di Franco Ricciardiello
È strano che l’importanza di una delle donne più influenti nella politica del XX secolo (insieme a Eva Perón, Golda Meir, Indira Gandhi) sia oggi così misconosciuta; eppure Jiāng Qīng ha inciso a fondo nella storia del socialismo, anche fuori dai confini cinesi: per esempio, la presa del maoismo sul movimento studentesco europeo, e la sua la radicalizzazione acritica, sono in certa misura un sottoprodotto della Rivoluzione culturale, la lotta scatenata da Máo contro l’élite del Partito comunista.
Jiāng Qīng, il cui vero nome è Lǐ Shūméng, nasce nel 1914, figlia di una concubina. Uno dei primi ricordi da bambina è una frase della madre, che dà l’idea della condizione femminile nella Cina tradizionale: “le donne sono come l’erba, nate per essere calpestate.” Al momento di frequentare la scuola la bambina cambia nome in Yúnhè (che significa “gru tra le nuvole”): sarà solo il primo dei molti nomi che assumerà nella vita. Abbandonata dalla madre, è costretta a vivere con i nonni che contrastano il suo interesse per il teatro, e la convincono a sposarsi a 17 anni. Yúnhè sfugge ben presto al marito, frequenta l’università di Qīngdǎo e sposa un giovane quadro del clandestino Partito comunista cinese, al quale a sua volta si iscrive. All’inizio degli anni Trenta il nazionalista Jiǎng Jièshí (Chiang Kai-shek), signore della guerra che approfittando del disordine è diventato capo di stato, denuncia l’alleanza con il PCC e inizia la persecuzione dei militanti con una funesta parola d’ordine: “Se dobbiamo uccidere mille innocenti per catturare un solo comunista, ebbene sia.”
Convinta che il marito arrestato sia morto, Yúnhè si trasferisce a Shànghǎi, che nella decaduta Cina di inizio secolo è una porta affacciata sulla modernità occidentale. La giovane e bella diciottenne è attratta dal teatro e dalla nascente industria del cinema, rinuncia anche a mangiare per pagarsi i biglietti degli spettacoli. Tenta di entrare in contatto con registi e scrittori e si fa una certa fama nella bohème di sinistra, tanto che nel ’34 viene arrestata; pur di essere rilasciata, firma una denuncia del comunismo che in seguito si ritorcerà contro di lei. Comincia a calcare le scene in ruoli di secondo piano e assume il nome d’arte di Lán Píng (mela blu), con il quale recita in numerosi film di successo (cercare p.es. “Ping Lan” o “Ching Chiang” sull’IMDb in italiano) e raggiunge una notevole notorietà interpretando a teatro il personaggio di Nora in “Casa di bambola” di Ibsen; si invaghisce dell’attore Zhào Dān, che interpreta suo marito Thorvald: lui la rifiuta, e diversi anni più tardi questo gli costerà molto caro. A 21 anni Lán Píng si sposa per la terza volta con il regista Tang Na, attraverso il quale spera di entrare definitivamente nel jet set di sinistra, dove si organizza la propaganda anti-giapponese: l’esercito di Tōkyō ha infatti iniziato la lunga e sanguinosa invasione della Cina, simile a un gigantesco organismo moribondo. Lán Píng pubblica su un settimanale culturale un intervento in cui critica “la pallida arte” che promuove il sentimentalismo borghese e lo spirito di sacrificio femminile, poi fugge da Shànghǎi quando nel 1937 i giapponesi occupano militarmente la città e si impadroniscono dell’industria cinematografica cinese.
A 23 anni, con tre matrimoni alle spalle, Lán Píng decide di mettersi al servizio della resistenza e della rivoluzione. Raggiunge il quartier generale comunista a Yán’ān, sulle montagne, dove l’Armata Rossa cinese si è insediata al termine della vittoriosa Lunga Marcia. Qui lavora nel dipartimento cultura del Partito, insegna recitazione e continua la sua carriera di attrice teatrale. A tutti i costi decide di entrare in contatto con Máo Zédōng, l’indiscusso leader politico (e militare), e ci riesce tramite il suo concittadino Kāng Shēng, responsabile del controspionaggio comunista. Máo, che si è appena separato dalla seconda moglie, si invaghisce della giovane attrice dalle origini borghesi: ottiene dal Comitato centrale l’assenso al divorzio e a un nuovo matrimonio (lei è incinta) a patto che la futura moglie si astenga da qualsiasi ruolo politico per 30 anni. La Sicurezza si impadronisce del documento di abiura del comunismo che Lán Píng ha firmato in prigione, e da questo momento in poi la giovane è legata a filo doppio con Kāng Shēng.
