di Franco Pezzini
[Qui la puntata precedente]
Di quei papà che non si conoscono
Nel 1918 Henry Edwards presenta il proprio film — ovviamente muto — The Hanging Judge, basato su un testo teatrale di Tom Gallon e Leon M. Lion. Il protagonista Dick (interpretato dallo stesso Edwards) finisce sotto processo per omicidio: a complicare le cose sul piano melodrammatico, si tratta del figlio unico del severissimo magistrato del titolo, Sir John Veasey (Hamilton Stewart), chiamato per di più a giudicarlo. La pellicola, inglese, recupera uno spunto classico: il padre, figura normativa per eccellenza, diviso tra dovere istituzionale e la dimensione più cara degli affetti. Se però Lucio Giunio Bruto aveva potuto condannare a morte il figlio guadagnandosi il plauso dei rigoristi romani, col tempo (e qualche oncia di civiltà in più) il plot guadagna in tormento e ripugnanza — come nel caso della celebre vicenda irlandese, plausibilmente nota ai connazionali Le Fanu e Stoker, riguardante un Mayor di Galway vissuto a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Il rigorista James Lynch Fitzstephen non solo condannò a morte il figlio unico Walter, reo confesso dell’omicidio di un ospite spagnolo troppo galante con la sua ragazza; ma provvide a impiccarlo personalmente alla finestra della propria casa in Market Street, visto che nessuno a Galway City si sentiva di giustiziare un ragazzo tanto popolare. L’hanging judge torturato dalla propria amarezza si seppellì nella casa, vivendo da recluso gli anni che gli restavano.
Nonostante si citi talora il nome di questo Lynch (da Linz in Austria, luogo di origine del casato) come connesso al termine lynching, linciaggio, non pare sussista un rapporto diretto. In ogni caso il palazzotto della tragedia viene ancor oggi indicato ai passanti, con la finestra dell’esecuzione, la cosiddetta “Lynch Stone” che rievoca la “severa e inflessibile giustizia” del magistrato e un rilievo con teschio e ossa incrociate recante l’ammonimento: “1624 / Remember Deathe Vaniti of Vaniti and al is but / Vaniti”. È evidente che un sottotesto patriarcale della simbolica giudiziaria — il magistrato come anziano della comunità e “padre”, e il reo come giovane/immaturo e “figlio” — non si consuma nel modello del Giudice Impicca-impicca, e le sue derive arrivano fino ai tempi nostri. Ma in questa sede interessa un dato più circoscritto di linguaggio simbolico: e cioè che il personaggio letterario dell’hanging judge si costruisce proprio nel rapporto tra la casa come memoriale concreto, storico di un personaggio più o meno malfamato, e la sua casa interiore — un foro interno aperto a incubi, rovelli e orrori in complicato rapporto col foro esterno legato a ruolo e pubblica nomea.
A partire da metà Ottocento: e da un testo non anglosassone, come ci aspetteremmo, ma francese. In quello straordinario mosaico del macabro che è Les mille et un fantômes (cfr. Nightmare Abbey 1), introduzione-romanzo in forma di collage di narrazioni all’omonima e ampia raccolta del 1851, Alexandre Dumas si sofferma quasi ossessivamente sul tema delle esecuzioni capitali. In particolare decapitazioni, su cui sviluppa tutta una riflessione medico-legale e umanitaria contro gli orrori della ghigliottina (non senza una punta di compiacimento da agonie romantiche in zona Sade); ma ricordando, in un paio di casi, anche impiccagioni. Come negli altri episodi del romanzo-collage, giocati in forma dialettica tra sovrannaturale e istanze razionali attraverso il dibattito tra i personaggi, e ammiccanti di voce in voce a diversi modelli narrativi in una godibilissima collezione di esercizi di stile, anche i due racconti sul tema della forca appaiono diversamente modulati. Il primo riporta il caso della curiosa reviviscenza del cadavere di un brigante: lo sfondo è la Francia prerivoluzionaria, quando ancora si usava l’impiccagione, e la narrazione riecheggia le stranezze miracolistiche di certa letteratura devota — a narrare è del resto il pio abate Moulle, amico di Cazotte e imbevuto di curiose teorie sugli spiriti. Ma il secondo — Cap. VIII, Le chat, l’huissier et le squelette — che ci interessa più direttamente, riguarda un illustre e innominato “juge au tribunal criminel”: a Edimburgo ha fatto impiccare un bandito (scozzese, sottolinea Dumas quasi a contrapporlo alla magistratura del sovrano di Londra), ne è stato maledetto e precipita in un’ossessione che lo condurrà lentamente alla morte. A raccontare è stavolta lo scettico dottor Robert, che per tutta la vita ha incalzato sperimentalmente la macchina umana, nella discussione funge da avvocato del diavolo e nel caso in questione vede soltanto un ferale caso di allucinazione; e la storia gli è stata riportata da un illustre medico di Edimburgo, l’inglese Sympson.
