di Romina Vinci
Mi sveglio presto qui ad Haiti. Perché il tempo è scandito dalla luce del sole, e così, già alle sei del mattino, la mia stanza è illuminata a festa. Raggi inebrianti si accaniscono sul mio letto (non ci sono né persiane né tapparelle), riaccendendo in me la percezione di caldo asfissiante e di arsura che la notte — apparentemente – cela nelle sue tenebre. Sono in piedi già da svariate ore, chiusa in camera nella mia postazione web tutta intenta ad inviare mail proponendo reportage vari ed eventuali quando, ad un certo punto, mi sento chiamare. Stacco gli occhi dal pc, guardo dinanzi a me, oltre la finestra, oltre il terrazzo, e vedo comparire Daphney, tutta pimpante, percorrere la strada perpendicolare alla Delmas principale e che termina proprio all’angolo della sede dell’AUMOHD. E’ venuta a prendermi, e mi ha portato una baguette e un succo di frutta. Quando mangiare diventa un lusso, e da queste parti lo è, non ci si formalizza affatto sui capisaldi di una corretta alimentazione. Ed allora altro che cornetto e cappuccino, anche un panino imbottito di cipolla, e di pomodori lavati con chissà quale acqua, diventa il pasto più buono del mondo alle dieci del mattino, e a stomaco vuoto.
E’ stata carina Daphney anche se, ripensandoci, ieri le avevo dato 50 dollari da cambiare, e non mi è tornato in tasca neanche un gourdes. Insomma, l’ha pagato con i miei soldi, ma il pensiero è sempre ben apprezzato. Si è fatta accompagnare dal parrucchiere, perché domani è il suo compleanno e vuole farsi la tinta rossa. Credo che abbia pagato ancora con i miei soldi, ed oltretutto non le sono bastati, e infatti mi ha richiesto altri cinque dollari americani.
Soldi a parte è un’altra la nota dolente che mi affligge: il mio piede destro. Credo che si sia insaccato, perché mi fa tanto male, fatico a poggiarlo a terra, e camminare è una tortura, un’autentica sofferenza, passo dopo passo. Non ho svelato a nessuno in Italia questo pasticcio che ho combinato, rischierei di farli preoccupare oltremodo. L’unico con cui mi sono sfogata è stato Fabrizio, il mio tutorial/cicerone a distanza i cui consigli, nel corso di questi giorni, si sarebbero rivelati più importanti di un kit di sopravvivenza. Fabrizio vive in Messico da dieci anni, anche lui si sloga spesso la caviglia e, a suo dire, non è grave, nel giro di due-tre giorni passerà tutto. Lo spero tanto.
COIFFEUSE
La parrucchiera si trova quasi all’ingresso della bidonville di Delmas, poco distante dalla sede AUMOHD, ci siamo arrivate a piedi, con mio sommo piacere. Il suo negozio è un piccolo cubo di cemento pieno di crepe, posto leggermente al di sotto del livello della strada. C’è un lavabo all’angolino sulla sinistra, a fianco due caschi arrugginiti per la permanente, e davanti uno specchio che in orizzontale occupa la maggior parte della parete, ma è stretto in altezza. A completare l’arredamento qualche mensola e tre sedie. Al lato destro invece c’è un box di legno con dei cuscini adibito a panchina, dove sono seduta io ora. La parrucchiera è una ragazza della nostra stessa età, ha i capelli raccolti con un mollettone di plastica rosso e dei grandi orecchini a cerchio traforati che le incorniciano il viso. Manca acqua corrente in tutto Delmas, ed anche la sua attività non smentisce la regola. C’è un bidone al fianco del lavabo, dal quale lei prende acqua con una bacinella, per fare lo shampoo. Nel momento in cui sto scrivendo c’è un ragazzo sull’uscio. T-shirt bianca, calzoncini grigi con cavallo calato, è a piedi nudi. Lo osservo con la coda dell’occhio e vedo che anche lui mi sta guardando, chissà cosa pensa, forse si chiede come io possa esser finita lì dentro. Mi porgo la stessa domanda.
