di Valerio Evangelisti

Mafioso.jpg[Questo racconto è apparso, in forma leggermente diversa, nell’antologia Anteprima nazionale. Nove visioni del nostro futuro invisibile, a cura di Giorgio Vasta (Minimum Fax, 2009, pp. 226, € 15,00). Non credo che sia ancora del tutto attuale, l’avvenire sarà più problematico di quello prospettato – che pure coglie, forse, una parte della realtà.]

Don Urbano Crollalanza, presidente della Camera, si rivolse ai parlamentari col suo accento strascicato, dalle vocali aperte e dalla “s” pronunciata come “sc”. «State calmi, colleghi. Serve unità, specie in questo momento. La gente è con noi, vuole riforme. Non è il momento di litigare.»
Applaudì solo il suo partito, Cosa Nostra. Dai banchi della Ndrangheta continuavano a levarsi insulti contro la Camorra. La Sacra Corona Unita si manteneva neutrale. Il gruppo parlamentare più piccolo, la Stidda, evitava di prendere posizione. Aspettava di vedere chi avrebbe vinto la contesa.
Si discuteva di federalismo. Cosa Nostra era l’unico partito centralizzato, con una Cupola che governava con mano ferrea le famiglie affiliate. Gli altri gruppi erano piuttosto federazioni con una personalità autorevole alla testa, capaci di governare in sede locale. Ora pretendevano di imporre il loro schema organizzativo all’Italia intera. Don Crollalanza non l’avrebbe mai permesso.


«Onorevoli colleghi!» gridò, agitando il campanellino. Attese che fosse tornato un attimo di calma e proseguì: «Il nostro paese non è mai andato così bene. L’economia tira, il PIL è alle stelle, la pace sociale è garantita per decenni. L’Unione Europea ci ha accolti come fratelli. Perché non riusciamo a trovare un accordo?»
Sudava. Vito Pizzuto, il suo capobastone, tolse di tasca il fazzolettino e gli terse le goccioline dalla fronte. «Calmatevi, don Urbano» gli sussurrò. Parlare dando del “voi” era obbligatorio ormai da tre anni. «Vedrete, si arriverà a un compromesso. Bisogna solo rendere chiaro che Cosa Nostra è il partito più forte. Le risse tra Ndrangheta e Camorra finiranno per placarsi, se c’è un padrone.»
Crollalanza si lasciò asciugare, ma sbuffò: «Padrone di cosa? La Ndrangheta è più ricca di me. La Camorra dice che io sono un contadino, indegno della carica. Che vivo tra pecore e maiali.»
«Lasciateli cianciare, don Urbano. Quelli hanno il sangue caldo. Solo chi agisce quietamente, in silenzio, ha in mano il futuro, e il consenso degli elettori.»
«Il consenso? Che minchia me ne fotte del consenso?»
«Dovrebbe interessarvi, invece.» Vito trasse di tasca un foglietto. «Le ultime statistiche dicono che il governo ha l’appoggio di quasi il 70% degli italiani. L’opposizione, la Stidda, è al lumicino e tra breve non riuscirà nemmeno a superare la soglia di sbarramento. Cosa Nostra, nella maggioranza, rimane di gran lunga il partito più forte.»
«Sì, ma per quanto tempo, se quei figli di puttana di calabresi e di napoletani litigano tutto il tempo e cercano di fregarci la poltrona?»
Vito strizzò l’occhio. «Lasciate che si azzannino, don Urbano. La storia ci dice che, alla fin fine, sono sempre i siciliani a prevalere. Perché si agitano poco e lavorano molto.»

Quel pomeriggio Vito Pizzuto partecipò a una trasmissione televisiva sulla nascita della Terza Repubblica. «E’ merito di Cosa Nostra» disse Vito in una fase calda del dibattito «se oggi ogni italiano paga il proprio tributo allo Stato. Il pizzo lo abbiamo inventato noi.»
«Balle» replicò furioso Michele Capuozzo, che pure apparteneva alla compagine governativa. In rappresentanza della Camorra era stato anche ministro all’edilizia, prima dell’ultimo rimpasto. «Il pizzo era in vigore a Napoli quando ancora non era nato il padre di tuo padre di tuo padre. E certo prima che fosse nata quella gran mignotta di tua madre.»