Dopo lunga esitazione, proprio a Sympson il giudice ha confessato la sua angoscia. Impiccato alle sei del pomeriggio, il malfattore aveva fatto pervenire l’avviso che a quell’ora stessa del giorno seguente sarebbero giunte ulteriori sue notizie: e in effetti da quel momento e per tutto il mese successivo il magistrato è stato quotidianamente perseguitato dall’apparire di un gatto fantasma, color nero e rosso fiamma, di apparenza solida ma visibile solo a lui. La bestia spettrale restava nella sua stanza per un tempo sempre più lungo, scomparendo comunque all’alba — e la vicenda ha scatenato voci umilianti sulla sanità mentale del giudice, isolandolo sempre più. Poi il gatto è scomparso, ma per il mese successivo, con la stessa cadenza, ha preso a visitare il Nostro un altro fantasma: uno spettrale valletto, che lo accompagnava persino all’esterno con equivoca sollecitudine ma sempre visibile soltanto all’interessato. E finalmente, al terzo mese, anche il valletto ha smesso di apparire; per essere però sostituito da uno scheletro semovente, “image vivante de la mort”, che fissa il giudice impedendogli il sonno. Di fronte al racconto che giudica frutto di allucinazione, Sympson si mostra ottimista: basta far sì che un solo giorno passi senza manifestazioni del visitatore fantasma. Dunque chiude le finestre della stanza del giudice e accende le candele, blocca l’orologio per impedirgli di soffermarsi sull’orario, somministra un sedativo perché dorma di giorno, lo intrattiene col gioco e infine esulta credendo sia già passata l’ora fatale… ma non è così, e puntualissimo si presenta lo scheletro. Che, a differenza del tremebondo magistrato, Sympson non può vedere e tuttavia gli strappa un brivido di disagio. Con una fretta un po’ imbarazzata, l’illustre medico suggerisce al giudice di fare testamento e se ne va. Alla fine del mese, il terzo dall’impiccagione del ladro e proprio a quell’ora, il giudice muore.
Il sapore è naturalmente, in questo caso, quello delle ghost stories d’Oltremanica, con tanto d’ironia verso lo scetticismo preconcetto: e la spiegazione razionalista di Robert rappresenta solo un punto di vista. Del resto Robert racconta ciò che gli è stato riferito da Sympson, che a sua volta riporta le parole del giudice su ciò che vede: anche attraverso l’intrigante gioco di cornici, Dumas lascia dunque ristagnare un dubbio sul significato degli eventi, quell’imbarazzo che pervade un po’ tutta la raccolta e costituisce in fondo la nota più propria del Fantastico moderno.
Tanto più che Dumas si fa forte di una fonte insieme razionalista e romantica, smaliziata e appassionatamente attratta da tal genere di fantasie: quel Walter Scott che menziona, con ammiccamento sornione, quale compagno di viaggio di Sympson in Francia. Il materiale cui Dumas attinge per il racconto si trova infatti nella prima delle Letters On Demonology And Witchcraft, indirizzate a tale “J.G. Lockhart, Esq.” che il grande scrittore scozzese aveva pubblicato nel 1830; anche se in quella godibilissima ed erudita compilazione (un’edizione superba a cura di Maria Pia Donat-Cattin è uscita per Donzelli nel 1994, col titolo Demoni e streghe) l’interpretazione è univoca, e i visitatori spettrali sono di natura illusoria o patologica, secondo le più avanzate tesi di luminari come John Ferriar e Ware Samuel Hibbert, attivi tra la fine del Sette e l’inizio dell’Ottocento. Vi si trova registrato in particolare un caso autentico, riportato da un illustre medico che resta anonimo e riguardante un altrettanto anonimo paziente deceduto “ormai da molto tempo”, sulla persecuzione spettrale che lo vessò negli ultimi anni portandolo alla morte: i tre fantasmi susseguitisi nella sua stanza erano proprio quelli che conosciamo — un gatto, un cerimoniere e uno scheletro ambulante — ma il luogo dei fatti non è riportato e la vittima non era un giudice penale, bensì una sorta di amministratore giudiziario, noto peraltro per buonsenso e onestà. Nel recuperare la storia, Dumas dunque la drammatizza arricchendola (il tema dell’ora fatale delle sei del pomeriggio a cui appare lo spettro, e il tentativo del medico di stornare l’attenzione del paziente da quel termine provengono per esempio da un altro caso citato nella stessa Lettera, tramite un dottor Gregory di Edimburgo); e vara così la serie degli hanging judges della letteratura fantastica moderna.
