di Dziga Cacace
E lasciami gridare, lasciami sfogare…
Adriano Pappalardo, Ricominciamo
370 — Black Hawk Down, aridaje, del fascistizzato Ridley Scott, USA 2002 e… Barcelona!
Come a esorcizzare le bombe vere che scoppiettano a Baghdad come ciocchi nel camino, ci vediamo un film di guerra, perso l’anno scorso nonostante le buone recensioni. Nella Somalia di dieci anni fa, in preda alle guerre tribali, gli USA intervengono per garantire il rifornimento di cibo e medicinali gentilmente concessi dalla comunità internazionale. Ma siccome c’è un cattivone di turno cui dare una lezione (il feroce Aidid), la missione di pace diventa una disinteressata missione di guerra. Uno stormo di elicotteri vola su Mogadiscio per catturare un signorotto locale, ma i somali sono birichini e tirano giù un Black Hawk. Oh, disdoro: ‘sti selvaggi straccioni hanno fatto questo a noi? Ovviamente non si lascia nessuno sul campo (salme e feriti nonché soldati persi nell’intrico di stradine della città) e i rangers ingaggiano una tremenda lotta per portare il culo a casa. Alla fine della giornata ci saranno 19 perdite tra gli americani contro le 1000 dei somali che, essendo dei morti di fame sconfitti dalla storia, sono ovviamente cattivi, isterici e violenti, nessuno se ne incula la memoria e se lo saranno pure meritato, tiè. Narrativamente il film fila come uno Stuka in picchiata: ritmo incalzante, poca psicologia, molta azione. La messa in scena è superba, con begli effetti e la fotografia che ha ‘sta cosa dell’otturatore che dà un effetto da videogioco; poi attori funzionali e montaggio notevole del premio Oscar Pietro Scalia. Quello che invece repelle è il messaggio monodirezionale su chi debba dirigere i destini del mondo, perché è buono, bianco e sa sempre cos’è giusto fare. Il nemico è talmente “nemico” che non viene quasi mostrato, non vediamo il suo volto né sappiamo le sue motivazioni, giuste o sbagliate che siano. I somali di Aidid non hanno nulla da perdere, sono sanguinari e sono neri neri (che poi, i somali, tanto neri non sono, ma vabbeh). Comunque incarnano per l’Occidente il perfetto babau di infantile memoria. Film così non raccontano la guerra, la producono, la instillano nella mente debole della gente, abituano a pensare che sia necessaria. E magari giusta.
Insomma: Black Hawk Dawn è uno schifoso film divertente. Ridley Scott — grande metteur en scene, non ci piove — è molto attento a questioni plastiche e formali, però molto distratto o indifferente sui messaggi che i suoi film portano al pubblico. Giusto per completare lo sfogo gastro-politico-cinematografico: Tareq Aziz, il vecchio amico di Formigoni (perché petroleum non olet), dichiara che la guerra, per l’Iraq, sta andando benissimo. A naso questi non durano un’altra settimana. Durante la quale mi prendo una vacanzina: una pausa lavorativa concede 3 giorni di svago e allora un venerdì ci fiondiamo a Barcellona, la città più in del momento, per un week end di architettura, sesso e chorizo. In Catalogna ci si vola in un attimo e quando siamo lì vanifichiamo il viaggio celerrimo perché Barbara ha i complessi e non vuole prendere un taxi. Sono uomo di mondo aduso alla fatica e allora raggiungiamo il nostro albergo di stralusso su un plebeo autobus, camallandoci il trolley come degli animali da soma per due chilometri di Passeig de Gràcia. Arriviamo dopo un’eternità, stravolti, ma l’elegantissimo albergo art déco Condès è tra i due capolavori di Antoni Gaudì Casa Battló e Casa Milà, la Pedrera, e questo fa bene agli occhi e allo spirito. Comunque bisogna avere il cervello fritto dagli acidi per progettare delle cose così. Mangiamo da tale Taxidermista nella centralissima e turistica Plaça Reial, senza considerare che il nome e la locazione dovrebbero far venire sospetti. Infatti sembra di mangiare animali impagliati. Il Barrio Gotico è bello, vissuto, zeppo di stranieri e punkabbestia. E nessuno vuole la guerra, ovvio. Chiaramente, però, questo benedetto Barrio osannato ovunque non vale (architettonicamente, per non parlare dell’estensione) un decimo del centro storico di Genova, ma dirlo fa sfigato, mentre dire che Barcellona