di Danilo Arona
“Ero in Francia con un amico” racconta il celebre scrittore Ian McEwan a proposito del suo libro Cani neri e dell’evento reale che gli ha ispirato titolo e trama. “Da cinque giorni camminavo per la campagna. Stavamo percorrendo un sentiero veramente desolato, il villaggio più vicino era a venti chilometri, e all’improvviso ci siamo trovati davanti due enormi cani neri. Non c’era anima viva attorno a noi, né case né strade, nessun contesto a cui quei cani neri potessero appartenere. Non ci attaccarono, stavano lì e basta, giganteschi e inspiegabili”. McEwan e l’amico, quel John Cook a cui è dedicato il libro, pietre alla mano, fecero un giro molto largo per evitare quei cani enormi, ma quelli, così com’erano apparsi, di colpo sparirono.
Se nel bellissimo libro di McEwan le due bestie (“cani per modo di dire, perché le loro dimensioni li facevano apparire come mostri mitologici, e il loro essere insieme e senza padrone fece venire in mente a June l’ipotesi di un’apparizione”) rappresentano un’allegoria dello spirito, è invece molto probabile che l’avvistamento di cui sono stati protagonisti McEwan e Cook rientri in quello strano, misconosciuto (ma comunque corposo) repertorio delle apparizioni dei cosiddetti “black dogs”, uno dei tanti misteri a mezza strada fra il paranormale e il folclore che si ambientano soprattutto in Francia, Belgio, Inghilterra, e in tono minore anche nelle campagne italiane.
L’immaginario collettivo dei contadini inglesi è ad esempio così fortemente segnato da queste presenze che non esisterebbero molti dubbi a liquidare il tutto come una delle molte leggende in cui l’animale è visto come minaccia e allegoria della medesima.
E Simone Lega, nel delineare l’origine mitologica del libro La corsa selvatica di Riccardo Coltri (Edizioni XII), scrive che il mito dei “black dogs” proviene dalla demonizzazione dell’antica “caccia fatata” trasformatasi nel corso dei secoli in leggenda oscura: “per degradarla e renderla più spaventosa, la narrazione viene corrotta da una forma solo animalesca, così che non risulta più composta da guerrieri ed eroi, ma da bestie, perlopiù nere e che corrono nel buio, a volte guidate da un demone… Una delle testimonianze più antiche della caccia indemoniata risale al 856 d. C., in Prussia, nella chiesa di Trier, dal cui pavimento emerse un grosso cane nero con gli occhi fiammeggianti, che corse avanti e indietro vicino all’altare. Si parla dell’avvenimento negli Annales francorum regum. Le apparizioni in epoca medievale, a volte violente, ma il più delle volte solo terrificanti o che addirittura portavano sfortuna, spesso si sono verificate all’interno di chiese, nei pressi di terreni sacri oppure in luoghi dove in passato erano avvenuti omicidi o suicidi. Secondo la tradizione, per liberarsi dai cani infernali spesso bastava inginocchiarsi e pregare. Apparizioni di cani di colore nero e con occhi rossi come fuoco si sono verificate nel corso dei secoli anche in Francia, Germania, Austria, Polonia, Stati Uniti, Canada, Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda (solo nelle isole britanniche esistono almeno duecento storie), Scandinavia, Croazia e in altri luoghi.”
Così Lega. Ma le apparizioni che si continuano a segnalare un po’ dovunque pongono alcuni ovvi interrogativi, che si dibattono fra la considerazione che i “black dogs” altro non siano che animali abbandonati e poi inselvatichiti, descritti come giganteschi e diabolici soltanto a causa dello spavento e della suggestione dei testimoni, e il sospetto che le soluzioni del mistero stiano altrove.