L’ATTO DEL BERE
Ad un certo punto la parrucchiera si allontana dal negozio, per rientrare poco dopo con due bustine d’acqua, una per me, l’altra per lei. Finalmente, al terzo giorno, sono riuscita a prendere in mano quest’acqua “impacchettata” che è tanto in voga qui. Ma è sorto immediatamente il problema, come si usa? Daphney era sotto il casco della permanente e parlava al cellulare con il suo fidanzato, non badava affatto a me. Così ho cercato la complicità della parrucchiera, la quale, appena capito il mio problema, è scoppiata in una bella risata. Mi ha mimato il gesto di rompere l’angolino della busta con i denti, per creare un foro. L’ho fatto, ed ho iniziato a “ciucciare” l’acqua. In teoria è sigillata, quindi no problem, è sicura ed è potabile da questo punto di vista. Ma come la mettiamo con il contatto della bocca con l’esterno della bustina? Meglio non pensare al numero di mani che l’avranno toccata prima di arrivare a me… insomma, per l’ennesima volta l’igiene è andata a farsi friggere.
Seduta dalla mia postazione osservo l’andirivieni di persone fuori in strada, voglio provare a carpire come si sviluppi la vita da queste parti e così, per un po’, mi allontano dal negozio per fare delle foto. Daphney continua la sua conversazione telefonica, così io mi rivolgo alla parrucchiera mimandole l’atto di camminare, le indico la macchinetta che avevo al collo ed esco senza aspettare un suo gesto. E’ la prima volta che vado in giro completamente sola. Al termine di un cunicolo stretto stretto trovo una signora intenta ad allattare la sua bimba, cerca di avvicinarmi chiedendomi qualcosa. Io all’inizio mi impegno con quei pochi mezzi di francese che ho a disposizione per venire a capo della conversazione, ma capisco subito che non è per niente difficile, perché non esistono barriere linguistiche quando si conosce soltanto il linguaggio dei soldi e così, tempo cinque minuti, la saluto dicendole che non ho nulla. Una cosa è certa: ad Haiti, da sola, non vado da nessuna parte purtroppo. Parlando una lingua diversa, e senza l’apporto di un interprete, non sarei mai riuscita ad abbattere il muro di distanza che si innalza tra me bianca (e “ricca”) e loro neri (e “poveri”) .
Maturando questa amara constatazione torno al punto di partenza. Mi fermo un po’ sulla porta a scrutare ciò che mi circonda quando arriva un ragazzo che – magicamente – parla abbastanza bene inglese. Così iniziamo a conversare. Ha due figli piccoli e sta aspettando che escano da scuola. Non ho ben capito però quale sia il suo lavoro, perché va subito al sodo: mi chiede se ho abbastanza soldi per pagargli il biglietto aereo, sarebbe venuto in Italia con me, lasciando qui figli e moglie… cosa non si fa per amore!
E’ l’una passata quando la parrucchiera termina anche la messa in piega, e così facciamo rientro alla sede di AUMOHD. Per strada Daphney cammina tutta impettita, credo che si senta ammirata da tutti per il suo nuovo look. Io invece, da parte mia, continuo a contare i passi, visto che il dolore al piede non accenna a diminuire.
LA DIVINA PROVVIDENZA
Camminare per Port au Prince, e non solo per la bidonville, significa camminare tra le macerie, tra palazzi crollati e altri che stanno crollando. Sono questi ultimi a destare in me forte preoccupazione. Perché quando cammini, e hai la sfortuna di incrociare una macchina o una moto, hai meno di un secondo per scegliere: rimanere nella tua posizione e farti investire da loro, visto che non sono intenzionati a deviare il loro cammino, e quindi morire di una morte certa. Oppure spostarti, proprio sotto quei palazzi diroccati e fatiscenti, confidando che il buon Dio che non faccia arrivare una nuova scossa in quel momento. E quindi avere almeno l’incertezza della morte. Io prediligo questa seconda strada, anche perché non credo di aver tanta scelta!