Certo, qui il judge di Dumas è hanging solo in senso contingente: si parla di una singola sentenza, conforme al diritto d’epoca, e nulla testimonia che il magistrato sia particolarmente severo o crudele. Ma nel racconto sono già presenti gli elementi propri di ciò che possiamo considerare il canone mitico dell’hanging judge:
1. gestione della forca (con la relativa simbolica: strumento di esecuzione popolare, ecc.) da parte di un magistrato in un contesto (psicologico/ambientale) estremo;
2. deriva interiore del magistrato che trascina conseguenze (virtualmente) sovrannaturali;
3. presenza di una casa del magistrato, luogo del suo privato e dunque dell’epifania (para)psichica che lo riguarda, con qualche punto (in genere una stanza da letto) particolarmente fatale;
4. ambientazione nelle Isole Britanniche, in riferimento a un magistrato di Sua Maestà e a un giudizio sulla sua azione.
Di alcuni degli elementi si è detto, e comunque occorrerà tornarvi. Merita però fin da questo testo soffermarsi sul contesto geografico, che connota il sapore estremo della vicenda (punto 1). A differenza infatti che nella fonte scottiana, l’episodio per Dumas si svolge a Edimburgo: in quell’esotica Scozia che per i romantici gronda tinte forti, spalanca le porte al sovrannaturale (la maledizione indigena), e contrappone lo “scozzese” a un giudice dipendente dalla Corona britannica. Certo Dumas non calca la mano sui profili dei personaggi (come avrebbe potuto fare a proposito del bandito/stregone quale espressione romantica di una Scozia ribelle, oppure col ricorso al classico stereotipo francese sull’inglese sadico — su cui dovremo tornare); ma al lettore restano aperte varie interpretazioni in chiave di possibilità.
D’altra parte (punto 4) l’esercizio di stile sulle peculiarità dei singoli diorami sovrannaturali permette a Dumas di cogliere, nell’unico racconto di Les mille et un fantômes ambientato in Gran Bretagna, un aspetto interessante. Se i vecchi inquisitori si ritenevano catafratti contro le maledizioni streghesche grazie alla sacertà del proprio incarico, e disponevano comunque di un arsenale esorcistico tradizionale, con lo strappo dello Scisma, la Riforma e la specificità della situazione britannica — che investe anche cattolici — si è consumato uno sbandamento simbolico: legittimato dall’autorità terrena ma solo indirettamente da Dio, il giudice che fronteggia uno stregone non può più vantare speciali protezioni, e la sua laicità si risolve in fonte di fragilità. Tanto più nel contesto tardo dell’episodio, in quel clima di scetticismo diffuso (almeno tra gli uomini di cultura) in cui la medicina si arrabatta con qualche imbarazzo tra i problemi della psiche, e tiepidi religiosi salutisti sono ormai incapaci di esorcismi: anzi, Le Fanu partirà proprio da questa situazione per i provocatorî casi del suo dottore psichico Hesselius. A fronte delle ipostasi spettrali il giudice di Dumas sembra temere più la follia che il sovrannaturale: e per lui può valere il gemito del suo corrispettivo storico, citato da Scott, quando lamenta che (corsivo mio) “Science, philosophy, even religion, has no cure for such a disorder”. Inevitabile dunque che il legato mitico-magico strabordante nelle Isole Britanniche in infinite storie folkloriche di spiriti, e per contro la solitudine della coscienza privata delle tradizionali protezioni papiste travolgano col loro portato naturale (gli irriconosciuti sensi di colpa) e sovrannaturale i più solidi custodi della legge del Re. Con una caratteristica ulteriore: il giudizio sul giudice non viene da una fonte sovrannaturale, Dio o il diavolo, come in tante saghe popolari su vilain dannati, ma da altri uomini (il bandito, i servi che lo sbeffeggiano come matto…) e in ultima analisi da lui stesso, col sospetto di un autodistruttivo senso di colpa. Ciò che tornerà con gli altri hanging judges della letteratura fantastica, spesso suicidi e prigionieri anche post mortem del proprio angusto orizzonte psichico, oggetto di giudizio della comunità e in fondo dei lettori.