Vito scattò. «Bada, cornuto, che di qui a qualche giorno potrei venire al tuo funerale, e pisciare sulla tua bara!»
«Non credere di intimidirmi, guaglio’!» Capuozzo si lisciò la cravatta. «Ti posso scannare come tu scanni le pecore tra cui campi, e che monti ogni notte.»
Dalla sua sedia a rotelle, il decrepito moderatore smise di sfregarsi le mani e di sorridere, come faceva per abitudine ormai da quarant’anni. «Onorevoli! Vi prego di contenervi! La Seconda Repubblica è tramontata, il linguaggio della ex Lega nessuno lo rimpiange.» Tirò su col naso. Ap-pena tornò una parvenza di calma proseguì: «Siete qua per esporre i vantaggi del nuovo sistema po-litico. Su un dato concordate, e concorda anche la Stidda. Il sistema del pizzo, chiunque lo abbia inventato, ha abolito la tirannia dell’imposizione diretta e la vergogna dell’evasione fiscale. Oggi pagano tutti, se hanno un’attività commerciale o industriale. Ci sono altri benefici, collegati al nuovo assetto politico?»
«Certo che ci sono!» rispose impetuosamente Vito Pizzuto, già immemore del battibecco con Capuozzo. Si erano incontrati, qualche anno prima, sull’Isola dei Famosi, e il rapporto era stato buono. L’Isola era una specie di passaggio obbligato per la politica. Chi vi partecipava favoriva l’immedesimazione del pubblico, e ciò significava voti. Prima “televoti”, poi voti “normali”. «Un tempo la casta dei sindacalisti poteva bloccare lavoro e produzione in tutta Italia, quando lo voleva. Oggi, con il passaggio alla contrattazione individuale e al sindacato unico e obbligatorio ciò non può più accadere.»
«E’ vero» assentì Capuozzo, rabbonito. «Il lavoratore ha un rappresentante naturale, che è il suo caporale. L’unico che può valutare il merito di chi assume, e dunque il solo in grado di stringere accordi nell’interesse di tutti. La Confederazione Generale dei Caporali ha fornito all’imprenditoria un interlocutore affidabile.»
Vito Pizzuto schioccò le labbra. «Il merito. E’ questo il segreto che ha reso la Terza Repubblica così prospera. Indietro non si può tornare. I facinorosi si rassegnino.»
«E si guardino attorno quando rientrano a casa» concluse Capuozzo con un sogghigno.
Il pubblico rise e applaudì. Il conduttore si sfregò le mani, nel gesto che gli aveva garantito decenni di popolarità.

Quando uscì in strada, l’euforia di Vito Pizzuto svanì. Era ormai sera, qualche luce si stava accendendo e illuminava i cumuli di rifiuti accatastati sul bordo dei marciapiedi. Torme di topi en-travano e uscivano dalle fognature, troppo interessati all’immondizia per curarsi di un umano di passaggio. Nell’aria gravava la consueta nube, caliginosa e puzzolente, prodotta dalle sostanze in-quinanti. Sembrava voler piovere. Pioveva ogni notte, e l’acqua oleosa, invece di lavare, imbrattava.
Il cruccio di Vito era di non essere ancora diventato, dopo decenni di diligente servizio, “don Vito”. L’incarico di capobastone era onorevole e ben pagato, e tuttavia corrispondeva a mansioni assortite, in una gamma che andava dal cameriere al sicario. Vito aveva contato su un rapido decesso dell’ormai decrepito don Crollalanza, il suo capo, per prenderne il posto. Godeva della simpatia esplicita del presidente del Consiglio, don Costantino Stuorto, camorrista ma gradito da tutte le mafie, e anche del presidente della Repubblica, Calogero Alfano, l’ultracentenario cieco e sordomuto che firmava ogni foglio gli venisse sottoposto. Ma Crollalanza non moriva, e la carriera di Vito non avanzava.