Rimaniamo un’oretta in camera ed io approfitto di uno sgabello per tenere il piede all’insù: la caviglia sta assumendo una colorazione violacea che non mi rassicura affatto. Poi usciamo di nuovo, direzione market (non posso continuare a fare lo sciopero della fame e della sete, oltre all’apparente esilio volontario). A piedi raggiungiamo la rue Delmas e prendiamo il fantastico TapTap. I TapTap sono dei graziosi furgoncini, scassati e colorati, adibiti a trasporto pubblico. Li fermi, ti fanno salire, e quando sei arrivato a destinazione basta bussare energicamente con le nocche delle mani sulla lamiera che li riveste per prenotare la fermata, facendo appunto “Tap Tap”. Salire su questi camioncini però è un’impresa, lo sanno bene le corna che non ho, ma che ho sbattuto costantemente sui ferri di metallo quando sono salita, quando sono scesa, quando sono risalita, e quando sono riscesa. Insomma, è vero che sono un po’ tarda a capire, ma qui non c’è una cosa, e dico una, dotata di un minimo confort.
DAPHNEY
Stare con Daphney è strano, perché non riusciamo a parlare , eppure sta sempre con me. Il punto però è che con i soldi se ne sta approfittando, e forse anche troppo. E’ vero infatti che ieri mi ha portato a pranzo a casa sua, però è anche vero che io le ho fatto cambiare 50 dollari, e non li ho visti. Idem per i 50 dollari che le ho tirato fuori il primo giorno. Superfluo precisare che al club ha pagato lei per tutti, con i miei soldi ovviamente. Prima, mentre parlavo su Skype con i miei, lei aveva aperto l’armadio dove ho poggiato la valigia e lo zaino, non voglio dire che avesse intenzione di frugare, anche perché l’ho fermata in tempo, rimproverandola. Poi siamo andati a cambiare di nuovo il denaro, prima di fare la spesa, e questa volta le ho fatto credere di avere solo banconote da un dollaro, e a quanto pare sono bastate, persino avanzate, per le mie compere. Cosa significa? Che devo darmi una regolata, anche perché se continuo così questi mi spennano, e sono solo tre giorni che sono qui.
THE STORM
Facciamo appena in tempo a rientrare a casa che si scatena una violenta tempesta, ed il cielo così offuscato amplifica l’idea di degrado che percepisco in ogni dove e in ogni quando. Verso le 17.30 decidiamo di spostarci a casa di Daphney, e per farlo lei chiama il nostro driver “di fiducia”, quello che con la sua moto ormai ci scarrozza dappertutto, e che si sta arricchendo alle nostre – pardon mie – spalle. Questo giochetto infatti è abbastanza remunerativo per il fortunato centauro: 20 dollari haitiani a tratta.
Piove a dirotto, e ad ogni curva temevo di finire a terra, di piombare sul fango mettendo ko anche l’altra gamba. Invece fila tutto liscio. Sta già calando la sera quando arriviamo a destinazione. Le sorelle di Daphney ci accolgono senza troppa enfasi, sono sedute sul letto a vedere la televisione, e ci aggiungiamo anche noi. Credo che anche la tv sia un bene di consumo non accessibile a tutti, l’ho intuito dal fatto che più di qualcuno è entrato e, per un po’, si è inserito all’interno di questo quadretto familiare così estraniante dal mio punto di vista. C’è un momento addirittura in cui siamo in nove seduti su quel lettone, tra bambini, mamme e non meglio dichiarate terze presenze.