Les mille et un fantômes è del 1851: e solo due anni dopo, nel dicembre 1853, Joseph Sheridan Le Fanu presenta sul ‘Dublin University Magazine’ il racconto An Account of Some Strange Disturbances in Aungier Street, evocante uno spiacevole hanging judge suicida e spettro pericoloso. A fronte della contiguità cronologica, del tipo di personaggio e di una formula similmente affabulatoria — in Dumas i narratori erano riuniti attorno a un tavolo, qui all’inizio del testo si spiega quanto sarebbe preferibile raccontare a voce “a una cerchia di facce intelligenti e ansiose […] illuminate da un bel fuoco postprandiale” (così nell’edizione classica per Theoria, Racconti del soprannaturale, a cura di Malcolm Skey, 1990) — è legittima la domanda su possibili relazioni tra i due testi, sia pure in termini di ispirazione indiretta, visto che le trame sono piuttosto diverse. Certamente l’autore irlandese conobbe la fonte di Dumas, le citate Letters di Scott, i cui resoconti di persecuzioni/ossessioni rappresentano come detto uno dei bacini principali d’ispirazione per i casi del dottor Hesselius. Resta invece più difficile offrire risposta sul rapporto di An Account col precedente francese, che in ogni caso nulla toglierebbe all’originalità di Le Fanu — ma sul discorso dovremo tornare.
An Account è un esempio delizioso ed elegante di trattazione della formula ghost story a partire da materiale in fondo limitato, come spesso nelle narrazioni popolari: e proprio dopo aver affettato una presa di distanza sull’efficacia dello scritto rispetto alla suggestione palpitante del racconto a voce nella giusta atmosfera, grazie al registro colloquiale Le Fanu regala una prova della sua straordinaria capacità di dosare ironia e inquietudine. Il testo si ascrive a quel filone maturo della sua produzione fantastica che potremmo definire delle case (anni Cinquanta e inizio Sessanta), perché le storie di sogni e incubi di una comunità sono incalzate attraverso il tessuto degli abitati e le vicende dei singoli edifici. “Non vi sarà certo sfuggito” scrive verso la conclusione di An Account “che quello che l’eroe romanzesco in carne e ossa è per l’autentico scrittore di narrativa, per l’umile estensore di questa storia vera lo è quella casa di mattoni, legno e malta”: una dimora un tempo di pregio, ma in seguito decaduta e svenduta fino a divenire alloggio per studenti. Situazione emblematica, rileva la critica, di un nuovo gotico: traumi e misteri un tempo ripiegati nel chiuso della famiglia aristocratica (il castello, la villa…) dilagano cioè per le leggi del mercato in una più ampia comunità (qui la via, Aungier Street). E fino a investire quei campioni della banalità democratica (i protagonisti Dick e Tom, i nomi sono tutto un programma), la cui ingenuità di vittime designate coniuga gioventù e completa ignoranza della storia comunitaria. È in tale contesto che la casa del giudice, mostro comunitario, trova la prima, moderna definizione mitica.
