di Dziga Cacace
Maledetti! Maledetti per l’eternità, tutti!
Charlton Eston, Il pianeta delle scimmie
375 — Il pianeta delle scimmie, pelosamente di Franklin J. Schaffner, USA 1968
Ah beh, un capolavoro. Questo l’ho visto la prima volta nel 1982, in un ciclo Rai, credo pomeridiano, al sabato, sul televisore a colori appena comprato in vista del Mundial di Spagna. A me, digiuno in materia e poco propenso alla fantascienza, questo film — che magari gli appassionati troveranno a buon mercato proprio per il pubblico come me — aveva fatto veramente sballare: i colori, la musica, i costumi e anche l’intreccio. Qualcosa di rivoluzionario per un dodicenne ottuso allora come oggi: uno shock paragonabile, quell’estate, solo a Paolo Rossi, El hombre del partido, e a Battiato che imperversava da ogni radio, tivù e giradischi. Sì, sono un nostalgico, e il calippo, Subbuteo, Cerco un centro di gravità permanente, Tardelli che urla come un forsennato e Cornelius e Zira sono – nella mia testa – ancora tutti legati indissolubilmente. Ma non voglio far casino e procedo con prussiana linearità: Tele+ quest’inverno ha trasmesso tutta la saga dei pelosi, rispettando il formato cinemascope degli originali, e allora ho deciso di concedermi una visione consequenziale che mi manca da vent’anni. Stavolta però evito gli ultimi due episodi, che ricordo già allora un po’ deludenti. Convoco la cugina Alessandra (che, come Barbara, ha solo un vago ricordo della cheapissima serie televisiva) e si parte. E il film ci convince in pieno: ha ritmo, belle trovate e un mistero aleggiante che regge fino alla fine, sempre che uno non abbia prima visto il poster del film, sorta di imbecillissimo spoiler visivo che ti sbatte in faccia il finale on a solitary beach. E come vedete, tutto torna.
Avventura, fantascienza e ironici rimandi al presente convivono nel film senza difficoltà: ci sono scoperti riferimenti alla contestazione giovanile e alla situazione politica dell’epoca, ma il film è antinuclearista, pacifista e libertario (nella nostra accezione, non in quella yankee) senza sembrarmi mai falso. La definizione dei personaggi è ottimale (da “Occhi vivi” Taylor all’avversario professor Zaius, dagli adorabili Cornelius e Zira alla catatonica Nova) e si perdona che tutti, scimmie del futuro e uomini del passato, parlino un inglese impeccabile e reciprocamente comprensibile. Quanto a recitazione, Charlton Heston è un po’ rigidino, ma che voglio – a parte un pronto intervento ortodontico – dall’uomo che è stato Michelangelo, Ben Hur, Mosè e ha affrontato pure l’infernale Quinlan? Non lo aiutano alcuni dialoghi, questi sì un po’ retorici, ma la parte evidentemente funziona e l’americano integerrimo, destrorso e difensore del diritto alle armi avrà – ironia della sorte – altri ruoli in film distopici dove poter aprire gli occhi di fronte alla realtà del Sistema che, nella realtà reale, difende. L’attrice che interpreta la bambolona Nova, invece, quanto a motilità, se tenesse anche la boccuccia a “O” potrebbe essere venduta tranquillamente in un porno shop. La regia sfrutta i bellissimi paesaggi, concentrandosi su campi medi e lunghi e tralasciando i primi piani, però brave le scimmie e chi s’è occupato del loro trucco. Insomma, all’ennesima visione Il pianeta delle scimmie mi sembra ancora una potente figata. Il remake “trattato” da Burton di qualche anno fa era una bestemmia e recuperava alcune cose del romanzo originale di Pierre Boulle da cui i film sono tratti. Potrei cercare di ricordare le differenze, ma se volete saperle — e ce ne sono, alcune radicali — leggetevelo voi, il romanzo. E che sono, io, il valletto vostro, eh? Vabbeh: cosa devo scrivere di più per convincervi a recuperare il film? Ma niente, guardatevelo anche voi e fine della storia. (Vhs da Tele+; 26/4/03)
376 — L’altra faccia del pianeta delle scimmie, butterata, di Ted Post, USA 1970