è unica fa fichissimo. La vera differenza è che Barcellona è viva e Genova non sta troppo bene. Del resto questa è la città della Breve estate dell’anarchia, di Gaudì, di Mirò, del Barcellona e di Vásquez Montalbán, e affermare queste ovvietà fa molto “ho visto il mondo”. Ma voglio ricordare ai miei affezionati lettori che Genova ha tirato fuori i jeans, la Vespa, il pesto, la focaccia, il Genoa, De André, Paoli, Piano, Lauzi, Villaggio, Fossati, Tenco, Grillo, i Garybaldi, i New Trolls, i Delirium, i Matia Bazar, i Ricchi e poveri e pure Baccini e il Cacace. Olé! Vabbeh, dài, facciamo i cosmopoliti: la cittadina catalana si fa passeggiare, lo ammetto. Sabato entriamo nella Pedrera e ci sentiamo in un film di Michelangelo Antonioni; indi ci facciamo venire il torcicollo alla Sagrada Família: se le cose di Gaudì le avesse fatte un americano, tutti avrebbero detto che era un coglione infantile, invece i catalani hanno licenza per folleggiare e scatenare ammirazione, tipo “quel matto di Pablo” che ballava il flamenco a piedi nudi e poi bisognava pulire col Pronto. Vabbeh. Oh: parliamo di campanili con grappoli di frutta appiccicati, manco fossero la capoccia di Carmen Miranda, eh? Del resto questo è finito sotto un tram perché stava con la testa fra le nuvole… Poi torniamo nel centro storico, visitando anche Santa Maria, la Cattedrale, Sant Pau e infine Palau Güell, coi piedi doloranti. La città è piacevolmente sporca; c’è una marea di punk-chic e di giovani bene che mimano la bohème, ma è una città movimentata, attiva, colorata, ricca, dove si vede partecipazione. E ad ogni modo è architettonicamente e borghesemente ordinata, benestante senza essere cafona, con una sua nobiltà. Dovevano essere anarchici ben eleganti! Città bella, non bellissima, però, brava a vendersi e orgogliosa: vive di contraddizioni architettoniche ben risolte. A pranzo due insipide tapas da tale QuQu che ce lo mette anch’egli nel qu; in serata invece al La Fonda, appena usciti dalla Rambla, e qui invece si gode. Domenica tocca a Casa Battlò e poi ci facciamo altri giri fino al Parco Güell (un’altra follia, ma follemente riuscita), passando anche dal bellissimo e abbacinante Museo di Arte Contemporanea di Richard Meier, nel Raval tanto sinistro quanto esuberante. In serata si cena vicino a Barceloneta, al Siete Puertas, discreto: il commissario Carvalho ci aveva illuso dal punto di vista culinario e probabilmente non abbiamo saputo scegliere bene (o le nostre guide facevano cagare, fate voi). Prima di partire realizzo che non ho cercato il mio amico Juan Franquito, un adorabile peruviano mezzo genovese con cui ho studiato architettura e che oggi vive qui. In compenso nel Barrio ho incrociato un altro vecchio compagno di studi di cui non conoscevo né mai più saprò il nome, ma di cui ricorderò sempre lo sguardo. E dopo la poesia, la dura prosa della realtà: si torna a Milano a respirare fetenzie. (Dvd, 1/4/03)
371 — Non ancora Fame Chimica di Antonio Bocola e Paolo Vari, Italia/Svizzera 2003 e altri delitti
Dunque, vorrei farla breve, ma la storia è questa: a inizio 1998 Paolo Vari, fratello di Barbara, mi ha coinvolto nella scrittura di un soggettone per un film metropolitano, erede di un mediometraggio già chiamato Fame chimica che aveva avuto una certa risonanza. Da farsi a breve, si pensava, il film. E ogni tre mesi c’era una scadenza improrogabile: qualche premio, un bando di concorso, un finanziamento, e ogni scadenza era sempre l’ultimissima, costringendoci a fare le nottate, come per gli esami di Architettura, che eri figo solo con la notte in bianco e le occhiaie in nero come un pachistano. Abbiamo finito nell’estate dell’anno dopo e siamo partiti in vacanza con una sceneggiatura rilegata da 300 pagine che sembrava Novecento: masse oceaniche, la transumanza, le gare con le bighe, costumi tipo Casanova di Fellini e pure l’attraversamento del Mar Rosso. Il progetto era francamente un tantinello sovradimensionato e alla consegna – che anche stavolta era assolutamente definitiva – ne sono seguite altre, perché le sceneggiature non finiscono mai. Nel frattempo avevo cominciato a fare il