di Franco Ricciardiello
La Cina è oggi tra le maggiori economie del pianeta: per il mondo questa non è una novità, dato che fino al XVII secolo 1/3 del PIL mondiale era prodotto nel Celeste Impero. Forse è a causa alla ritrovata centralità economica che uno dei periodi più foschi e terribili della sua storia contemporanea, la Rivoluzione culturale, risulta ancora carente di ricostruzioni storiografiche; eppure gli anni della de-maoizzazione hanno messo a disposizione una quantità di documenti. Ma la coscienza politica sporca dell’Occidente si concentra sulla questione tibetana, cara ai neofiti delle religioni che fanno tendenza, fingendo di non vedere che i diritti umani in Cina vengono calpestati ovunque.
Ancora oggi si fa confusione in materia, e c’è chi considera la Rivoluzione culturale (Wénhuà dà gémìng) un episodio di politica interna della Cina, piuttosto che una guerra civile tra marxisti dogmatici (Máo) e pragmatici (Dèng). Tutto ha inizio a metà degli anni Sessanta. Máo Zédōng, il vecchio leader della rivoluzione comunista arrivata al governo nel 1949 dopo mezzo secolo di disordini e guerre, si trova confinato ai margini del potere a causa degli spaventosi errori del suo “Grande balzo in avanti” (Dàyuèjìn) di fine anni Cinquanta, che invece di trasformare la Cina in una potenza industrializzata provoca una carestia di dimensioni apocalittiche nelle campagne: secondo gli storiografi cinesi, 14 milioni di morti dal ’59 al ’62.
Negli anni Sessanta, Máo è ossessionato dai tentativi di riforma della pratica marxista in Europa: per lui Chručëv e il maresciallo Tito sono traditori revisionisti, tra i quali include anche la vecchia guardia del PC cinese: il vicepresidente Liú Shàoqí e il membro del comitato centrale Dèng Xiǎopíng. Nel 1965 Máo si sente offeso dal dramma storico scritto dal vicesindaco di Pechino, “Le dimissioni di Hǎi Ruì”, nel quale un onesto funzionario è licenziato dal corrotto imperatore: facile riconoscere il Presidente, anche perché l’opera è stata scritta in pieno Grande Balzo in Avanti. La moglie di Máo, l’ex attrice Jiāng Qīng, pubblica una feroce critica del dramma, nella quale riverbera l’enfasi della repressione anti-intellettuale che nel ’57 ha posto brutalmente fine al periodo di liberalizzazione della Campagna dei Cento Fiori. Il sindaco di Pechino rifiuta di criticare pubblicamente il suo vice; le posizioni si radicalizzano, il maoista Lín Biāo, ministro della difesa, dimissiona il capo di stato maggiore dell’esercito perché “enfatizza le esercitazioni militari a scapito della discussione politica.”
A inizio 1966 il Politburo dimette il sindaco di Pechino, accusato di essere un infiltrato della borghesia per sabotare la dittatura del proletariato. Poco dopo, la c.d. “Circolare del 16 Maggio” sollecita lo smascheramento dei rappresentanti della borghesia infiltrati nelle istituzioni, soprattutto le tendenze reazionarie delle autorità accademiche: è l’atto d’inizio della Grande Rivoluzione culturale proletaria (Wúchǎn jiējí wénhuà dà gémìng). Máo fa leva sui giovani, incoraggia gli spontanei dàzìbào affissi nelle università per attaccare la “cricca anti-partito”: e i giovani rispondono con entusiasmo. La prima organizzazione di Guardie rosse è fondata il 29 maggio in una scuola superiore di Pechino. Nell’estate 1966 la critica contro i docenti si espande a macchia d’olio in tutta la Cina: presidi e professori vengono accusati di revisionismo, malmenati, umiliati in pubblico, costretti con la violenza all’autocritica; non è raro il caso di insegnanti picchiati a morte dagli allievi.
Máo soffia cinicamente sul fuoco con un dàzìbào intitolato “Fuoco sul quartier generale”: accusa l’élite comunista di revisionismo, mentalità borghese e capitalista. Il Comitato centrale del PCC approva i c.d. “16 punti” da inserire nella Costituzione, che garantirebbero quattro “grandi diritti democratici”: parlare liberamente, mettersi in contatto reciproco, scrivere dàzìbào e tenere raduni di massa. Ben presto, Máo trasforma questa teorica libertà (il cui valore ideologico influenzerà enormemente il Maggio francese) in violenza istituzionalizzata contro il Partito comunista.
