di Mauro Baldrati
Sto procedendo nella lettura lenta di Leielui, l’ultimo libro di Andrea De Carlo. Questa non è una recensione, non ancora — se mai la scriverò — ma una semplice nota. E anche la risposta a un’aggressione sul piano personale. Ma procediamo con ordine.
La storia, riassunta con l’accetta, parla di uno scrittore in crisi di nome Daniel Deserti e di una ragazza americana, Clare, con mille dubbi esistenziali, soprattutto sulla sua vita affettiva. I due, dopo un larghissimo giro periferico, finiranno per incontrarsi. Almeno speriamo, perché sono arrivato a pag. 374 e per ora non è successo ancora un cazzo (nel senso proprio letterale). Ci sarebbero delle attrazioni, dei sentimenti contrastanti, delle fughe, dei giri concentrici, cose del genere, ma la faccenda va per le lunghe. Fatto sta che lui la sta portando in Francia per un week end breve (lei ha accettato non sa bene perché, è incasinata col fidanzato avvocato che vuole comprare una casa per andare a viverci, ma è attratta dal fascino oscuro dello scrittore). Fanno una sosta in autogrill e lui “a un certo punto le indica un tipo sulla tarda trentina vestito con braghe corte larghe, maglietta con scritta insensata, testa tonda rasata lucida, sandali di gomma.”
È estate e fa un caldo bestiale (con pagine enfatiche sul caldo che sembrano uscite da un romanzo di genere post apocalittico). Lo guardano, lo studiano e d’un tratto lui le dice: “Non è desolante questa storia degli uomini vestiti da bambini?” Lei fa qualche domandina, ridacchia, assume il classico ruolo della spalla per dare sfogo alla filippica di Daniel, che pontifica sempre su un sacco di questioni. E subito parte in quarta: “Non hanno più nessuna voglia di crescere, né di migliorarsi. Al contrario, rivendicano il diritto a restare immaturi per sempre. E naturalmente non stiamo parlando dell’aspetto libero, contemplativo, incontaminato dell’essere bambini. Stiamo parlando dell’egocentrismo divorante, della fragilità emotiva, della maleducazione, dell’ignoranza, della pigrizia, della mancanza di coraggio, dell’incertezza, dell’incoerenza, dell’inconsistenza, dell’incapacità di assumersi responsabilità, del bisogno inestinguibile.” Non è che si ferma qui il Deserti. Tira avanti per pagine, fa sempre così quando parte per la tangente, quindi rincara la dose: “Puoi sempre spacciare i tuoi comportamenti deteriori come trasgressione delle regole. Considerarti quasi un artista, no? Senza tenere conto che la maleducazione e l’ignoranza e la volgarità sono la regola, per chiunque, dai capi di governo ai presidenti di tribunali, all’ultimo dei poliziotti e dei presentatori televisivi.” Ovviamente non è ancora soddisfatto, si tratta di un anatema complesso, per cui tira dritto senza prendere fiato. Così, mentre sta intortando la ragazza (che poi non lo dice né lo pensa, perché essendo un artista dal fascino oscuro non “intorta” come i comuni mortali di sesso maschile), le fa dei discorsi come questo: “adesso vi ritrovate questi maschi che parlano come bambini e si vestono come bambini e sono ossessionati da se stessi come bambini e vogliono sempre nuovi giocattoli come bambini, si ficcano le dita nel naso e si grattano i testicoli e mangiano e bevono e ruttano e scorreggiano come bambini, ma in compenso consumano risorse come adulti e vogliono fare sesso come adulti e hanno la barba che gli cresce come adulti e la zucca pelata come adulti e pesano come adulti e sono prepotenti come adulti e sono pericolosi come adulti e devastano l’ambiente come adulti.” Ormai è lanciato, è una macchina in corsa, ma mi fermo qui perché devo ricopiare tutto questo testo avendo il libro su carta. Ho provato anche a pronunciare il discorso d’un fiato, ma non è facile, non c’è abbastanza ossigeno, si diventa rossi, gli occhi strabuzzano per lo sforzo respiratorio.
Ma il problema non è la verosimiglianza del dialogo, né la critica letteraria. Il fatto è che io d’estate porto i calzoni corti, un paio di bermudazzi militari coi tasconi, che adoro. A Bologna il caldo è qualcosa di solido, di feroce, non potrei andare in giro coi calzoni lunghi. Amo la libertà delle gambe nude, arieggiate. E ho pure una vecchia maglietta che mi regalò Magnus con un suo disegno e la scritta Tattoo Expo. Dunque, caro Daniel Deserti, anche se non ho la “testa tonda rasata lucida” potrei essere io il tipo dell’autogrill. Per cui come ti permetti di rivolgermi tutti quegli epiteti? Che ne sai dei miei “comportamenti deteriori”? E “l’egocentrismo divorante, la fragilità emotiva, la maleducazione, l’ignoranza, la pigrizia, la mancanza di coraggio”, che ne sai? Mi conosci? E quel tipo nell’autogrill, lo conosci? Guarda, Daniel Deserti, faresti meglio a guardarti allo specchio. Sei chiuso nel tuo supremo disprezzo verso il mondo che ti circonda dove tutti sono meschini, ignoranti, volgari, bugiardi, vili. L’ambiente letterario, che pure frequenti, ti fa schifo, il tuo editore è un dead man walking, gli altri scrittori sono dei ruffiani, dei commedianti, delle teste vuote, e le presentazioni dei libri, alle quali partecipi, sono delle recite ignobili dove regna sovrano lo squallore. Lo sai chi evoca un tipo così? Un bambino che sta al centro del mondo, che vuole tutto perché tutto gli è dovuto. E la sua rabbia individualista, il suo disprezzo solitario derivano dal desiderio frustrato. Gli altri non li conosci, non ti interessano, perché il bambino è rivolto soprattutto verso se stesso, concentrato sul proprio ombelico.
Caro Daniel Deserti, mi vesto come voglio, come ho sempre fatto, quando portavo i capelli lunghi incurante dei predicozzi altrui. Non ho un’immagine cool da gestire, né un fascino oscuro da difendere. Appena arriverà il super-caldo indosserò i miei bermudazzi, la mia maglietta di Magnus, e te li dedicherò. Tiè.