La storia stavolta si svolge a Dublino, e rimonta alla giovinezza del narratore Dick, quando studiava medicina assieme al cugino Tom Ludlow (in seguito divenuto ecclesiastico e ormai morto — il testimone deceduto è un classico della letteratura di questo genere). I due giovani si insediano in una vecchissima e tetra casa appena acquistata dal padre di Tom in una via del centro, Aungier Street, e quasi subito iniziano i guai: il suggestionabile Dick prende a essere perseguitato da un incubo notturno in cui l’immagine di un vecchio spettrale, “con un’espressione che era una strana mescolanza d’intelligenza, sensualità e vigore, e purtroppo sinistra e che non prometteva niente di buono”, con “il naso adunco, come il rostro di un avvoltoio”, lo fissava quasi ipnoticamente dalla finestra. Il lettore già inizia a sospettare che si tratti di un precedente abitante della casa, quel vecchio giudice Horrocks che “guadagnatasi la fama di «giudice impiccone» (having earned the reputation of a particularly ‘hanging judge’) aveva finito per impiccar se stesso cedendo a una «infermità mentale temporanea», come stabilì la giuria che collaborava con il Coroner, con la corda per saltare di un bambino”. Dick però non osa spiegare a Tom il carattere dei propri incubi, e col pragmatismo scettico del futuro medico affronta la faccenda con un ricostituente. Che reca, è vero, qualche lieve beneficio: ma il fatto — spiega il narratore — non può far escludere egualmente l’influenza di forze maligne, che un organismo in miglior forma contrasterebbe in modo più efficace. Dove già si profila la logica dell’ineffabile Hesselius discepolo di Swedenborg circa l’equivoco rapporto tra corpo e spiriti, ma insieme si gioca col lettore: a convincerlo cioè ma solo fino a un certo punto, a provocarlo nelle soluzioni più ovvie, a patteggiare con lui ragioni per sospendere l’incredulità (almeno per la durata di una buona storia) ma instillandogli insieme tutti i dubbi del caso. Come ha ben scritto Guido Almansi, Le Fanu “è troppo furbo per credere agli esseri soprannaturali, troppo intelligente per non credervi”.
La svolta si ha quando una notte il più tetragono Tom (che dorme, va detto, nella stanza più inquietante della casa) irrompe in preda al panico nella camera del cugino, accordandosi frettolosamente con lui per un’altra sistemazione abitativa; e l’indomani parte, lasciando a Dick di avvisarlo non appena trovi il nuovo alloggio. Il poveretto, da solo nella casa, si sforza ad affrontare a suon di boccali di ponce fantasie, ombre incerte, e quei passi che si rivelano causati da un ratto mostruoso, enorme e con qualcosa d’inquietantemente simile al vecchio degli incubi… Ma finalmente la nuova sistemazione salta fuori, Tom torna a Dublino e si risolve a raccontare cosa l’abbia tanto spaventato. Anche lui aveva visto il vecchio spettrale, ma in movimento nella propria stanza: la prima volta l’aveva semplicemente traversata senza degnarlo d’attenzione, ma notti dopo era riapparso fissandolo presso il letto. E una terza volta (quando ormai Tom cercava di non dormire più lì, ma è rimasto abbioccato) lo spettro è arrivato a minacciare Tom da vicino; “Attorno al collo aveva una corda; l’altro capo lo teneva arrotolato, rigidamente stretto in pugno”, pronto a lanciarlo con un voluttuoso sorriso attorno al collo dello studente. Sconvolto, Tom era riuscito a strapparsi di lì e raggiungere la camera di Dick… A quel punto la domestica interviene: la stanza di Tom, chiarisce, era quella del pessimo giudice Horrocks, che nella relativa alcova aveva tagliato via le manopole dalla corda con cui giocava la figlia della governante, e quindi si era impiccato alla balaustra della scala. La bimba era rimasta ossessa dagli incubi su quel padrone che non voleva lasciarla andare, ed era morta presto; comunque si diceva fosse figlia di lui, “perché quello era un mascalzone in tutti i sensi, e il giudice più impiccone che si sia mai visto in terra d’Irlanda”. Nella casa del resto “Ci sono sempre stati brutti incidenti, morti improvvise e soggiorni brevi”: come nel caso di un pover’uomo un po’ sbronzo, trovato col collo rotto “per essere stato buttato giù dalla balaustra”…
Gli ingredienti topici, insomma, ci sono tutti: c’è ovviamente la casa del giudice (che in seguito, apprendiamo, finirà distrutta accidentalmente in un incendio), con la stanza critica; il contesto estremo è qui garantito dalla ferocia dell’hanging judge, in vita e dopo; la sua deriva interiore è espressa dal sadismo che continua a mostrare con la compulsività degli spettri, e insieme dalla misteriosa “temporary insanity” che l’ha spinto al suicidio (nonostante il tenore agiato e i sontuosi ricevimenti espressione di epicureismo e successo sociale), da cui l’orrida infestazione. Sul significato del gesto autodistruttivo del giudice, Le Fanu costruirà il successivo racconto Mr Justice Harbottle, 1872 — che prenderemo in esame — ma nulla suggerisce che al tempo di An Account già immaginasse simili sviluppi: anzi, un certo scarto tra le due figure di hanging judges lefanuiani e il sapore un po’ diverso delle vicende rende difficile compenetrarle. A differenza del giudice di Dumas, Horrocks è un sadico compiaciuto e sensuale, e l’impeto che l’ha travolto (depressione? delirio da carnefice? voluttà di morte?) resta volutamente circonfuso d’ombre.