Ora, non fate i tonti, ma sapete benissimo com’è andato a finire, per cui scrivo liberamente, dài: il secondo episodio della saga parte dov’era finito il precedente. Mentre Taylor s’è perso per i fatti suoi, è arrivata un’altra astronave terrestre in soccorso e, chissà per quale curvatura spazio temporale, ha viaggiato anch’essa sempre in avanti nel tempo ed è atterrata esattamente dove erano arrivati i primi astronauti, guarda tu il caso, alle volte. Il superstite dell’atterraggio si chiama Brent (è un attore che ricordo in un film di Dario Argento) e stavolta, noi con lui, andiamo a vedere la faccia nascosta del pianeta delle scimmie, che, guarda un po’, è proprio lì, sempre nella New York post-atomica. La società dei pelosi è in gran fermento: la classe dei gorilla vuole menare le mani e pretende terre su cui espandersi. La casta degli oranghi scienziati/religiosi si oppone debolmente e a nulla vale la contrarietà dei pacifici scimpanzé, eterni studentelli contestatori. Si parte quindi alla conquista della misteriosa zona proibita, dove avvengono fatti inspiegabili. Lì risiedono gli umani superstiti alla catastrofe nucleare, tipetti che fanno tanto i superiori ma in realtà risultano isterici come un gatto in calore, anche perché hanno problemi di pelle che al confronto il vaioloso Noriega ce l’aveva liscia come il culo di un neonato. Sono tutti sfigurati dalle mutazioni radioattive e possono difendersi solo con la forza del pensiero (inducendo nei nemici delle temibili esperienze sensoriali), geniale trovata del reparto effetti speciali che fa risparmiare un sacco di dollarucci. Inoltre i buontemponi telepatici adorano la Bomba definitiva, che conservano per l’olocausto finale, tipo “muoia Sansone”, tanto, butterati come sono, la vita è comunque uno schifo. Vi lascio il dubbio piacere di scoprire da soli come andrà a finire: la trama è interessante nelle sue linee generali, ma nel particolare, invece, crolla più volte. E se gli sconclusionati fan della Bomba riservano qualche sorpresa, quando si arriva allo scontro finale tra gorilla e uomini superstiti la vicenda si esaurisce in una banalità deprimente. La satira sul presente era riuscita e funzionale ne Il pianeta delle scimmie, qui sembra invece appiccicata per conquistare un po’ di pubblico giovanile e risulta grottesca (si veda la contestazione degli scimpanzé, coi cartelli e le cariche delle forze dell’ordine). Il protagonista principale James Franciscus è in linea con la qualità attoriale del suo predecessore Heston: un po’ una bestia. Gli altri se la cavano, ma quello che manca veramente è uno sforzo per irrobustire la trama. C’è passato, comunque. E poi, siccome nel Pianeta delle scimmie ci viviamo, prendiamo qualche giorno di vacanza durante le feste pasquali. Barbara è una vedova della tivù, giacché io lavoro 7 giorni su 7, e nella spirale di depressione che l’ha colta è finita prigioniera di un gruppo di bridgisti. Andiamo dunque a Salsomaggiore dove partecipa ai campionati italiani per non so quale categoria di schiappe. Io mi guardo in lungo e in largo le terme, dove Bertolucci ha ambientato alcune scene di Novecento e lascio una fortuna nel negozio Sweet Music, acquistando bulimicamente dischi dei Grateful Dead che mai più ascolterò. Ovviamente non ci basta il tavolo verde (al quale io non saprei neanche giocare a rubamazzo, per capirci) e facciamo una puntatina a Parma, che è sempre un ritorno piacevole: ci ho lavorato per due anni, seguendo il Piano Regolatore e regalando un’impennata di vendite ai produttori di crudo. Nella splendida patria di Bernardo che qui ha girato Prima della rivoluzione a 23 anni (ripeto: 23 anni!) non possiamo evitare la tanto strombazzata mostra sul Parmigianino e il manierismo europeo e ci sottoponiamo docilmente al rito borghese della coda davanti alla Galleria Nazionale. Durante la visita mi segno le seguenti cose: Mosè difende le figlie di Jetro di Rosso Fiorentino è il