giullare in tivù e ho perso contatto con gli sceneggiatori, ma soprattutto con Paolo e col Maestro Franz Scarpelli che della scrittura vera e propria era il maggiore responsabile. Sono subentrati altri scrittori, alcune scene sono scomparse, altre hanno legato meglio. Però, vedendo questa copia lavoro che mette in fila, senza montaggio, tutte le scene del film (perché alla fine Fame Chimica è stato girato, questo inverno), scopro che molte mie scempiaggini (scene e dialoghi che avevo scritto) non sono granché cambiate. Oggi vedo finalmente in scena quello che tante volte avevo immaginato. E quando le immagini confermano le mie aspettative, mi piace. Quando questo non accade, un po’ meno. Perché sono stupido, ovvio, però ciò significa che non posso essere obiettivo. Ma Paolo m’ha chiesto di dargli un parere: glielo darò a quattr’occhi perché non vedo cosa possa fregarvene. Per cui non mi rimane che parlarvi di due cose tremende: il David di Donatello e la guerra. Ieri sera s’è consumata la tragicomica diretta tivù per la consegna dei David su RaiDue, coi nostri Oscar consegnati in uno spettacolo al di là del bene e del male, degno di una rete televisiva abusiva degli anni Settanta. Scenografia povera e orrenda e luci sbagliate al punto che quando Lorella Cuccarini (che presentava) si metteva di profilo, le veniva metà faccia nera, come se l’avessero menata. E tra l’altro il copione autorizzava questa ipotesi, con — in sovrapprezzo — l’altro presentatore Massimo Ghini simpatico come un cedro del Libano in culo. In questa parata di letame sono apparsi Luca e Paolo che, davanti alla platea che potrebbe dargli il giusto riconoscimento d’attori, si sono prodotti in tre minuti da imbarazzo folle. Invettive da Iene fuori contesto, davanti a una platea gelida. Orrore. La regia era curata da Stefano Vicario che si dev’essere trovato a lavorare con una torma di lavativi perché tecnicamente lo spettacolo è stato sconcertante: detto di scenografie e luci, sono indimenticabili anche le varie maestranze che impallavano le telecamere, i microfoni lasciati aperti nei momenti meno opportuni (come durante l’esibizione di Piovani), le musiche di sottofondo scelte col culo e diffuse a volumi insostenibili, i cameraman a briglia sciolta ma mai a tempo. Tutto per dare la possibilità al mondo del cinema italiano di pavoneggiarsi a spese del pubblico. Vabbeh: ha vinto molto La finestra di fronte, perché siamo democratici e assolutamente gay friendly, scornato invece Muccino, perché ha già rotto le palle, intesi? Ma che valore avranno, poi, ‘sti premi – a parte compiacere l’ego dei premiati – nessuno lo sa. Avete mai sentito dire uno: vado a vedere il tale film, che ha vinto un David? Io no! Ho gustato questa coppa di tosco fino alla fine (3 ore secche), mentre Barbara agonizzava sul divano. E nel frattempo la guerra sembra finita, o forse no. Fatto sta che il regime di Saddam s’è dissolto e la pace regna a Baghdad. Per le strade qualche centinaio di iracheni dà ridicolo spettacolo di sé prendendo a ciabattate le statue abbattute del Rais. Comodo, adesso, eh? Ci stanno raccontando che son tutti contenti, ma a vedere le immagini affiora qualche dubbio: per la promozione in serie C di una qualunque squadra di calcio italiana c’è molto più casino ed entusiasmo (non so se il paragone regga, ma voi andate avanti senza farvi troppe domande). Comunque bisogna dare una giustificazione ai 3000 morti sin qui accumulati, mentre di armi chimiche e di sterminio (sbaglio o questo era il motivo?) non si sa nulla. Magari dopo averle messe al posto giusto, le troveranno pure. Le clamorose teste di cazzo che infestano il paese cantano vittoria (di chi? Su cosa?) e si prendono l’illusoria rivincita contro chi la guerra non la voleva, come se fosse un derby calcistico e i pacifisti tenessero per Saddam. Il problema è che la guerra vera comincia adesso, non la dichiarerà nessuno e al prossimo 11 settembre — che ovviamente non sarà un 11 settembre — gli americani si guarderanno intorno smarriti, ancora una volta incapaci di capire cosa stia accadendo. (Vhs telecinema; 10/4/03)