Ovunque siano apparsi, tanto nel Medio Evo, quanto ai giorni nostri (e spesso in coppia proprio come raccontato da McEwan), i “black dogs” hanno sempre manifestato caratteristiche quasi soprannaturali e certamente feroci. In ogni descrizione vengono presentati come esseri più grandi dei somari o dei vitelli, con pelame nerissimo e occhi rossastri come tizzoni ardenti, i corpi circondati da una strana luce a volte multicolore oppure monocromatica, e spesso con tracce di fiamme nelle immediate vicinanze in cui compaiono. Come già sottolineato da Coltri, sopratutto salla Cornovaglia alla Scozia, i “black dogs” sono così radicati nella cultura popolare da essere conosciuti con una miriade di nomi diversi: “Shuck” o “Black Shuck” nel Norfolk, “Mauthe Doog” nell’isola di Man, “Padfoot” nello Staffordshire, “Cappel” nel Westmoreland, “Shag Dog” nel Leicestershire, e ancora “Hooter” nel Warwickshire. Senza dimenticare “Gally-Trot”, “Guytrash” , “Striker” nell’isola anglo-normanna di Jersey. I più recenti avvistamenti, risalenti agli anni Novanta, segnalano irruzioni di cani neri all’interno di fattorie isolate con la misteriosa distruzione di ogni apparecchiatura elettrica e in qualche caso con la morte violenta dei fattori; apparizioni di bestie circondate da luci spettrali che si volatilizzano letteralmente sotto gli occhi dei testimoni; resoconti terrificanti del cosiddetto splashing sound, il suono liquido — come di “stracci bagnati” — delle loro enormi zampe.
Anche l’Italia del nord non si sottrae alla mitologia del cane nero. Le non poche testimonianze sono ampiamente concordi con i resoconti anglosassoni. A Mombercelli, tra Asti e Alessandria, alla fine degli anni Quaranta si raccontava ad esempio di un enorme canide nero che si aggirava nei boschi, avvolto da una strana luce, quasi fosse fosforescente, e che si riteneva responsabile di numerose mattanze avvenute in stalle e pollai. Così ne riporta Renzo Rossotti nel suo libro Occhio magico: “Gli occhi rosseggianti, i denti pronti all’assalto, la bestia rammenta nelle descrizioni che ne fanno i vecchi di Mombercelli, il famoso mastino dei Baskerville, di cui scrive Conan Doyle. Di quell’animale si sa poco, ma a Mombercelli vi fu chi munì il proprio cane di un collare di aculei, perché fosse protetto in ogni evenienza e in grado di contrattaccare la bestia diabolica. Una notte fu organizzata una battuta per catturare la belva fosforescente, ma i cacciatori tornarono a casa delusi. L’ultima volta che le bestia fu vista, secondo alcuni, è nell’autunno del 1949. Fu la visione di un istante, poi disparve lasciando nell’aria un penetrante odore di zolfo”. Classica narrazione folclorica simboleggiante la più antica delle paure dell’umanità, quella nei confronti del demonio, ben radicata ancora oggi in certe zone della campagna piemontese.
Però, negli anni Ottanta (ne riferisce Matilde Izzia di Ricaldone nel libro Tutto può essere), vicino a una casa posta nella campagna astigiana a pochi chilometri dalla città, si verificò l’apparizione di un gigantesco cane nero anche questa volta scomparso, volatilizzato, sotto gli occhi dell’attonito testimone, un evento che finì su parecchi giornali locali. Uno degli ultimi avvistamenti si è verificato nei pressi di un cimitero di campagna a pochi chilometri da Alessandria, ma nessuno vieta d’ipotizzare che le numerose segnalazioni a proposito di pantere nere, o “qualcosa di simile”, che giungono saltuariamente da varie zone d’Italia non possano rientrare in questa casistica.