quadro che ha il centro geometrico sull’uccello di Mosè ed è modernissimo, con colori quasi pop e figure definite seccamente, tanto che sembra un Guttuso cinque secoli prima. Correggio fa facce desolate ma c’è sempre una luce negli occhi, una vitalità e la Madonna di San Girolamo mi dà un brividino estatico per la composizione mossa e vibrante. Vabbeh, adesso faccio pure lo Sgarbi de noantri. Ad ogni modo il Parmigianino dà il meglio nei ritratti borghesi, come La schiava turca e L’Antea (razziata dai tedeschi nel 1944 e poi recuperata). Invece mancano tanti pezzi, tra cui i ritratti dei conti di San Secondo conservati al Prado. O la Madonna dal collo lungo, agli Uffizi di Firenze. O la Visione di San Girolamo, rimasta a Londra alla National Gallery. Mettici poi l’aria viziata e la puzza di tutti i turisti del mondo, nessun percorso espositivo reso coerente da spiegazioni e un allestimento stocastico e per niente memorabile. Insomma, questa mostra mi irrita e non bastano le bocconate di parmigiano seguenti per colmare questa mancata indigestione di Parmigianino: rimango della mia idea, che le monografiche siano eventi mondani cui accorrono i lettori boccaloni chiamati a raccolta dalla copertina de “Il Venerdì” di Repubblica. Come me. E comunque a me piacciono i musei. Vuoti. (Vhs da Tele+; 29/4/03)
377 — La credibilissima Fuga dal pianeta delle scimmie di Don Taylor, USA 1971
E mentre la terra del 3000 e rotti (…quasi 4000!) fa il botto, la navetta con cui i terrestri avevano raggiunto il pianeta delle scimmie viene usata da Cornelius, Zira e lo scienziato Milo per scappare (e tornarci). Il caso vuole che la velocità raggiunta e tante altre evidenti teorie scientifiche che non ho il tempo di spiegarvi permettano loro di tornare indietro nel tempo, sulla terra, 2000 anni prima, dove stanno ancora aspettando notizie di Taylor e della sua missione astronautica, i babbioni. Le scimmie vengono studiate e analizzate sinché Zira – stufa di essere trattata come una bestia curiosa – sbotta e parla. La notizia fa scalpore e le scimmie diventano popolari, sinché sempre Zira, incinta, si piglia una ciucca durante la quale confessa l’orrendo futuro che aspetta gli umani. Gli spioni del governo dei matusa vogliono interrompere il loop temporale in cui si sta cadendo e per modificare il destino non c’è altro da fare che rimuovere la causa della ventura sventura: Cornelius, Zira e il neonato erede Milo. Ma questo sfuggirà alla cattura grazie a Ricardo Montalbán, direttamente da Fantasilandia, e diventerà il progenitore della razza che si rivolterà all’uomo (anche qui potrei brillantemente intrattenervi con le mie competenze di genetica, ma vi invito a fidarvi: è tutto possibile, nei film di fantascienza). Il futuro è scimmia, dunque. La vicenda funziona ad anello ed è causa ed effetto di se stessa; dell’olocausto nucleare che — nel primo episodio — sembrava essere il motore di tutto lo sviluppo non si fa più cenno (o magari sarà contestuale al dominio delle scimmie sull’uomo, boh). Ci sono provocatori rimandi cristologici (la caccia al piccolo Milo è paragonata alla strage degli innocenti di Erode) e le autorità terrestri, superata l’iniziale e ottusa diffidenza, si dimostrano prepotenti, oscurantiste e assassine, come da miglior tradizione di fantascienza di sinistra che a me, se devo dirla tutta, pare invece un momento di sanissimo realismo. Sono comunque sempre più flebili e generici i riferimenti al presente storico e questo terzo episodio della saga gioca quasi esclusivamente sull’azione e sul conferimento di una coerenza all’intreccio. Il modello del primo episodio è ribaltato simmetricamente e stavolta c’è una coppia di psicologi umani che deve studiare gli scimpanzé venuti dal cielo. Non ci sono grandi invenzioni, non c’è un particolare ritmo, né altri motivi di gaudio e anzi, subentra un po’ di delusione perché il ricordo molto positivo ne esce ferito. Il ciclo prevede altri due film in cui le scimmie, diventate il miglior amico dell’uomo a causa di un’epidemia tra cani e gatti, imparano a parlare e, poco a poco, assimilano i costumi dei loro padroni e, da schiavi animali, rovesciano il potere umano. Una metafora anticapitalistica e libertaria? Mah, mi piace pensarlo, ma cinematograficamente non c’era grande dignità estetica. E infatti, questi non li ho visti. (Vhs da Tele+; 17/5/03)