372 — L’esiziale Adele H., una storia d’amore di François Truffaut, Francia 1975
Adele, secondogenita di Victor Hugo, era — tanto per chiarirci subito — una piaga logorroica, rompicoglioni, grafomane e pazza. E questo lo mettiamo da parte. Dunque: fingendosi un’altra, insegue in capo al mondo il suo amato, un militare inglese, tale Pinson: per lui un’autentica iattura, per lo spettatore anche. La storia di questo folle amore procede a strattoni e si conclude con degli scarni cenni biografici: Adele finirà in sanatorio. E chi l’avrebbe mai detto, eh? Un film strano, narrato con discontinuità, più attento ai particolari psicologici che all’impianto generale, ad ogni modo lontanissimo da come si costruirebbe oggi una vicenda simile. E lì sta la sua originalità e preziosità: per dire, ci sono le tipiche accelerazioni di Truffaut che all’improvviso fa parlare una voce narrante e ti fa saltare due mesi di narrazione. La confezione è povera ma elegante, con la cinepresa concentrata sul volto perlaceo della Adjani (che sarà pure bella, ma è erotica come una Barbie di ceramica in costume vittoriano). Fotografia verdastra di Néstor Almendros, montaggio spezzato di una marea di gente. Allora: com’è ovvio, a prima vista questo Truffaut non m’ha fatto impazzire. Anzi, no: mi ha proprio scassato i coglioni. Forse non ho più l’età (in realtà non ho mai amato questo cinema francese anni Settanta, molto di sentimento, poco di goduria visiva), ma so anche che si tratta di un film che non mi cercava, che non mi voleva come spettatore, perché ha nuances che… no, dai: è una grossissima menata e basta, perché a una sciagurata frignona come questa Adele qui, non puoi voler bene o comprenderla neanche dieci secondi, eh. Mi dispiace, ma non ho comprato tutti i film di Truffaut con l’Unità per cui non mi sento obbligato a scrivere che ogni cosa che ha fatto sia un capolavoro, ecco. Invece, in questi giorni ho beccato Intrigo internazionale su Retequattro e ho rivisto la clamorosa scena in cui viene spiegato a Cary Grant l’inghippo spionistico che lo coinvolge, con l’audio coperto dal rumore dei motori di un aeroplano. Geniale. Se non altro, su Hitchcock Truffaut aveva ragione. (Vhs da Tele+; 16/4/03)
373 — Shaolin Soccer di un rimbambito, Hong Kong/USA 2002
Guidati da un allenatore in cerca di rivincita, nasce un’incredibile squadra che fonde calcio e tecniche shaolin e trasforma i peggio disperati in un team imprevedibile e vincente. Il Real Shaolin vincerà una Coppa di Cina schiantando gli avversari dopati. Forza della fede. Di questa insostenibile e tremenda puttanata commessa da tale Stephen Chow ci aveva colpito un trailer visto l’anno scorso a San Francisco. Finalmente il film arriva anche da noi, accolto da recensioni entusiastiche (vedi Film TV… questi son pazzi). Ma c’è il solito “ma”. Hanno tagliuzzato il film e lo hanno doppiato mettendoci parlate regionali italiane (?), affidandole a calciatori (che cosa me ne frega se Pancaro, Mihajlovic e Peruzzi ci mettono la voce? Mah!) e ad attori che si sentono istrioni quando storpiano un dialetto (la Premiata Ditta, gente che sta alla comicità tanto quanto Hitler sta alla tenerezza). Ora: per conto mio, il film farebbe cagare uguale, ma cagare a spruzzo e con dolori ventrali tipo parto. Però per Barbara, invece, il doppiaggio oltraggioso ha sicuramente inficiato la visione: sarà. Va detto che l’umorismo cinese è a un livello che più infantile non si può, tutto al grado zero, tutto prevedibile in maniera umiliante. Per esempio a un certo punto c’è la classica gag della buccia di banana (o qualcosa di simile, ho già rimosso): tu vedi un protagonista che cammina verso il pericolo e pensi: “Chissà cosa si inventano? Eh eh eh…”. E invece niente, il tizio ci mette il piede sopra e, pensate un po’… casca! Ma neanche le comiche degli anni Venti erano così basiche, dai. C’è qualche scena divertente quando gli effetti alla Matrix sono contestualizzati nel calcio (con effetti tipo Holly e Benji e parabole impossibili, palloni deformati etc.), ma anche qui non è che ci si sforzi molto. In più il film ha il passo della tartaruga sgozzata e dopo un quarto d’ora vorresti un telecomando con