di Valerio Evangelisti
Rex Stout, Fer-de-Lance, pref. di Goffredo Fofi, ed. Beat, 2011, pp. 290, € 9,00.
Confesso che io, scarsamente appassionato del romanzo poliziesco (con rare eccezioni: Conan Doyle, un po’ di Ellery Queen, qualche Edgar Wallace, e rari altri; tra gli italiani, Loriano Macchiavelli e alcuni dei suoi allievi), amo il Nero Wolfe di Rex Stout dall’età di dodici anni. Per il resto preferisco il genere “nero”, da Hammett, a Chase, a Manchette, e così via, senza distinzioni di nazionalità.
L’idillio con Nero Wolfe cominciò per l’appunto a dodici anni, quando lessi “La scatola rossa” (The Red Box, 1937) e, di seguito, “Nero Wolfe, difenditi” (The Mother Hunt, 1962). Molto meglio il primo che il secondo, ma entrambi in grado di farmi affezionare a un personaggio e al suo universo. Tanto che credo di avere letto successivamente ogni romanzo o racconto di Rex Stout con Wolfe protagonista, ricercando golosamente sulle bancarelle gli arretrati.
Non può che rallegrarmi l’idea di una riedizione completa e rivista, tentata dall’editore Beat. I romanzi di Stout sono stati massacrati, nel corso degli anni. Del primo con Nero Wolfe, “La traccia del serpente” (Fer-de-Lance, 1934), ho ben quattro edizioni, e ognuna ha un incipit diverso. In “Scacco al re per Nero Wolfe” (Gambit, 1962), la traduzione sul Giallo Mondadori n. 756 informa che l’investigatore berrebbe di preferenza birra Heineken. Affermazione che potrebbe stupire, se la pagina di fianco non recasse, appunto, la pubblicità della Heiniken.
Si spera che la riedizione ci salverà da questi orrori: dai tagli gratuiti alle pubblicità occulte.
Veniamo al personaggio, più importante di tutte le manipolazioni. Nero Wolfe è una rappresentazione completa, e scientificamente esatta, del carattere schizoide (ciò non significa schizofrenico, che è una patologia). Asociale, più misantropo che misogino, refrattario a ogni contatto, vive isolato ed esce di casa solo quando è indispensabile. Nutre tre sole passioni, la birra, la cucina e le orchidee, che coltiva in una serra in cui passa quattro ore al giorno (dalle 10 alle 12, dalle 16 alle 18). Il resto del tempo lo trascorre leggendo, oppure risolvendo casi di omicidio.
Per dipanare questi ultimi si serve di un team di investigatori, ma soprattutto del suo segretario Archie Goodwin. Spregiudicato, irriverente, portato all’azione, attratto da qualsiasi bella donna gli capiti a tiro. E’ l’estensione dinamica di Nero Wolfe, statico e riflessivo.
C’è chi ha visto in ciò una fusione tra poliziesco classico (alla Sherlock Holmes) e hard boiled in stile Hammett, di cui Goodwin sarebbe l’espressione. Nulla di più falso. La differenza tra Goodwin e Wolfe è che il primo si sposta, mentre il secondo resta fermo. Le occasioni per l’azione restano comunque rare, e il genere noir è lontanissimo. Parliamo di delitti in ambienti sempre patinati, talora raffinati, eppure denotati da una volgarità di fondo. Protagonisti ne sono milionari o miliardari, il più delle volte per questioni di tradimento coniugale. La vera dissimilitudine tra Goodwin e Wolfe risiede nello stile. Tanto Archie è scanzonato (ed è lui a narrare le storie), tanto il suo “pachidermico signore e padrone” pare uomo del XIX secolo. Li accomuna l’abilità deduttiva, embrionale in uno, spiccata nell’altro. Mickey Spillane appartiene a un mondo remoto e incompatibile. Lo stesso vale per Sam Spade, per Continental Op, per Philip Marlowe, per Lew Archer.
Il “proletariato”, se proprio lo vogliamo trovare, è rappresentato da certe figure marginali di inservienti, oppure da quei poliziotti che Wolfe detesta — con l’eccezione parziale del suo persecutore abituale, l’ispettore Cramer — e che altri comprimari coprono di disprezzo. Addirittura un bambino, in “Nero Wolfe e i ragni d’oro” (The Golden Spiders, 1953).
Nero Wolfe, pur agendo ai piani alti della società, non è affatto un apologeta del sistema. Si scontrerà più volte persino con l’FBI, istituzione americana per antonomasia, fino alla resa dei conti (in “Nero Wolfe contro l’FBI”, The Doorbell Rang, 1965). A un gruppo di ricconi dirà pure “Io sono un anarchico, e detesto i capitalisti” (“Morto che parla”, The Silent Speaker, 1946).
In realtà non è un anarchico, e nemmeno un sovversivo. Nella migliore e più fedele serie televisiva a lui dedicata (A Nero Wolfe Mistery, con Maury Chatkyn e Timothy Hutton, 2001-2002; mi dispiace per Tino Buazzelli e i telefilm italiani, ben recitati però in chiave comico-grottesca), lo si vede talora uscire di casa con un tricorno sul capo. Dettaglio che in Rex Stout non c’è, e che rimanda a un’epoca trascorsa e, forse, meno spietata.
Wolfe è un liberal di idee molto avanzate, ma, al tempo stesso, un convinto anticomunista. Lo si vede nel racconto “Nero Wolfe escogita uno stratagemma” (Home to Roost, 1952) in cui smaschera alcuni “rossi” implicati in un delitto. Oppure nel romanzo “Nero Wolfe fa la spia” (The Black Mountain, 1954), in cui la Jugoslavia di Tito è dipinta come la patria della disperazione e della miseria, paragonabile alla periferia dell’Unione Sovietica di Stalin.