378 — La 25ª ora del miglior Spike Lee, USA 2003
Finalmente il grande film di Spike Lee che aspetti da sempre. Montgomery Brogan, spacciatore, vive la sua ultima giornata di libertà dividendosi tra i suoi affetti, tentando di capire chi l’ha tradito e chi gli rimarrà fedele, nonostante lo aspettino sette lunghi anni di carcere. New York, l’amatissima New York, è sofferente, colpita nel suo cuore dall’attacco dell’11 settembre. Monty attraversa questo scenario di dolore e prova a prendersela con tutti, per concludere che la colpa è solo sua e per accettare un destino di espiazione. Si confronta con gli amici di sempre e col padre, tentando di chiudere tutte le questioni rimaste aperte. La sua via crucis si chiude con una nota di speranza: non è stata la sua compagna a tradirlo e forse lo aspetterà. C’è anche spazio per una fantasia di libertà, per sottrarsi alle proprie responsabilità, ma è solo un sogno (una 25ª ora, appunto), non come in altri film di Lee dove cose simili avvenivano con incredibile faccia tosta registica. Ancora uno sguardo alla maschera sofferente di Monty e poi c’è spazio solo per Springsteen che canta di spegnere le luci (The Fuse da The Rising) per il buio dei titoli. Splendido. Pietà, compassione, vendetta, peccato e redenzione, rapporti familiari, soldi, sesso, droga: come tante altre volte Spike Lee prova a metterci dentro tutto e stavolta ci riesce, con un equilibrio raro, senza essere didascalico o retorico (forse perché non è soggettista né sceneggiatore). È il film della maturità: intenso, misurato, commovente, catartico, dove un americano nero fa i conti con la sua terra d’adozione (o di costrizione) e sa rendere il fardello delle emozioni umane di fronte alla tragedia, personale e collettiva. La colpa (delle nostre vite, della nostra società, delle due torri) è da cercare in noi stessi, senza tentare di schivare le responsabilità, e forse la condanna è giusta e non bisogna (o non è possibile) sfuggirle, non tanto con moralismo quanto con moralità. Bello il montaggio (con alcuni attacchi ripetuti), bella la fotografia (ipersatura), strepitosi gli attori, azzeccate le musiche (dallo score originale ai pezzi mixati della discoteca). Insomma: gran film, uno dei migliori dell’anno. Visto in mezzo a un pubblico di merda (chiacchiere, telefonini, cibo etc.) e pure Davide e Adria: beccarli a vedere ‘sto film è un po’ come trovare Totò Riina che gironzola per il MOMA. (Comunque io l’ultimo giorno di libertà lo strutturerei così: ascolto di Made in Japan dei Deep Purple e di At Fillmore East della Allman Brothers Band, visione integrale di Novecento e cena a base di trenette al pesto e cappon magro. E poi fate di me ciò che volete). (Cinema Ducale, Milano; 18/5/03)
379 — L’illusorio The Matrix di Larry e Andy Wachowski, USA 1999
Il secondo episodio di Matrix sta arrivando sugli schermi e decidiamo di farci un ripassino, complice il prestito del dvd della cugina Alessandra. Ritroviamo il film come lo avevamo lasciato, con l’abilissimo mix di New Age, arti marziali ed estetica da playstation. La realtà come rappresentazione (nel film), ma anche come arte della citazione (il film) a partire dall’iniziale omaggio a Hitchcock di Vertigo: lo stile roboante e adrenalinico diventerà a breve mainstream, (ri)portando al grande pubblico il kung fu e compiacendolo con un linguaggio parapubblicitario, ma dotato di un’anima (cinematografica e spirituale/filosofica). La sto facendo facile: ovviamente