l’avanzamento veloce per dare una botta di vitalità a questa farsaccia troppo orientale e rilassata. Lo abbiamo visto coi genitori di Barbara in una multisala di Castelletto Ticino. Pubblico lombardo tipo convegno a Pontida, intonazioni gutturali e puzza diffusa di popcorn. Ma la proiezione era corretta e la platea silenziosa (perché attonita, immagino). Poi il giorno dopo ho rivisto un nuovo montaggio di Fame chimica assieme a Paolo, il regista quasi cognato. Sta migliorando (il film; lui è inguaribile, invece) ma forse devono girare alcune scene aggiuntive. A me piace di più, adesso. Non sono obiettivo, embeh? (Cinema Metropolis, Castelletto Ticino; 20/4/03)
374 — L’anemico I lunedì al sole di Fernando Leon De Aranoa, Spagna 2002
25 aprile moscio, per cui si va al cinema. Cercando l’impegno e questo ci capita: Vigo, città portuale spagnola in grande crisi. Sullo sfondo di lotte sindacali finite malissimo seguiamo le vicende di un gruppo di disoccupati rimasti umanamente schiantati dalla crisi. Non hanno più la forza di ricominciare. Si abbandonano e lasciano scorrere la vita, esili figurine amareggiate. I lunedì al sole è un film lungo, piagnucoloso, con parti non troppo risolte e qualche momento di sollievo, ma, se devo dire, non m’ha fatto piacere per niente. Tre mesi e l’avrò dimenticato. Il fatto è che avrei voglia di vedere film memorabili, che mi cambiano, che mi arricchiscono, che rimangono. A me di vedere un film che mi ricorda (in minore) Guediguian, non me ne frega una cippa. Da qualche parte ho letto: Loach, ma con humour. Massì, anche senza retorica, se volete, ma dov’è la carne, la polpa, il sangue? Il film ha riusciti momenti drammatici (il tizio che teme di essere lasciato dalla moglie) e altri comici (la rilettura della fiaba della formica e della cicala), ma è spesso verboso e sembra che non vada da nessuna parte, come i suoi personaggi prigionieri di un traghetto che non sanno governare. Io mi rendo perfettamente conto che sono inacidito come una vecchia zitella, ma mi fai un film operaista, che vuole contestare l’ignavia sindacale e l’indifferenza sociale? E fammelo incazzato, eh, se no è sempre la solita pappa dove le disgrazie sono spunto per un garbato umorismo borghese. E infatti siamo all’Anteo, tra tanti finti radical very chic che scuotono la testa davanti ai mali del mondo, comprano il Manifesto (che si legge veloce e in copertina c’è una bella foto che dice tante cose) e poi alla fine votano DS. Vabbeh, che faccio? Scrivo “vaffanculo” ogni cinque righe? E no, dai. Io non so nulla del regista in questione, ma I lunedì al sole è un film velleitario come certe scenate da salotto intellettuale. Boh. E l’osannato Javier Bardem ha un cranio da proscimmia e che qualcuno lo consideri un sex symbol è emblematico dello stato confusionale in cui versa l’Occidente tutto. Prima del film un corto infame che ha pure vinto il premio Kodak (che non so cosa sia; comunque non oso immaginare gli altri contendenti). Si tratta di Riduzione del personale di tale Stefano Ceccarelli, gag con spirito di patata che vede protagonista un travet in un enorme ufficio vuoto. Tutto il rumore di fondo (macchine da scrivere che ticchettano, commenti dei colleghi, rumori assortiti da ufficio) è registrato su nastro. Ammazza, che idea! Quanto ci avranno pensato, per questa barzelletta? Trenta secondi? E poi è uguale alla scena iniziale di Fantozzi subisce ancora. Una cagata senza senso, questo, e pure quel Fantozzi là, purtroppo. Intanto due giorni fa, assistendo la mia amica Simona fratturata e ingessata al piede, ho visto distrattamente Quattro matrimoni e un funerale, commediola tagliata per piacere a tutti (ma soprattutto al giuggiolone pubblico femminile che cede al fascino del puttaniere Hugh Grant). Se devo dar retta ai miei sani pregiudizi m’è sembrato una porcata: equivoci, farse, storie d’amore poco plausibili per una regia alimentare; e siccome non lo vedrò mai più per intero, mi fido del mio cattivo carattere e sentenzio che è una schifezza. Sono nervosetto, sai? (Cinema Anteo, Milano; 25/4/03)
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(Continua — 33)