Ancora Lega segnala che in Veneto, nel bellunese, il branco di cani neri infernali era chiamato proprio la Catha Selvarega (la caccia selvatica). Con un nome simile era conosciuta anche in alcuni luoghi della Lombardia. E ancora ricorda inoltre i Canett, i Cagnolini di Altrech, il Corteo della Berta (da Perchta, strega dei miti alpini pre-cristiani), i Cagnolitt, i Baièti, la Caccia Morta, la Caccia del Diavolo e altre leggende.
Sono state formulate numerose ipotesi sui “black dogs”. Chi li ritiene un fenomeno d’infestazione (in pratica una genia molto particolare di fantasma), chi una specie canina molto antica in grado di vivere autonomamente, e chi afferma che sono i “bargeist”, i guardiani dei “corpi morti” altrimenti detti “spiriti dei funerali”. Ma, al di là d’ipotesi più o meno fantasiose e comunque interessanti, pare accertato che i “black dogs” compaiano quasi sempre in località ben specifiche: cioè nei paraggi di cimiteri, chiese, ponti e comunque quasi sempre vicino a corsi d’acqua. Così qualche studioso ha così proposto l’interessante quanto surreale (ma non priva di senso) tesi della presenza dei cani neri lungo le cosiddette “linee sincroniche” della terra, conduttrici di energia magnetica, anche conosciute come leys.
Tutto può essere, appunto. Però di certo nelle campagne piemontesi e purtoppo un po’ dovunque nella civile nazione, molti cani abbandonati o fuggiti di casa non di rado fanno branco. Spesso sono neri, incroci meticci, alti e muscolosi. E la suggestione può fare il resto. Avvistati di notte, magari più di uno, a qualcuno non particolarmente amante della specie canina potrebbero suggerire immagini infernali o, comunque, da tenere alla larga.
Ma sull’argomento arrivano anche testimonianze sconcertanti che si fanno fatica a catalogare in un repertorio di pseudo-normalità. La signora F.B., che abita con il nipote sulle colline dell’Ovadese, mi ha riferito tempo fa che il suo vecchio setter, nero naturalmente, di quasi tredici anni era fuggito da casa per le solite scappatelle con l’altra metà del cielo canino e non aveva purtroppo più fatto ritorno alla magione. Trascorso più di un anno dalla scomparsa dell’amico fidato e messa una pietra sopra al non poco dolore che causano questo genere di perdite, una notte la signora veniva svegliata da un inconsueto, rabbioso e parimenti familiare latrare di un cane a pochi metri dalla casa. Non c’è retorica o diceria che si possa addurre in queste circostanze: chi ha vissuto con un cane per molti anni ne riconosce la voce al volo, non ci sono dubbi. Così F.B. si alza e, un po’ lentamente visto che è prossima ai settant’anni, va ad aprire la porta, accendendo le luci che danno sul giardino circostante. Le sembra di scorgere qualcosa nel buio adiacente il muretto e allora chiama “colui che sta abbaiando” con il suo nome. Lo sconcerto la invade quando, in risposta ai suoi richiami, ode un uggiolio quasi di dolore che non ha difficoltà a identificare. E’ proprio lui, ma perché allora non viene? Non ci sarà mai risposta. Il latrare dopo alcuni secondi viene meno, quasi come una radio di cui progressivamente si abbassa il volume. Poi più niente. Lei per un po’ lo chiama e quindi, perplessa e dispiaciuta, torna a dormire. L’indomani mattina le telefona un funzionario di una vicina zona protetta, ente regionale sulle rive dell’Orba in cui, nell’inconsapevolezza pressoché totale del circondario abitato, vivono daini e caprioli. Il tipo la conosce ed è al corrente della storia del cane scomparso. E le racconta che il giorno prima ha avvistato nella garzaia un grosso cane nero inselvatichito, forse proprio il suo, e ha dovuto sparargli. Erano le otto di sera. Solo a mezzanotte ne hanno trovato il corpo, ancora caldo. Il cane era spirato da poco, all’incirca nel momento in cui F.B. veniva svegliata dall’abbaiare di un vecchio amico.