non è solo così e nel film c’è anche tutto l’immaginario più o meno recente della fantascienza (con Dick borseggiato ormai da tutti), con furti qui e là ma pure con qualche idea non proprio pop (ed evito accuratamente di dirvi quali, non sapendolo assolutamente). Carrie-Anne Moss è la splendida Trinity; Keanu Reeves è Neo (l’hacker Messia); Lawrence Fishburne è Morpheus (una specie di Giovanni Battista, direi). Ma i migliori sono i cattivi, indubbiamente: Hugo Weaving è l’amareggiato agente Smith, dalla visione del genere umano sprezzante e disgustata: l’uomo è un virus, un parassita che distrugge quello che trova sul suo cammino. E ha fottutamente ragione. E poi è condivisibile anche la visione puramente sensoriale del traditore Cypher (come Lucifero?): chi se ne frega se la bistecca è pura illusione? Basta non saperlo e addentarla con gusto e non sarò io a contraddirti, amico mio, di fronte a una bella fiorentina. Comunque noto che quando tutto l’intreccio narrativo e metaforico è stato dispiegato, Matrix casca sulla cosa più banale: Neo viene fatto secco, ma novello redentore resuscita per l’amore puro di Trinity. L’amore, capito? Tutto ‘sto casino e poi basta un bacetto: da Dick a Harmony senza passare dal via… naaa! Colonna sonora bella pesante col finale (Wake Up!) affidato ai gloriosi Rage Against the Machine. Il dvd contiene anche tanti bonus che spiegano le tecniche di ripresa e gli effetti speciali, nonché il training imposto agli attori per farli volteggiare per aria e padroneggiare il kung fu. I fratelli Wachoski — con berretto da baseball e bermudoni — sono due simpatici cazzoni. Vedendoli al lavoro si capisce perché Matrix sia tutto sommato così divertente (perché a me queste cose non piacciono per niente, di solito. E — diciamocela tutta — non mi sono addentrato nella trama mica per evitarvi scorrettissimi spoiler, macché!; è che se dovessi farvi un riassunto coerente, non sarei minimamente in grado, tra realtà virtuali e diversi piani narrativi). (Dvd; 20/5/03)
380 — Il menoso Tesis di Alejandro Amenábar, Spagna 1996
Angela è una studentessa prossima alla laurea in una facoltà tipo DAMS (facoltà… vabbeh). Ottiene una tesi sui rapporti tra violenza e sua rappresentazione e chiede al prof. se può aiutarla a cercare particolari filmati contenuti nella videoteca universitaria. Il prof. va, scopre un deposito segreto di nastri, prende una vhs, se la guarda e ci rimane secco per una crisi incontrollabile, un bell’infartino. Oddio, che avrà visto? Angela trova lo stecchito e recupera segretamente il nastro: è un cosiddetto snuff movie la cui vittima è una studentessa scomparsa l’anno precedente. Con l’aiuto dello sfigatissimo cinefilo Chema, Angela porta avanti la pericolosa inchiesta: incontra il bel tenebroso Bosco e scopre che… Giocato intellettualmente sul potere della visione e del desiderio, Tesis è in realtà un thriller che sfiora anche il serial killer movie, fruibile al livello più basso della scala evolutiva dello spettatore. Ma in Italia non se l’è filato nessuno, anche perché è un film lunghetto, che a tratti scade nella prevedibilità e che troppo spesso s’impasta in metafore intellettualistiche. Gli attori sono appena discreti (e la protagonista sembra un ferro da stiro: è un commento maschilista, lo so, ma chi se ne frega. Anche Alvaro Vitali è mostruoso. Che c’entra? Niente, appunto); il ritmo è a corrente alternata e il gioco su chi tra i due maschioni stia tradendo Angela è insistito e non particolarmente riuscito (a fine film, avreste mai dubitato sull’identità del vero maniaco?). L’idea migliore del film è l’ambientazione all’interno di un’università, luogo vivissimo di giorno, assolutamente spettrale di notte. La mia facoltà di Architettura a Genova, ricavata da un convento seicentesco a sua volta costruito su rovine precedenti (e immagino tante ossa risalenti all’alba dei tempi), era uno splendido intrico di