CHUCK NORRIS
La piccola televisioncina è l’unica fonte di luce nella stanza (visto che non esistono lampadine) e trasmette le avventure di Chuck Norris, in francese. Non posso fare a meno di pensare alla vita che queste persone conducono e mi trovo a giudicare il loro non fare niente, biasimando quell’apatia che li contraddistingue, quel fermarsi ed osservare il tempo che scorre, senza intervenire, senza dire la propria, senza alcuna volontà di riscatto. Come fanno ragazze di venti-venticinque anni, a non aver una occupazione? A passare la maggior parte del proprio tempo chiuse in una stanzetta di quattro metri quadrati, senza luce, alternando il dormire alla tv? I bambini non smettono neanche per un secondo di girarmi intorno chiedendomi soldi, io scuoto la testa decisa, a volte anche infastidita, eppure le mamme non fanno nulla per richiamarli anzi, è come se ne avvalorino le richieste. Non è con l’elemosina che si va avanti, e non sarebbero stati i miei due tre dollari a cambiare le loro vite.
Tutto il contesto che si è venuto a creare mi fa sentire abbastanza a disagio, anche perché non riesco a capire nulla dei loro discorsi. Dopo un po’ arriva Jhonny, e finalmente mi tranquillizzo un po’, quanto meno ho un interlocutore con cui scambiare due parole. Jhonny mi racconta alcuni aneddoti del suo lavoro nel fastfood, di come a volte faccia turni anche di dodici ore per una paga misera che sovente tarda ad arrivare. Parliamo di Michel Martelly, il nuovo presidente chiamato a sollevare le sorti di Haiti ma su cui lui, a differenza di molti suoi amici, non nutre tante speranze. E poi fa leva sulla sua fede, una fede pura, basata sulla lettura delle Sacre Scritture, di quella Holy Bible che in molti nel mio paese — io per prima — non hanno mai letto in versione integrale. Nel frattempo intorno a noi si è creato molto movimento, la stanza è un andirivieni di persone, e io non riesco a capire il fine ultimo di quel girovagare.
BLACK OUT
Tutto d’un tratto sento un forte tuono, la tv si spegne di colpo e così anche la poca luce che emanava si dissolve. L’oscurità ci sommerge. Il buio del buio fa paura. Razionalmente la situazione è terrificante, io tengo le mani ben salde sulla borsa, con la destra cerco di aprire la cerniera per prendere la mia torcia tascabile, la sinistra invece la muovo in su e in giù, quasi a fare da scudo ai movimenti dell’altra. Jhonny continua a dirmi di stare tranquilla, e che per loro è normale non vedere niente a un palmo di distanza. Io provo a mascherare la mia inquietudine, ma temo di non esserci riuscita.
Lui mi chiede il numero di Evel, lo chiama spiegandogli la situazione e gli chiede se può venirmi a prendere. In meno di dieci minuti Evel arriva, Jhonny mi prende la mano e mi guida nel buio, attraversando la stanza per trovare l’uscita e raggiungere la strada. Nelle tenebre i fari accesi del pick up di Evel sembrano gli occhi di un gatto nero che ti folgora al suo passaggio. Saluto Jhonny in tutta fretta, senza neanche ringraziarlo. Per salire nell’auto tento di usare la gamba sinistra, con tutte e due le mani afferro la maniglia posta sopra lo sportello per darmi la spinta con le braccia e far forza fino ad arrivare all’alto sedile, ma qualcosa va storto perché sento un dolore acuto provenire dalla gamba malconcia. Oltretutto capisco di aver messo il piede dolorante dentro una pozzanghera che deve essere profonda perché subito sento il calzino bagnato.
IL POLLO MANCATO
Oggi la giornata ha preso una piega diversa dalle precedenti. Questa mattina ho chiesto a Evel di intervistarlo. Volevo anche vedere questo fantomatico “quartiere dei ricchi” di cui più di qualcuno mi ha parlato. Lui mi ha dato la sua piena disponibilità, l’intervista a mezzogiorno, e poi mi avrebbe portato in giro. Subito chiamo Daphney, le faccio gli auguri (oggi è il suo compleanno), e le dico che ci saremo viste direttamente nel pomeriggio, perché la mattina avevo da lavorare con Evel. Forse lei non capisce, o fa finta di farlo, fatto sta che dopo un po’ si presenta nella mia stanza, dicendo che dovevamo andare al supermercato a comprarle il regalo. La sera prima, mentre eravamo sedute tutte sul letto di casa sua e la tv trasmetteva Chuck Norris, ha iniziato a dire che si aspettava da me un bel regalo, e che voleva un chicken, il pollo.
