passano. / E una voce allarmata / oltre la barricata / più in là 100 metri / “un pianoforte, attenti / può essere nocivo.” / Sorridono i compagni e la tensione cala / l’aria si fa più dolce / sul segno lucente / si ammucchiano i pavè. / Il pianoforte borghese / accompagna gli scontri / e si sorprende / più giovane / in mezzo alla strada / guidato da un pianista / senza frac.
Poi, come in una tragedia, la storia fece un altro quarto di giro, e tre mesi dopo la Guzzi rossa su cui Antonio con la sua ragazza stava scendendo al sud toccò un furgoncino in direzione avversa durante un sorpasso, finì fuori strada, e fuori strada portò anche Antonio.
Sfogliando il libro di Enrico Scuro, guardando le foto di 35 anni fa, a volte si viene presi dalla stessa rabbia strascicata in una canzone di Vasco:
Ma non ricordo se chi c’era
aveva queste queste facce qui
non mi dire che è proprio così
non mi dire che son quelli lì!
Qualcuno ha perso i capelli e messo su la pancetta, qualcuno ha fatto di peggio. Qualcuno non c’è più. Qualcuno c’è rimasto, magari entrando in banca e rimanendo inchiodato dal gendarme che avrà anche preso un encomio per aver messo in salvo il capitale: e fa male vedere l’immagine di Valerio al funerale di Barbara.
E qualcun altro ha fatto una morte diversa, rimanendo in banca dalla parte sbagliata: ci sono vite che sono una morte un po’ peggiore.
Pochi, forse: ma la metà basterebbe.
Ad Antonio non è capitato di scegliere, non ne ha avuto il tempo. Ma nessuno riuscirebbe a pensarlo dalla parte sbagliata: sarà perché anche “Chicago” è rimasta quella di allora, con Bobby Seale — So your brother’s bound and gagged / And they’ve chained him to a chair – che non s’è pentito e Graham Nash che va ancora a cantare a Occupy Wall Street. Sarà perché quel momento è stato, anche, secondo Claudio Lolli «una epifania del ’77 bolognese. Banalizzo: duri, ma con gioia. E quale gioia maggiore può esserci che sentire le note di “Chicago”, di notte, nel centro di Bologna invaso dai carri armati? A loro la durezza (anche nostra) a noi invece solo tutta la gioia».
Sarà che qualcosa di quel momento è ancora nell’aria: come le note della violinista che ha suonato di fronte ai gendarmi durante i blocchi in Val di Susa.
E sembra di sentirle ancora, quelle parole:
Somehow people must be free
I hope the day comes soon
Won’t you please come to Chicago, show your face
From the bottom of the ocean
To the mountains of the moon
Won’t you please come to Chicago, no one else can take your place
We can change the world
Rearrange the world
It’s dying – if you believe in justice
It’s dying – and if you believe in freedom
It’s dying – let a man live his own life
It’s dying – rules and regulations
Who needs them, open up the door
* Un grazie di cuore per le informazioni a Claudio Lolli, Ambrogio Vitali, al gruppo fb “Il libro I ragazzi del ’77”, ai nipoti di Antonio Mariano e ad Enrico Scuro