di Lara Manni
Quattro volte l’anno, “nelle quattro tempora”, armati di mazze di finocchio, i benandanti combattevano contro streghe e stregoni che brandivano canne di sorgo. Lottavano con lo spirito, perché il corpo veniva lasciato indietro come un sacco vuoto (“invisibilmente con lo spirito et resta il corpo”) e dalla vittoria dell’una o l’altra fazione dipendeva la fertilità della terra o la carestia. Questo era l’unico scopo dei benandanti: “Noi non andiamo a far altro se non a combater… Quando il racolto vien buono… quell’anno è che li benandanti habbian vinto; ma quando li stregoni vincono il raccolto va male”. Per entrare nell’esercito del Bene occorreva nascere con la camicia, e serbare un frammento del sacco amniotico appeso al collo. Senza mai smarrirlo, pena la perdita di ogni potere: niente più battaglie, e niente più processione dei morti (perché i benandanti potevano vederla, e a volte guidarla, e altrove quella sfilata si chiamava caccia selvaggia, o cavalcata dei morti, come ben sa Fred Vargas). E’ avvenuto davvero in anni lontanissimi, è venuto alla luce quando i benandanti friulani vennero inquisiti come eretici, è stato reso noto, infine, grazie al racconto fatto da Carlo Ginzburg in due testi straordinari pubblicati presso Einaudi, “I Benandanti, stregoneria e culti agrari tra Cinquecento e Seicento” e “Storia Notturna. Una decifrazione del Sabba”.
Faccenda per studiosi? Non solo. Perché in almeno due casi (i più noti) i benandanti sono entrati nella narrativa fantastica: nella trilogia di Chiara Palazzolo (“Non mi uccidere”, “Strappami il cuore”, “Ti porterò nel sangue”, tutti pubblicati da Piemme) e, recentemente, in un romanzo che intreccia genere e mainstream, “Strega d’aprile” della svedese Majgull Axelsson, uscito presso Elliot. Per entrambi, Ginzburg è il punto di partenza. In entrambi, Bene e Male non sono distribuiti fra le due schiere (i vivi e i morti), ma sfumano all’interno delle medesime: a dimostrazione che questo è il vero fulcro del racconto fantastico, a dispetto di ogni dissertazione di tipo tecnico e delle fittizie separazioni fra genere e literary fiction che vengono proposte sia in sede critica sia da molti lettori.
La trilogia di Chiara Palazzolo, pubblicata fra il 2005 e il 2007, contrappone sopramorti (persone scomparse anzitempo e tornate dalla morte stessa) ai benandanti, organizzati in una struttura quasi militare. Il capo dei sopramorti, Gottfried, li definisce “i miliziani della paura”: sono coloro che si votano alla distruzione delle anomalie, perché dalla morte non si deve tornare. Palazzolo mi racconta di essersi imbattuta nei benandanti leggendo “Storia notturna”, “un testo — dice – che considero un vero e proprio vaso di Pandora per chiunque voglia scrivere di fantastico. I benandanti in particolare mi avevano così colpita che ho letto in seguito la bellissima monografia che ha loro dedicato Ginzburg. E quando si è trattato di trovare degli antagonisti ai sopramorti, non c’è stato nemmeno l’imbarazzo della scelta: erano proprio i benandanti, i cacciatori di streghe, stregoni e di anime cattive dei morti”.
In questo caso, lo spunto viene, come detto, rielaborato: “Sulla base della documentazione e delle notizie storiche — racconta Chiara Palazzolo – ho ovviamente operato una mutazione letteraria, trasformando i benandanti in una setta che ancora oggi dà la caccia ai sopramorti: un gruppo che ha al suo vertice l’élite dei “battitori”, fisicamente potenti e dotati di capacità telepatiche. Queste capacità, in particolare, costituiscono un sorta di “residuo antropologico” delle capacità soprannaturali dei benandanti tradizionali. Intrecciando verità storica e finzione letteraria, ho anche motivato la trasformazione dei “nuovi” benandanti proprio a partire da quelli “storici”. Ho tessuto cioè una rete di filiazione spuria e rimandi storiografici del tutto immaginaria ma verosimile, che ha il suo cuore nel personaggio della sopramorta Vanna, una contadina friulana vissuta ai primi del Seicento e morta di parto, il cui marito è un benandante”.
Majgull Axelsson, invece, aderisce in pieno a Ginzburg: la “strega d’aprile” è Desirée, una donna nata con handicap gravissimi e per questo, nella Svezia perbenista del dopoguerra, abbandonata subito dopo il parto, cresciuta nei letti d’ospedale e dotata di un’intelligenza feroce che la porta a completare gli studi senza però avere la ventura di diventare un genio come Stephen Hawking. Ma Desirée, esattamente come i benandanti, può abbandonare il proprio corpo ed entrare con lo spirito in quello di un piccolo animale (o, in un caso, di un essere umano) per andare in cerca delle proprie sorellastre. Perché la donna che l’ha abbandonata ha cercato di compensare la separazione accogliendo bambine a loro volta rifiutate, o maltrattate da madri alcoliste e psicotiche: Margareta, Christina e Birgitta sono, per Desirée, ladre di vita, coloro che le hanno sottratto l’affetto e il sostegno di cui avrebbe avuto bisogno. Eppure, nel momento in cui la strega d’aprile va a cercarle, trova tre donne intorno ai cinquant’anni, come lei, e come lei deluse e sconfitte dalla vita. Con una differenza non secondaria. Desirée è l’unica ad avere fra le mani “una sfera d’oro”: l’amore che per tutta la vita ha alimentato per il medico Hubertsson, che le rimane accanto fino all’ultimo respiro nella stessa notte in cui i benandanti sfilano con la processione dei morti. Perché, anche in questo caso, la questione del Male (quello compiuto dalla madre di Desirée, quello che Desirée stessa vorrebbe infliggere alle sorellastre, quello perpetrato dallo stato svedese — molto più spaventevole qui che nell’intera trilogia di Millennium) è centrale.
Porsi la questione del Male significa, per il fantastico, evitare quelle distinzioni manichee che portano a stereotiparlo: in nessuna grande narrazione fantastica il Male viene separato completamente dal Bene, ma convive all’interno dello stesso individuo. A fare la differenza, ogni volta, è la scelta. La scelta di uno dei benandanti della Palazzolo di tradire la propria missione per amare una sopramorta. La scelta di Desirée di rinunciare a ogni vendetta e alle ultime risorse fisiche che le rimangono, per seguire Hubertsson. “Noi con le mazza di finocchio et loro con le canne di sorgo”. Ma entrambi, benandanti e streghe, perseguivano la stessa eresia.