A me è sembrato un po’ strano lì per lì, l’ho chiesto anche a Jhonny cosa significasse, perché se si trattava di comprare un qualcosa da condividere con il resto della famiglia beh…mai regalo sarebbe più indovinato. Jhonny però tergiversava sulla cosa, e si limitava soltanto a dirmi che il “chicken” è molto grande. Che volesse fare una festa per sfamare tutto il quartiere a spese mie? Tuttora continuo a non avere idea. Perché camminando per strada mi è capitato in più di qualche occasione di vedere persone che portavano per le zampe galline a testa all’ingiù, ma non credo che un bipede di quella dimensione possa costare un occhio della testa!
Daphney invece sostiene che ci vogliano almeno 50 dollari per comprare il suo regalo. Mi fa vedere la lunghezza con le mani, altro che gallina, sembra una porchetta intera. Le faccio presente che ne ho soltanto 20 di dollari e devono bastarmi fino a domenica. Lei allora ridimensiona la dose, mi dice di dargliene 10 e sarebbe andata a fare la spesa da sola, ma io a quel punto mi rifiuto. Non mi piace questa gara al ribasso, le avrei comprato qualcosa da sola, magari facendomi consigliare da Evel. Se ne va via a testa bassa, triste, c’è rimasta molto male. Forse sono stata crudele, però non mi fanno impietosire queste persone, perché non si vive nella perenne elemosina. Non c’è futuro.
ALLA SCOPERTA DI PORT AU PRINCE
Evel è schierato in prima fila per combattere questa forma mentis acerba che chiude la sua gente nel vicolo cieco della sussistenza. E’ molto in gamba lui, ho capito però che ha una concezione del tempo tutta sua. Il nostro appuntamento infatti si è posticipato alle 15. L’intervista è durata tre quarti d’ora abbondanti, 45 minuti in cui ho fatto domande e ricevuto risposte esclusivamente in inglese: bene bene. Dopo mi ha chiesto se volevo andare con lui e Gaelle, la sua segretaria, al quartiere di Petionville. “E’ un giro breve”, mi assicura. Talmente breve che è durato cinque ore.
Abbiamo girato Port au Prince il lungo e il largo. Dove non è passato il terremoto è rimasta un’estrema povertà sub-esistente. Tante troppe baracche, tante troppe macerie, tanto troppo degrado. Mi portano in downtown (il centro della città che se non altro può vantare di avere la maggior parte delle strade asfaltate), a vedere quel che un tempo era il palazzo presidenziale, progettato su modello dell’Eliseo, e che è crollato su se stesso il pomeriggio del 12 gennaio 2010. Poi l’asfalto torna a lasciare il passo al terriccio, alle buche, ai sassi. Facciamo una breve sosta in AUMOHD, poi di nuovo in strada, per accompagnare a casa due vecchietti. Condotti a destinazione prima l’uno e poi l’altro, ci fermiamo dinanzi ad una banca e sale una ragazza. Ho capito soltanto successivamente che si tratta di un’impiegata sprovvista di macchina e ogni giorno chiede a qualcuno di accompagnarla a casa.
Abita nella municipalità di Peguyville, non il quartiere ricco a cui io faccio riferimento, ma in ogni caso benestante, già solo perché ci sono le case. Il problema è che, essendo un posto “agiato”, tutti hanno le macchine e quindi ci abbiamo messo quasi due ore, intrappolati nel traffico, per fare pochi chilometri. Ripeto e ribadisco che attraversare questi posti di notte è assurdo, la gente si riversa per strada, le strade pullulano di persone che non si vedono, perché nero su nero si mimetizza, gli incidenti si sfiorano ad ogni passo d’uomo, perché quando attraversano la strada i pedoni si vedono — e si cercano di evitare – soltanto all’ultimo momento.