Il 18 agosto 1966 uno sterminato raduno sulla piazza Tiānānmén di Pechino vede la partecipazione di 16 milioni di giovani Guardie rosse, che gratificano Máo di un affetto incondizionato. Il vecchio Presidente fa leva sulla gioventù, ancora priva di spirito critico, per riappropriarsi del potere; è l’inizio di un culto della personalità che si avvicina a quello di Stalin. Affinché nasca il mondo nuovo, è necessario distruggere le vecchie idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni e i vecchi costumi: questo significa scatenare le giovani, fanatiche Guardie rosse. “Dio è morto” dichiarano i marxisti radicali, e si accaniscono contro il culto degli antenati, il buddismo e Confucio; le scuole superiori e le università rimangono chiuse per anni, un deficit di istruzione che marchierà un’intera generazione di cinesi. Chiunque può essere sospettato di pratica controrivoluzionaria, o anche solo di reati di pensiero. È vero che i “16 punti” interdicono la violenza a favore della “lotta verbale”, ma nella pratica la polizia riceve l’ordine di non contrastare le Guardie rosse nemmeno in caso di decesso dei perseguitati (Máo, 22 agosto 1966). La coscienza dei quadri si ribella, in qualche caso l’ordine viene ristabilito con la forza: a Qīnghăi almeno 200 maoisti sono uccisi dall’esercito, e una folla di centomila persone distrugge la stazione radio delle Guardie rosse. Il bilancio dell’estate ’66 è tragico: centinaia di insegnanti, intellettuali e funzionari assassinati nel solo distretto di Pechino. La violenza della lotta per il potere si rivolge contro il Partito, a tutti i livelli: a gennaio ’67, Lín Biāo e Jiāng Qīng iniziano l’epurazione della dirigenza di Shànghǎi, precipitando la metropoli nel caos. Il malcontento serpeggia nell’esercito, i maoisti denunciano i generali sulla stampa nazionale. Dèng Xiǎopíng finisce in un campo di rieducazione, il vicepresidente Liú Shàoqí morirà in detenzione nel 1969. La presa di Jiāng Qīng si stringe sulle Guardie rosse, nel luglio ’67 incita i giovani fanatici a impadronirsi delle armi dell’esercito. La repressione si espande proporzionalmente al culto di Máo; probabilmente milioni di persone saranno perseguitate. negli anni Ottanta i tribunali stabiliscono in 729.511 il numero dei perseguitati, e in 34.800 le morti violente, ma è molto verosimile che le cifre siano in difetto. Come è accaduto negli anni Trenta nell’Urss di Stalin, del quale Máo è un fervente ammiratore, l’originaria struttura del PC viene distrutta e ricostruita con una nuova generazione che non ha partecipato alla rivoluzione.
L’azione delle Guardie rosse è guidata da una sistematica riduzione della teoria politica: il loro riferimento non sono i testi del marxismo-leninismo, ma il sottile Libretto Rosso di Máo (il cui ideatore è Lín Biāo), ulteriormente sintetizzato in slogan sempre più violenti: “Lunga vita al terrore rosso”, “Getta al suolo il nemico e schiaccialo sotto i piedi”, “Faremo a pezzi il cranio dei cani che sono contro il Presidente Máo”. Niente contraddittorio, nessun esercizio retorico. Distruggere la cultura, la tradizione e le vecchie idee significa spesso accanirsi contro l’immenso, millenario patrimonio artistico della civiltà più longeva del pianeta. I templi vengono saccheggiati e demoliti pietra su pietra, i reperti archeologici disprezzati e distrutti. La linea ufficiale del Partito non avalla mai questa sistematica distruzione, anzi il premier Zhōu Ēnlái invia l’esercito a difendere la Città proibita; un documento del Comitato centrale datato 14 maggio 1967 si intitola “Suggerimenti per la protezione di libri e reliquie durante la Rivoluzione culturale”. È un dato di fatto, per esempio, che una delle maggiori scoperte archeologiche mondiali del secolo avviene qui e in questo periodo: il rinvenimento dell’Esercito di terracotta dell’imperatore Qín Shǐ Huángdì nella città di Xī’ān.
La Rivoluzione culturale crea un vero e proprio vuoto di potere: le autorità sono impotenti di fronte alla violenza, le opposte fazioni di Guardie rosse si scontrano sanguinosamente. Máo prende provvedimenti. Il 27 luglio 1968 cessa ufficialmente il potere delle Guardie rosse sull’Esercito. Lín Biāo diventa vicepresidente del partito e successore designato di Máo. Ha inizio una nuova fase della rivoluzione, il “Ritorno alle campagne”. Oltre a quadri comunisti e intellettuali, almeno 4 milioni di studenti vengono smobilitati e inviati a rieducarsi a contatto con i contadini. Il nono congresso del Partito nel 1969 vede una dirigenza completamente rinnovata: l’élite che ha fatto la rivoluzione con Máo è spazzata via; i delegati sono addirittura scelti da Comitati rivoluzionari anziché dagli iscritti. La lotta per il potere è ora tra la leadership militare di Lín Biāo e quella politica di Jiāng Qīng; sotto l’influenza della moglie, Máo comincia a dubitare della lealtà di Lín, e preme per ottenere un’autocritica dai generali.