L’appuntamento che aveva in un bar di corso Buenos Aires, quasi all’angolo con via Vitruvio, era stato combinato nella speranza di aprire la strada ad altre forme di scalata al potere. Le arterie della capitale, in quel momento, erano poco frequentate. Miasmi malefici si levavano dai tombini e, trasportati da refoli di vento, si addossavano attorno al mastodontico edificio della vicina Stazione Centrale. Attorno ai tavolini rotondi, all’aperto, non sostava nessuno, a parte un tizio che portava occhiali scuri, malgrado fossero le 22 passate.
«Buonasera» disse Vito, mentre prendeva posto.
«Bacio le mani, onorevole» rispose l’altro. La frase era siciliana, però pronunciata con puro accento meneghino. Era da un pezzo che il partito della Ndrangheta aveva insediato a Milano le proprie sezioni, le Ndrine.
Per un poco i due si guardarono senza una parola. Per Vito c’era poco da vedere. Capelli tirati indietro, viso largo, basette folte, baffi tenuti sotto controllo. L’altro si era probabilmente aspettato un interlocutore meno convenzionale, senza piercing e tatuaggi. Il capobastone di don Crollalanza aveva di normale solo giacca, camicia e cravatta. Per il resto somigliava a un punkabbestia civilizzato, senza cani al seguito.
La pausa di silenzio fu interrotta dal cameriere, anziano e zoppicante. «Cosa porto a lorsigno-ri?»
«Negroni» disse l’uomo della Ndrangheta.
«Negroni sbagliato» gli fece eco Vito Pizzuto.
L’arrivo della più milanese delle bevande diede la stura ai discorsi.
Fu Vito a esordire. «Se non erro siete il capo della polizia, qui nella capitale.»
«Di più» rispose l’uomo dagli occhiali scuri. «Sono il prefetto. E’ una carica che spetta da sempre alla Ndrangheta.»
«Non contesto questo diritto. Il mio problema è un altro.» Vito offrì all’ospite una sigaretta e, al suo diniego, l’accese per sé. «Chissà quante indagini avrete in corso.»
«Pochissime, in realtà. La microcriminalità è quasi sparita. Stiamo anzi vendendo le carceri agli istituti per l’edilizia popolare. Che farcene di edifici mastodontici che ospitano cinque o sei de-tenuti?»
Vito spalancò gli occhi. «Perché, mettete ancora qualcuno in prigione? Pensavo che il colpo alla nuca o la gambizzazione avessero reso superflua quell’usanza barbara.»
«Imprigioniamo solo quelli che intendiamo torturare» replicò il prefetto con un’alzata di spalle. «Non possiamo farlo per strada.»
«L’Unione Europea potrebbe avere qualcosa da obiettare.»
«Oh, quelli! Gli Stati Uniti hanno torturato per anni, e la UE non ha mai avuto niente da dire. Figuriamoci se si interessano a quanto avviene in Italia.»
I due si fissarono, poi scoppiarono a ridere entrambi.
In quel momento era tornato l’anziano cameriere, carico di un vassoio. «Offre la ditta» disse. Mentre posava altri due Negroni sul tavolino, la giacca gli si sollevò e mostrò, infilata nella cintura, una Beretta calibro 9.
Vito sorrise. «Molti furti, da queste parti?»
Il cameriere ridacchiò. «Mica tanti, signore. Però, se capita un ladro, io sono pronto. Ne ho già ammazzati due. Punto al terzo, così avrò la medaglia del Municipio.»
«Un buon sistema per ripulire le strade, non è vero?» Vito strizzò un occhio.
«Non siamo mai stati così bene, signore. Mai avuto un governo tanto interessato al benessere dei cittadini.» Posato il cocktail, il cameriere si raddrizzò. Non se ne andò subito. «Posso farle una domanda, signore?»
«Farvi. Ora si dice “farvi”.»
«Oh, scusate. Mi chiedevo se voi non foste don Vito Pizzuto, quello dell’Isola dei Famosi.»
«Avete indovinato, amico mio. Però non chiamatemi “don”, non mi spetta.»
«E il signore che è con voi è il prefetto Ciccio Mangano, non è vero? Il nipote di…»
«Proprio lui.»