Máo decide che la nuova moglie deve avere un nome nuovo: d’ora in avanti l’attrice borghese diventerà la compagna Jiāng Qīng (“fiume verde”), con il quale entrerà nella Storia. Tenuta lontana dalla politica, si ritrova relegata alla vita di famiglia dalla nascita della figlia Lĭ Nà (Lĭ è non solo il cognome della madre, ma deriva anche da uno degli pseudonimi di guerra di Máo; il nome Nà è probabilmente tratto dagli Analetti di Confucio, con il significato di “apprendimento”).
La Storia intanto prosegue. I comunisti organizzano la resistenza insieme ai nazionalisti di Jiǎng Jièshí, i giapponesi sono sconfitti. Inizia la guerra civile tra gli ex alleati. Quando nel 1949 i comunisti arrivano al potere, prevale l’idea di Máo di una dittatura del Partito piuttosto che quella del suo vice Liú Shàoqí, favorevole a un sistema elettorale aperto. Negli anni ’50 la politica di autosufficienza industriale di Máo (il “Grande balzo in avanti”) provoca una rovinosa carestia e il suo temporaneo ritiro dalla scena politica. Máo e la moglie vivono in appartamenti separati, lei è lontana non solo dalla politica ma anche dalla scena pubblica; il ruolo di “first lady” è interpretato da Wáng Guāngmĕi, la bella moglie di Liú Shàoqí. Liú chiude le inefficienti comuni agricole di Máo e le sostituisce con la piccola proprietà contadina e la facoltà di vendere le eccedenze.
La lotta nel gruppo dirigente si fa più serrata. Máo non è abituato a rinunciare, e a questo punto gli torna utile non solo l’intelligence di Kāng Shēng, ma anche la propaganda culturale della moglie. Dopo quasi trent’anni di interdizione, Jiāng Qīng non aspettava altro. Raggiunge Shànghǎi da dove guida la riscossa contro Pechino: con il consenso del marito, si impadronisce dell’industria cinematografica e degli organi di stampa, che usa per esaltare la figura di Máo, inaugurando un vero e proprio culto della personalità di tradizione staliniana. È l’inizio della Rivoluzione culturale, che il vecchio leader scatena per riprendere le leve del potere, indifferente alle ripercussioni sulla popolazione. Máo scrive gli slogan, semplici e demagogici: “Tutti sono uguali di fronte alla verità”, “Lasciamo che la Rivoluzione culturale sia un processo per la purificazione dell’anima”. Jiāng Qīng governa Shànghǎi tramite un “comitato rivoluzionario” che usa come martello contro la classe dirigente e gli intellettuali. Gli studenti si ribellano contro i professori, li contestano fino alla violenza fisica; la “macchina reazionaria” della polizia viene paralizzata dall’alto. Il 16 maggio 1966 Máo costituisce il Quartier generale della Rivoluzione culturale, quasi un Politburo separato, dal quale Jiāng Qīng dirige le attività contro il Partito. All’ombra del marito, il suo potere è in costante aumento: allinearsi acriticamente al vecchio Presidente è per lei l’unico modo di emergere.