Lín Biāo sente franare il terreno sotto i piedi; suo figlio prepara un colpo di stato militare, denominato “Schema per il progetto n. 571”, che prevede l’assassinio di Máo a Shànghǎi e bombardamenti aerei mirati. Il controspionaggio entra in azione, la ferrovia su cui il presidente sta viaggiando viene presidiata da militari dislocati ogni 20 metri. Il 13 settembre 1971 un aereo che trasporta Lín Biāo, il figlio e vari collaboratori precipita in Mongolia, non ci sono superstiti: probabilmente il vicepresidente tentava la fuga in Unione Sovietica subodorando un’imminente caduta in disgrazia. I suoi seguaci finiscono epurati in una purga gigantesca, ma si riapre la questione della successione di Máo, anziano e malato. Jiāng Qīng e la cosiddetta “Banda dei Quattro”, i suoi seguaci radicali, si rivolgono contro l’unico che ormai possa contrastarli: il vecchio comunista Zhōu Ēnlái, molto amato dalla popolazione, che in privato non esita a criticare la Rivoluzione culturale.
A inizio anni Settanta la Cina è stremata dal disordine provocato dalle Guardie rosse e dai radicali, l’economia è in ginocchio. Preoccupato dalla situazione, a fine ’74 Máo richiama al vertice Dèng Xiǎopíng, l’unico vero economista nella nomenklatura. Il braccio di ferro prosegue fra i media e l’apparato di propaganda, dominati dalla Banda dei Quattro, e gli organi di governo diretti da Zhōu e Dèng. Máo esita a schierarsi fino all’anno seguente, quando costringe Dèng a scrivere un’autocritica in quanto “estremista destrorso”.
L’8 gennaio 1976 Zhōu muore per un cancro alla vescica, Máo non partecipa alle esequie. Le speranze di un cambiamento si condensano su Dèng Xiǎopíng. In aprile la folla in Tiānānmén tenta di celebrare Zhōu ; la polizia carica per disperderli, ma quasi centomila persone esasperate fanno irruzione negli edifici governativi. Incidenti simili si estendono a tutte le grandi città del paese. La Banda dei Quattro addita come ispiratore dei disordini Dèng, che viene radiato da tutte le cariche di Partito. Ma il 9 settembre 1976 Máo Zédōng muore all’età di 83 anni. Pochi giorni dopo, il 10 ottobre, l’Unità speciale 8341 dell’Esercito popolare di liberazione arresta la vedova Jiāng Qīng e tutta la Banda dei Quattro. Pochi mesi dopo, di fronte alla crisi economica e alla disorganizzazione politica, Dèng Xiǎopíng viene richiamato a Pechino.
È la fine della Rivoluzione culturale; nel 1980 cominciano le riabilitazioni ufficiali dei comunisti perseguitati durante i torbidi. Malgrado ciò, non si sono ancora fatti completamente i conti con un decennio che ha sconvolto la vita di milioni di cinesi. Per dieci anni, dal ’66 al ’76, il sistema scolastico e universitario è virtualmente collassato in Cina; un’intera generazione è vittima di una disastrosa lacuna di istruzione, oltre a uno sradicamento dovuto agli anni di rieducazione nelle campagne. Il danno umano è incalcolabile: molti degli intellettuali inviati nei campi di lavoro lasciano il paese dopo la morte di Máo. Non esiste un resoconto esaustivo delle violenze, particolarmente raccapriccianti in zone remote (nella provincia meridionale di Guǎngxī si registrarono episodi di cannibalismo, in Tibet tutti i monasteri furono rasi al suolo, soprattutto dalle Guardie rosse di etnia tibetana). Eppure si sono fatti passi avanti nella ricerca storica e nella giustizia politica: nell’era Dèng molti maoisti coinvolti nelle violenze sono stati condannati al carcere, e la de-maoizzazione ideologica della Cina è iniziata subito dopo la morte del Grade Timoniere: nel 1981 il comitato centrale del PCC ha stabilito che “la responsabilità principale del completo e prolungato errore della Rivoluzione culturale è da addebitare al compagno Máo Zédōng.”
Gli “anni irrazionali” della Cina sono oggi testimoniati dalle straordinarie immagini in bianco e nero della fotografa Xiăo Zhuāng (un esempio in questo articolo).