A quel punto il cameriere si inchinò. «Non abbiamo sbagliato, nell’offrirvi da bere. E’ un onore avervi qui, signori. Il proprietario di questo bar vota Camorra, ma io ho sempre votato Ndrangheta o Cosa Nostra. Non immaginate la mia gratitudine per tutto quello che…»
«Bravo» lo interruppe il prefetto, spazientito. «Di’ al tuo padrone che è un coglione, e adesso vedi di toglierti dalle scatole, se non vuoi che ti prenda a calci in culo.»
«Certo, signore! Subito, signore!»
Il cameriere corse verso l’ingresso del bar, felice come una pasqua.
Vito inghiottì un sorso e domandò: «Prefetto Mangano, torniamo alla questione iniziale. Le vostre indagini. Suppongo che qualcuna tocchi alti papaveri, non è vero?»
«Può darsi.» Mangano bevve a sua volta, e si asciugò baffi e labbra con un tovagliolino. «Nei limiti che ci consente la legge. Sapete come me che ci è proibito indagare su chi ci governa, dalle più alte cariche fino a Ndrine e cosche. Sono proibite anche le intercettazioni telefoniche.»
«D’accordo. Però scommetto che, in qualche indagine minore, avete trovato fili che arrivano in alto.»
Mangano sospirò e si tolse gli occhiali. Aveva pupille tanto azzurre da sembrare glauche. Contrastanti con le carnagione e il pelo scurissimi. «Forse.» Si sporse sul tavolino. «Onorevole, non mi prendete per fesso. Chi volete eliminare, e perché?»
Vito gettò lontano la prima sigaretta e ne accese una seconda. Si appoggiò allo schienale della poltroncina. «Don Urbano Crollalanza» mormorò.
Mangano annuì. «Ora ditemi il perché. Sinceramente. Spero abbiate buone ragioni.»
«Voglio prendere il suo posto. Presiedere la Camera.»
«La motivazione è ottima, ma la mia obiezione è naturale. Io quale vantaggio ne trarrei?»
«Don Urbano è di Cosa Nostra, il partito più importante.»
«Anche voi, onorevole, siete di Cosa Nostra.»
«Posso sempre uscirne, signor prefetto, e portarmi dietro un bel po’ di parlamentari. Sono in parecchi, tra i miei, a simpatizzare per la Ndrangheta. Tutti i milanesi, per esempio. Siete stati voi a fare di Milano la capitale.»
Mangano si ritrasse e giocherellò con il suo bicchiere. Fissò una prostituta di qualche contrada est-europea che, inerpicata su zoccoli di altezza assurda, passava sculettando. L’adescamento per strada era rigorosamente proibito, dato il fervore religioso della Terza Repubblica, ma non era vietato camminare con indifferenza, fino a trascinare un automobilista al proprio appartamento. L’importante era che ogni prostituta pagasse regolarmente il pappone designato dalla Regione. Anche su quel lato l’evasione era sconfitta.
Dopo una pausa interminabile, il prefetto disse: «Si può fare, onorevole, ma pretendo garanzie.»
«Le avrete.»
«Almeno metà del gruppo parlamentare di Cosa Nostra deve transitare nella Ndrangheta.»
Vito ebbe un attimo di perplessità. «Onestamente, tante adesioni non posso assicurarvele. So-no certo solo di un buon numero di passaggi da un partito all’altro da parte delle cosche del nord.»
Mangano aggrottò le sopracciglia, che aveva foltissime. «Sapete cosa rischiate, se il risultato non sarà pari alla promessa.»
«Lo so.»
«Allora diamoci la mano.»
I due si alzarono per una forte stretta. Le dita di entrambi erano grasse e sudaticce. Si fece sulla soglia il cameriere.
«Signori, il padrone vi offre anche i primi Negroni, oltre ai secondi. Non mi dovete niente.»
«La mancia sì.» Ciccio Mangano, indossati di nuovo gli occhiali scuri, mise sul tavolo una quantità di euro largamente superiore al prezzo delle consumazioni. «Ricordati però di dire al tuo capo che, se seguita a votare Camorra, non fa il suo interesse.»
«Già riferito, signore.»
Vito non udì la frase, perché Mangano lo aveva trascinato via, sottobraccio. Il prefetto gli bisbigliò all’orecchio: «Vi chiamerò io, appena avrò un piano.» Poi, a voce più alta: «Venite al bordello con me? Un posto regolare, a compartecipazione municipale.»