Più agevole è invece individuare un potenziale modello per Horrocks: se, come accennato, Le Fanu doveva conoscere la cupa storia del Mayor di Galway James Lynch Fitzstephen, il riferimento al “giudice più impiccone che si sia mai visto in terra d’Irlanda” ci indirizza però verso un diverso personaggio, certo pure a lui noto. John Toler, primo conte di Norbury (1745-1831), o semplicemente The Lord Norbury negli anni del maggior potere, politico, avvocato e magistrato irlandese, aveva perseguito i ribelli del 1798 con tale indifferenza per le sofferenze umane da suscitare disgusto persino tra i filogovernativi; e i successivi anni (parecchi, dal 1800 al 1827) che lo videro Chief Justice of the Irish Common Pleas brillarono di luce livida negli annali della malagiustizia locale. Toler restò celebre per scarsa conoscenza della legge, grossolana parzialità, insensibilità e fragorosa buffoneria, scherzando sulle vite in gioco (così il Dictionary of National Biography, Smith, Elder & Co., London 1885-1900) e deridendo gli imputati; e la sua propensione alla forca era tale da guadagnargli l’ovvio soprannome di hanging judge e paragoni col vecchio Jeffreys, che arrivava a surclassare. Non morì suicida, come forse si sarebbero augurati i molti nemici, ma si spense ottantacinquenne nella propria dimora a Dublino, 3 Great Denmark Street: non proprio vicinissimo ad Aungier Street, ma pur sempre nel centro città. Se Le Fanu descrive Horrocks (almeno quello spettrale) come tozzo e corpulento, un ritratto di John Toler alla National Portrait Gallery di Londra non sembra confermare tale caratteristica: mentre assolutamente simile pare il naso adunco che accomuna i due magistrati. Al di là dell’ovvia libertà dello scrittore, per i lettori minimamente edotti in storia nazionale il richiamo doveva apparire abbastanza diretto — tanto più che storie su apparizioni dello spettro di Lord Norbury (presso il Broom Bridge nel sobborgo dublinese di Cabra) sono ancor oggi ricordate.
Per chi fosse interessato, Le Fanu spiega che Horrocks era stato tumulato “in Pether’s churchyard”, cioè evidentemente il camposanto di St. Peter’s Church in Aungier Street. Ora la chiesa non esiste più (chiusa nel 1950, è stata demolita nel 1983, e il cimitero smantellato); ma pare interessante ricordare che più o meno ai tempi dei presunti fatti di An Account, a partire dal 1805, ne era curato Charles Robert Maturin, autore di Melmoth the Wanderer, che lì rimase fino alla morte nel 1824. Se — come probabile — tale indiretto ammiccamento al contesto gotico è frutto di un caso, pare almeno ben trovato.
Con An Account, comunque, l’hanging judge della letteratura fantastica trova prima, compiuta definizione. Da quel padre cattivo senescente, rapace e irriconosciuto che soffoca i figli (la figlia naturale che “non è più cresciuta dopo”, morendo con “l’acqua nel cervello”, poi il giovane Tom succedutogli nella stanza dei cattivi pensieri — trasformando in cappio il gioco della bimba e in luogo d’incubo il rifugio degli studenti) deriverà un’intera genia di impicconi letterari; e la possibile ipostasi del topo che tanto aveva fatto raccapricciare l’impressionabile (e forse brillo) Dick avvierà un filone di sordide contiguità col più tetragono dei roditori. Se poi Le Fanu non pensava certo a rendere il personaggio da ghost story un’icona critica militante, offre però in Horrocks un’efficace maschera non solo delle oppressioni di un passato più o meno remoto, ma dell’ombra che un potere cattivo lascia anche dopo la sua morte storica. Come uno strascico di male impastato nella casa comune, e di cui pare difficile liberarsi.
[Continua –]