Il disordine si diffonde a macchia d’olio, gli studenti radicali paralizzano la produzione, Máo non riesce più a fermarli. L’economia rischia di arrestarsi. Liú Shàoqí organizza Gruppi di Lavoro che invia nelle fabbriche e nelle scuole per ripristinare un minimo di legalità e riprendere il controllo del territorio, cosa che avviene in due mesi; ha dimostrato di riuscire a governare anche senza Máo, che non potrà mai perdonargli questo successo. La macchina della propaganda maoista si scatena contro il Partito, contro i rivoluzionari della prima ora: l’esempio arriva dall’URSS di Stalin. Il 18 agosto 1966 più di un milione di studenti e lavoratori pro-Máo si radunano nella piazza Tiānānmén a Pechino: sono le Guardie Rosse, gli ultrà della Rivoluzione culturale. Jiāng Qīng compare sul palco accanto al marito, dopo 28 anni la sua esclusione politica è venuta meno. Il caos ricomincia, investe l’Esercito, sulla vecchia guardia dei generali comunisti acquista potere il maresciallo Lín Biāo, stretto alleato della coppia Máo. Gli slogan sono semplici, suggestivi e violenti: “C’è bisogno di caos, caos totale! La violenza è l’unica possibilità per cambiare la situazione”. La lotta è sempre più feroce; gli oppositori di Máo, considerati borghesi e controrivoluzionari, vengono aggrediti, licenziati, incarcerati, costretti a umilianti confessioni pubbliche, perfino assassinati. Il caos e l’arbitrio bloccano la scuola e l’economia. Disinteressata alla politica, la figlia di Máo e Jiāng Qīng si allontana dai genitori e si trasferisce in provincia con il marito. Oramai i destini della coppia sono inseparabili: attraverso la moglie, il vecchio presidente malato stringe la Cina in una morsa di ferro. Il popolo stravede per il suo vice Liú Shàoqí, che viene isolato, destituito e arrestato: muore in carcere dopo 94 ore consecutive di interrogatorio. Jiāng Qīng tenta di mettere in piedi una cinematografia nazionale, con l’intento di produrre film e opere edificanti scritte da lei, ma si scontra con l’anarchia delle maestranze. Riesce a imporsi solamente con l’occupazione militare degli studi di produzione. “La conquista della montagna della Tigre” è comunque un successo, le musiche vengono cantate ovunque per strada. La primadonna del regime non dimentica il suo passato: Zhào Dān finisce in carcere, e ci resterà sino alla caduta della Banda dei Quattro (l’appelaltivo coniato da Máo per designare la moglie e tre suoi collaboratori (Zhāng Chūnqiáo, Yáo Wényuán, Wáng Hóngwén). Eliminato Liú Shàoqí, scoppia una lotta di potere tra i maoisti e il premier Zhōu Ēnlái, molto amato dal popolo, l’unico che possa impedire alla futura vedova di occupare il posto di presidente (il candidato di Zhōu è invece Dèng Xiǎopíng, un abile economista detestato dagli estremisti). Il favore di Máo oscilla per una parte e per l’altra, finché Lín Biāo cade in disgrazia (muore in un incidente mentre tenta la fuga in URSS).
La salute di Máo si deteriora, i suoi favori vanno a turno a Dèng e alla Banda dei Quattro; ma Jiāng Qīng impersona la Rivoluzione culturale: il nuovo mondo che distrugge il vecchio, la politica contro la cultura, la semplificazione contro la tradizione. Un enorme patrimonio umano e sociale viene tritato nelle ruote dentate della storia. Sul letto di morte, nel settembre 1976, Máo designa suo successore un uomo nuovo, il segretario provinciale Huà Guófēng. Non è chiaro se a prevalere sarà lo sconosciuto Huà, che è una soluzione di compromesso, o l’odiata ma potentissima vedova. Ammalato terminale di cancro, il vecchio Kāng Shēng lascia un laconico testamento: “La signora Máo Jiāng Qīng è una traditrice. Io suggerisco: eliminazione immediata”. Ben presto appare chiaro che il potere di Jiāng Qīng promana unicamente dalla volontà di Máo, nella sua ombra e in nome suo ha vissuto tutta la vita. Il 6 ottobre 1976 la Banda dei Quattro viene arrestata.
È la fine della rivoluzione culturale. Dèng è richiamato a Pechino. Nel 1980 si apre il processo alla “cricca controrivoluzionaria di Jiāng Qīng e Lín Biāo”, accusata di sistematica persecuzione di intellettuali e artisti e del tentativo di prendere il potere. La condanna a morte di Jiāng Qīng viene commutata in ergastolo, poi è rilasciata nel 1991 per ragioni umanitarie (cancro alla gola). Il 14 maggio 1991, dopo 15 anni di carcere, la ritrovano impiccata nell’ospedale dove è ricoverata; lascia solo una breve nota scritta di suo pugno: “Presidente! Ti amo! La tua studentessa e compagna sta arrivando da te!”