«Stasera non posso. Domattina devo alzarmi presto.»
«Allora buonanotte, onorevole. Dirò meglio: “don Vito”.»
«Buonanotte.»

Il mattino seguente, verso le otto, Vito Pizzuto accompagnava alle scuole elementari “Bernar-do Provenzano” le sue due bambine. Le salutò con un bacio e le lasciò sfarfallare verso gli altri alunni, poco distinguibili perché abbigliati tutti quanti in tutina viola, con nastrone blu che serrava un colletto bianco, ricamato. Gli scolari, visti assieme, somigliavano a un piccolo esercito.
La “Bernardo Provenzano” non godeva della stessa notorietà della “Totò Riina”, frequentata dalla danarosa élite meneghina, però era, per qualità di insegnamento, largamente superiore alla “Michele Greco” o alla “Joseph Bonanno / Joe Bananas”. Quei nomi, un tempo, erano stati tabù. Poi, via via che il popolo italiano votava parlamentari legati alla ex “malavita”, per via di comuni interessi egoistici, erano stati “sdoganati” (un neologismo alla moda). Si era infine compreso che “malavita” non era altro che una “vita” più libera, e meglio disciplinata negli aspetti esteriori. Accettato il postulato, non c’era stato più freno alle riabilitazioni.
La “Bernardo Provenzano” era stata la prima scuola ad adottare testi di storia dalle pagine completamente bianche. Il revisionismo della Seconda Repubblica aveva avuto gli effetti auspicati. Fascismo e antifascismo equiparati, ebrei e nazisti con lo stesso peso sulla bilancia, inquisitori ed ere-tici sul medesimo piano, giacobini e aristocratici caricati di identiche colpe, avevano fornito il risultato auspicato: +1-1=0. L’azzeramento della storia. La materia restava nei programmi scolastici, ma da studiare non c’era nulla. I libri in bianco avevano anticipato un trionfo scontato. Oltre l’esistente non c’era mai stato nulla, e nient’altro sarebbe apparso all’orizzonte in futuro.
«Che lezione avete avuto oggi?» aveva chiesto in macchina Vito a Concetta, la figlia maggiore. Otto anni, mentre Annunziata ne aveva sette.
«Educazione civica» aveva risposto Concetta. «La maestra ci ha parlato della Costituzione, ispirata dai comunisti.»
«Ci ha detto che sono tutte balle» aveva aggiunto Annunziata.
Vito aveva annuito. «E’ vero, ma chi se ne frega? Una Costituzione c’è, ma basta infischiarsene. Ve lo ha detto la maestra?»
«Sì, lo ha detto!» Concetta era tutta giuliva.
«E’ davvero una brava donna, e una brava insegnante.» Proseguì: «Vi avrà raccontato, spero, che siamo usciti dal fascismo grazie a Cosa Nostra, che ha facilitato lo sbarco degli alleati in Sicilia.»
«Certo» aveva risposto Annunziata.
«E che quella è stata l’unica, vera resistenza. I sedicenti partigiani erano canaglie e torturatori al servizio della Russia comunista. Fuggiti sui monti per sottrarsi ai doveri militari. Spesso ebrei al comando di contadini ignoranti.»
«Ha usato all’incirca le stesse parole.»
«Ottima maestra» ripeté Vito, curvo sul volante. Il traffico, a nord di Milano, era tumultuoso. Lo smog impediva di vedere bene.

La Mercedes di Vito fece un percorso complicato per evitare la larga favela denominata Legge 30, in cui abitavano i Precari, la casta più bassa della società. Gli unici insoddisfatti da un sistema che funzionava a meraviglia. Peraltro non erano abbandonati a se stessi. Bastava che si rivolgessero, con la dovuta umiltà, alla ndrina, alla cosca o alla famiglia giusta per ottenere un’elemosina o un lavoro temporaneo.