UN: UNIT NULLE
Se c’è una cosa che mi ha lasciato riflettere più di tutti però è il forte risentimento che Evel nutre per la MINUSTAH, la missione dei caschi blu dell’Onu iniziata nel 2004 e che tanto ha fatto parlare di sé per violazioni e abusi sulla popolazione locale, ritenuta persino responsabile del propagarsi dell’epidemia di colera che ha devastato Haiti nell’ottobre 2010. Già nel corso dell’intervista Evel non aveva celato le sue titubanze ed anche lo sdegno nei confronti dei soldati. Poi per strada ci siamo imbattuti in un mezzo del Brasile, ed è stata la fine. Perché la camionetta pretendeva che gli si facesse spazio per raggiungere l’altra carreggiata della strada. Evel ha iniziato ad inveire e a scalpitare urlando: “Che cosa volete? Che cosa fate? Qual è il vostro scopo?”. Io comprendevo la sua ira, quel che lui non capiva però è che non ha senso prendersela con quei cinque ragazzi, non erano certo loro ad aver scelto di venire qui.
Per un attimo però ho avuto paura, perché quei militari erano armati con arma lunga, la lotta era impari, ma non si sa mai. Anche l’impiegata di banca seduta al sedile posteriore confermava le parole di Evel, dicendo che i caschi blu vengono ad Haiti soltanto per prendere soldi e andare in giro con macchine lussuose, ma che in concreto non fanno nulla per aiutare la popolazione. UN significa Unit Nulle mi ha detto Evel, sostenendo che gli haitiani li hanno soprannominati così. Insomma, una missione di pace che genera solo scontento: cambiano i posti, cambiano gli scenari e cambiano gli angoli disperati del mondo, ma il claim resta sempre lo stesso. They do nothing.
ALLARME FUNESTO
Si sono fatte le 21 intanto quando stiamo per tornare alla sede dell’AUMOHD, Evel mi chiede se voglio andare a casa di Daphney, ma dico di no. E’ tardi, avrei costretto anche lui ad aspettarmi, e poi per far cosa? Ho provato a chiamarla più volte nel pomeriggio, ma non mi ha risposto.
Così Evel mi riaccompagna a casa, mi saluta, ci diamo appuntamento all’indomani e poi va via. Alle 22.30 succede quel che non mi aspetto. La connessione internet si interrompe, ed inizia a suonare un allarme. Un misto tra incredulità, tensione e terrore mi assale. E se fosse entrato qualcuno? Se qualcuno stia frugando giù nello studio di Evel? Cosa faccio io? Sale in me la paura, il cellulare è scarico non posso chiedere aiuto. Per non saper né leggere né scrivere mi chiudo a chiave in camera. La finestra è aperta, ma le grate di ferro sono chiuse, dovrei essere protetta. Ma cosa faccio? In teoria se si tratta di un allarme Evel dovrebbe essere avvisato via cellulare, altrimenti che allarme è, suona e basta? Certo che i connotati per un film dell’orrore ci sono tutti: io sola, in un posto dimenticato da Dio, senza punti di riferimento, senza telefono e senza via d’uscita. La ragione mi invita ad allontanare tutti questi pensieri apocalittici: potrebbe semplicemente essere saltata la corrente. Ma in questi casi cosa si fa? Dovrei prendere la torcia, scendere giù e raggiungere l’impianto della corrente posizionato sotto le scale, cercare l’interruttore e vedere se è tutto apposto o meno. Troppo difficile. Anche perché Evel mi aveva detto che questo posto è sicuro, e che di notte c’è la vigilanza. Ora mi chiedo: dove sono i vigilantes? No, ho deciso, rimango chiusa in camera, non esco neanche per andare in bagno. Cercherò di addormentarmi con questo rumore, non fa niente, in fondo basta farci l’orecchio.