di Lara Manni
Eowyn Ivey, La bambina di neve, Einaudi, Torino 2011, pp. 414, € 19.00
La bambina di neve si chiamava, in origine, Snegurochka, era la figlia della primavera e del gelo e si incarnò in una creatura dotata di parola e respiro grazie al desiderio di una coppia senza figli: da loro riceverà, però, un affetto senza limiti e insieme una condanna. Nella versione originale, la bambina impara dalla madre umana la pietà e le emozioni e proprio per questo, nel momento in cui si innamora per la prima volta, il suo cuore si scalda. Dunque, la fanciulla si scioglie.
“La bambina di neve” è il romanzo d’esordio (in Italia pubblicato da Einaudi Stile Libero) di Eowyn Ivey, giornalista e libraia che vive in Alaska e che ha, di fatto, raccontato con grande fedeltà la fiaba russa, ambientandola negli anni Venti del secolo scorso e dandole come sfondo la propria terra. I protagonisti sono Jack e Mabel, una coppia di mezza età segnata dalla perdita di un figlio e trasferitisi in Alaska per cercare solitudine e il riscatto promesso ai coloni. Come nella storia classica, proprio mentre Jack sta per abbandonare il progetto e accettare un lavoro nelle miniere e Mabel medita il suicidio, cade la neve e i due sposi ritrovano, per una breve notte, allegria e intimità. Costruiscono un pupazzo di neve e gli danno la forma di una bambina. Fanno l’amore. Il giorno dopo, il pupazzo è sparito, ma fra gli alberi appare e scompare una bambina bionda, seguita da una volpe rossa.
Ci vorrà molto tempo, e non poca pazienza, prima che la bambina accetti di seguire Jack in casa, e ancor di più prima che riveli il suo nome, Pruina. Ma il desiderio di Mabel sboccia immediatamente. Per lei, che intuisce sensibile al caldo eccessivo, lascia entrare il gelo dalla porta socchiusa. Per lei torna a disegnare, e disegna tutto quel che la bambina le porta in dono. Per lei sfida il giudizio degli altri pochi umani che frequenta, e racconta che Pruina esiste, e non importa se l’accusano di soffrire la follia del mal d’inverno. Mabel è il vero centro della storia, dunque. Perché il romanzo riesce a innestare nel tessuto classico della fiaba i temi e le lacerazioni del desiderio stesso: la maternità, nel caso di Mabel, il riscatto maschile (ma anche la paternità) per Jack. Ma è il desiderare, in sé, che porta a creare: ed è questo che interessa ad Eowyn Ivey, fra le poche a portare a compimento un esperimento tentato da molti.
L’innesto della fiaba classica in un romanzo contemporaneo, infatti, è una tendenza che interessa non pochi scrittori, fino a diventare — ineluttabilmente — filone editoriale emergente negli Stati Uniti. Qualche tempo fa, Editrice Nord ha pubblicato una raccolta di racconti di Andrzej Sapkovski dal titolo “Il guardiano degli innocenti”, che è stata salutata con favore dai lettori di fantastico italiani più per il riferimento al videogioco che ne è stato tratto che per la derivazione fiabesca. Il protagonista, Geralt di Rivia, è un Witcher, uno strigo che combatte mostri in una serie di quest replicabili all’infinito. Lo strigo vince sempre, ha un suo codice etico, sufficiente cinismo, molto orgoglio, abbastanza carnalità da intrattenersi con fanciulle di passaggio. E soprattutto agisce all’interno di fiabe e miti: c’è la rivisitazione al nero di Biancaneve, si accenna alla fuga di Cenerentola dal ballo, Raperonzolo diviene l’emblema di un culto femminile proibito. E poi, in uno dei capitoli determinanti, c’è addirittura la dama dalla sciarpa verde, quella che sir Gawain incontrò nella sua indimenticata avventura. Ma in nessun momento si scende nel cuore della fiaba stessa, isolandone l’elemento centrale e ridandole vita.
Qualcosa di simile, con più inventiva, era stato fatto negli anni scorsi da Riccardo Coltri con “Zeferina” (Asengard), dove fiabe e miti accompagnavano la fuga di una giovane strega attraverso boschi gelati, caverne, alberi cavi, santuari, battaglie, inseguita da tutte le fazioni, umane e non. Attorno a lei, si muoveva un universo fantastico comprensivo anche degli elementi entrati nel panorama italiano e di altra derivazione: fate, anguane, sibille bambine, orchi, corvi, lupi, folletti, beate genti.
Eowyn Ivey, però, fa qualcosa in più: perché non basta conoscere la fiaba per riscriverla. Compie, in un certo senso, un percorso simile a quello di Angela Carter con i racconti di “La camera di sangue”, dove il pretesto erano le storie di Perrault, da Barbablù a La bella e la bestia, da Cappuccetto rosso a La bella addormentata nel bosco, e altre narrazioni del folklore (il re degli elfi) o della letteratura (“Alice nel paese delle meraviglie”). La stessa Carter dichiarò: “La mia intenzione non era scriverne nuove “versioni” o, come è stato orribilmente pubblicato nell’edizione americana del testo, fiabe “per adulti”, ma estrarre il contenuto latente dai racconti della tradizione”.
Ecco, senza questa discesa nel “contenuto latente” l’operazione riesce solo a metà. Ivey, al contrario, l’ha centrata.