sotterranei e passaggi nascosti. Ho sempre sognato di ambientarci un giallo in cui assistenti, segretari, studenti e prof. si ammazzassero vicendevolmente (desiderio palpabile in ognuna delle succitate categorie). Ma non sono capace, se no non sarei qui a scrivere fregnacce. E tornando a Tesis: è appena discreto, con qualche guizzo, e nient’altro. Ah: di Apri gli occhi di Amenábar (altro scippo dickiano, già che ci siamo) è uscito l’anno scorso il remake USA Vanilla Sky, firmato dal furbacchione Cameron Crowe e interpretato dal bove nasuto Tom Cruise. Un giorno piglio un taxi per lavoro e non faccio in tempo a mettermi comodo che il conducente iracondo mi assale subito come se io avessi qualche responsabilità: “Per colpa di Vanilla Sky io le giuro che non metterò mai più piede in un cinema! Capito?”. Capito, capito. Pensa tu i mostri che crea il traffico di questa città. (Vhs da RaiTre; 21/5/03)
381 — L’esagitato West Side Story di Robert Wise e Jerome Robbins, USA 1961
Nel West Side newyorchese la supremazia sul territorio dei Jets (greci, ebrei, italiani, polacchi: i terroni dei WASP, per intenderci) è minacciata dall’ondata d’immigrazione dei portoricani (i terroni dei terroni, per intenderci bis), radunati nella banda degli Sharks. Ma mentre i due gruppi si odiano, ci sono la latina Maria (Natalie Wood, erotica come la Regina Vittoria, a 80 anni) e il grande, grosso e ciula slavo Toni, che si sono innamorati al primo sguardo laser, magia del cinema. Baruffe e scazzottate non risolvono il contenzioso tra bande e allora si decide una sfida tipo Orazi e Curiazi, ma finisce malissimo con Toni che ammazza il fratello di Maria, colpevole di aver accoltellato a morte il leader dei Jets. Caccia all’uomo e sacrificio finale di Toni (e Maria morirà con l’imene inscalfibile, è evidente). Tra echi di Romeo e Giulietta e Brecht/Weill rivisti secondo l’ottica stretta del Capitale, la vicenda parte frizzantissima, poi si sgonfia un po’, adagiandosi in una prevedibilità tragica fin troppo cristianeggiante. Buoni sentimenti, ribellismo macchiettistico ma anche riferimenti a droga e prostituzione che all’epoca dovevano ancora dare qualche brivido al pubblico borghese. E lo slum riesce ad acquisire pure una sua estetica, come dimostrano gli splendidi titoli ad opera di Saul Bass. Detto questo e che a me i musical ricordano palatenda, puzza di sudore e la Cuccarini e Giampiero Ingrassia che sgambettano allegri, West Side Story è un film interessante: sono notevoli le coreografie in esterni (a partire dalla prima straordinaria sequenza con New York ripresa dall’alto) o quelle ambientate nelle bellissime scenografie ricostruite, aiutate anche da un uso espressivo del colore (con preponderanza dei rossi violenti: la passione, l’amore, l’odio). Però, a me, una storia dove all’improvviso i protagonisti cominciano a schioccare le dita e ballare e cantare fa strano, devo dirlo. Forse sono un po’ troppo square, non lo nego, ma se il teatro è morto, il musical — per conto mio — non è neanche venuto al mondo. E Jesus Christ Superstar è un’altra cosa, è una rock opera (e Grease e il Rocky Horror fanno anch’essi categoria a parte: così, con queste arbitrarie categorizzazioni, evito qualunque futura polemica). E poi devo dire che, a parte America e Maria, i due temi più conosciuti, la musica non è che mi faccia impazzire: una sorta di jazz orchestrale democristiano buono per il consumo radiofonico, cantato in maniera sguaiata (per adesione al carattere ribelle dei protagonisti) oppure sussurrato con angelico nitore da Toni e Maria (gli unici due già redenti). Probabilmente, col tempo rivaluterò West Side Story, ma ad adesso un certo gonfiore testicolare mi induce a pensare il contrario (e l’America migliore è quella dei Nice di Keith Emerson, durante la contestazione alla guerra in Vietnam). (Vhs da Tele+; 22/5/03)
Qui le altre puntate di Divine Divane Visioni
(Continua — 34)