Per questo atteggiamento bisogna risalire alla biografia di Rex Stout. Acceso progressista in gioventù, fu deluso dall’iniziale ostilità dei comunisti americani a partecipare alla Seconda Guerra Mondiale, in cui invece lo scrittore credeva; salvo divenire fautori del conflitto allorché crollò il patto Ribbentrop-Molotov. Fu allora che Stout pagò il suo tributo alla caccia al rosso. Seppe tuttavia moderare la sua indignazione. In “Nient’altro che la verità” (The Second Confession, 1949) Wolfe risolve un caso con l’ausilio del partito comunista americano — e il maccartismo era alle soglie. Per di più, Stout si trovò indagato dalla FBI quale sospetto comunista (!), per il ruolo avuto negli anni prebellici alla testa di una associazione di scrittori. Da quel momento la giurò a Edgar J. Hoover, e lo punì come poté. “Nero Wolfe contro l’FBI” fu uno strumento del castigo, ispirato com’era al saggio The FBI Nobody Knows (1964), di Fred J. Cook.
Mai comunista, Stout non fu reazionario, fascista e men che meno razzista. Già in “Alta cucina” (Too Many Cooks, 1938) Wolfe rivolge un discorso a un gruppo di cuochi neri, possibili testimoni di un caso di avvelenamento, dai toni paternalistici, ma per l’epoca molto avanzati. In seguito, nel romanzo “Il diritto di morire” (A Right to Die, 1964), il paternalismo viene corretto, e Wolfe si mostra solidale con una militante nera, abbastanza estremista, del movimento per i diritti civili.
Se è possibile individuare una ideologia in Nero Wolfe, è di natura antiautoritaria. Avversa il fascismo e lo stalinismo. Mette in scena i ricchi, ma li disprezza, scopre la loro indole delinquenziale. La polizia è la sua bestia nera, che deride in ogni modo; non parliamo dei servizi segreti. Gli unici momenti di vera pietà riguardano gli umili, gli emarginati. Si vedano “Troppi clienti” (Too Many Clients, 1960), il già citato “Nero Wolfe e i ragni d’oro”, ecc.
Privilegiato in una società del privilegio, Wolfe funge da detonatore, per farne esplodere le pulsioni inconfessate. Di romanzo in romanzo, affossa una corporation dopo l’altra. Industriali, pubblicitarie, editoriali. E’ strano che nessuno lo abbia mai notato.
L’approccio di Stout al poliziesco è anomalo. Da un lato pare prigioniero della serialità più rigorosa che si sia mai vista. Umberto Eco ha notato, in Apocalittici e integrati, il ripetersi degli stessi gesti. L’ispettore Cramer che entra ogni volta con un sigaro spento in bocca, per poi gettarlo verso il cestino senza cogliere il bersaglio. Wolfe prigioniero dei suoi ritmi (orchidee, pasti, birra) e dei suoi atti (quando medita sporge e ritrae le labbra a occhi chiusi), la soluzione finale affidata a un raduno di tutti i sospettati nella “vecchia casa di arenaria”, nella 35^ Strada Ovest di New York.
Saremmo agli antipodi della letteratura, se Stout, che in realtà è scrittore colto, abile e consumato, dagli esordi quasi joyciani (“Due rampe per l’abisso”, How Like A God, 1929), non conducesse un gioco voluto e meditato. Narra, con spirito e arguzia, travolgenti storie seriali sì, ma che ripetitive non sono mai. Volge sulla società lo stesso sguardo disilluso di Wolfe. Costruisce caratteri credibili, pezzo per pezzo, pur lasciando immutato il quadro. Di tanto in tanto mette in bocca al suo investigatore una parola inglese desueta. E’ una strizzata d’occhio di Stout al lettore, come se gli dicesse: “Guarda, scrivo questa roba ma sono tutt’altro”. E lo si capisce bene. Dietro il linguaggio scanzonato di Archie Goodwin si nasconde uno stilista, che lascia ben poco al caso.
Stile e pittura dei personaggi rendono secondaria la vicenda poliziesca vera e propria. Questa a volte giunge alla perfezione, come in “La lega degli uomini spaventati” (The League of Frightened Men, 1935), vero capolavoro del genere giallo. In altri casi lascia a desiderare. In “Tre sorelle nei guai” (Where There’s a Will, 1940) Wolfe scopre il colpevole grazie a una fotografia di cui il lettore non ha avuto notizia. In “La scatola rossa” (The Red Box, 1937) il mistero è svelato tramite un’improbabile frase in francese detta da una vittima prima di morire. Ma a chi interessa? A noi bastano Nero Wolfe, le sue manie, le infrazioni alle abitudini domestiche, le bizzarrie di chi abita con lui o lo frequenta.
Ogni volta che Stout tenta la via del giallo “puro”, mettendo in scena altri investigatori (Dol Bonner, Tecumseh Fox, Alphabet Hicks, lo stesso ispettore Cramer in un caso tutto suo), fallisce il colpo. Stout è “prestato” al poliziesco, il puro meccanismo non lo coinvolge, né ci coinvolge.
Finisce che Stout si stanca. I suoi ultimi romanzi stentano a decollare. In particolare quello di congedo: “Nero Wolfe apre la porta al delitto” (A Family Affair, 1975). Il colpevole è un vecchio collaboratore del “grassone”. La scrittura ha perso di vivacità, la storia è in sé tristissima. Stout morirà di lì a poco.
Rex Stout ci lascia però una saga indimenticabile, piena di intelligenza e di arguzia, ribollente di satira feroce. Chi mai dimenticherà Nero Wolfe, le sue idiosincrasie, i suoi grugniti? Il grande Nero è eterno. Stesso destino toccherà al suo creatore.