Il capobastone lasciò l’auto davanti al residence in cui abitava, presidiato da guardie armate, e si incamminò a piedi verso il Castello Sforzesco, attuale sede del parlamento. Dalla terrazza dell’abitazione fu salutato da una domestica di colore, slanciata e attraente, liberata a suon di euro da un CPT. Sua moglie era morta quattro anni prima, strangolata da lui. Il ripristino del delitto d’onore e la depenalizzazione dei crimini conseguenti rendevano obbligatoria l’assoluzione. In precedenza aveva ucciso altre due mogli (se ne ricordava appena), e la giustizia non lo aveva molestato.
Al Castello lasciò la solita mancia ai sorveglianti, che lo salutarono con la consueta deferenza. «Benvenuto, don Vito!»
Quel “don”, illegittimo, lo infastidì. Attraversò il cortile con la fronte aggrottata.
Milano stava dando il peggio di sé. Nuvoloni che correvano, un’alternanza di pioggia e di maltempo incombente, portatore di uragani. I soliti miasmi caliginosi sospesi fra terra e cielo. Quando Vito mise piede in aula, era un rappresentante della Stidda che stava parlando, in un dialet-to inteso da pochi. Vito catturò per un braccio un interprete e lo obbligò a tradurre.
«Amici» diceva Arcangelo Mancuso, che della Stidda era il leader indiscusso, «voi ci state portando alla rovina. Le tangenti sono ripartite in maniera iniqua, gli appalti vanno sempre e solo agli amici della maggioranza. Prendiamo la ricostruzione del ponte sullo stretto di Messina, che è già crollato due volte. Mio zio Luigi, che ha una ditta appaltatrice…»
Era tipico della Stidda, pensò Vito, partire dai grandi problemi per poi cadere in meschine beghe familiari. Non avevano nessuna strategia. Era l’unico elemento che distinguesse il piccolo partito dalla maggioranza, di cui condivideva in pieno i capisaldi ideologici.
Annoiato, Vito congedò l’interprete e raggiunse lo scranno accanto a quello di don Urbano. Il presidente della Camera dormiva, russando sonoramente. Davanti aveva un vassoio di cannoli. Il capobastone ne prese uno e lo masticò. Delizioso.
Lanciò un’occhiata al vecchio. Sarebbe mai riuscito a liberarsene? Aveva fiducia nel prefetto Mangano e nella Ndrangheta, però, quando Crollalanza dormiva così, suggeriva un’inquietante idea di immortalità.

La resa dei conti orchestrata da Mangano contro don Urbano giunse un mese dopo. A sorpresa l’attacco fu sferrato non dalla Ndrangheta, bensì dalla Camorra. La Commissione Rifiuti era, fin dall’inizio della Terza Repubblica, nelle mani dei camorristi, e produceva una relazione annuale cui nessuno faceva caso. Riguardava, di solito, la differenziazione dei detriti inquinanti dai liquami tos-sici: i primi utili per l’edilizia popolare, i secondi da disperdere nelle campagne attorno alle grandi città. C’erano annosi contrasti riguardanti la discarica di Pompei, dichiarata zona di rilevanza strategica e presidiata dall’esercito regolare e dalla milizia casalese. Però si trattava di un problema che non mobilitava capitali ingenti. L’interesse per la questione era scarsissimo.
Anche quell’anno la relazione del Commissario ai rifiuti, don Mimmo Zagaglia, iniziò in sor-dina, tra la noia generale. Poi, d’improvviso, ecco un passaggio che nessuno si attendeva di udire:
«…Ora prego qualcuno di svegliare don Urbano, che mi pare addormentato. E’ giunta alla Commissione copia di un’inchiesta partita da Milano, che a noi pare allarmante. Qualcuno sta met-tendo le mani sulla discarica di Pompei, e cerca di trasferirne i materiali nella Valle dei Templi di A-grigento, per terminare la costruzione dell’Hotel del Tempio e completare le colonne spezzate che ornano la hall. Io non oso avanzare sospetti, ma tutti sanno chi è il proprietario dell’Hotel. Michele Crollalanza, fratello di don Urbano.»
L’aula vociferò, tanto che il chiamato in causa si destò di soprassalto. «Che c’è? Cosa succe-de?» chiese smarrito.
Si trovò di fronte il dito puntato di Mimmo Zagaglia. «Bentornato tra noi, don Urbano!» disse il camorrista con ironia. «La vostra ostilità al federalismo è finalmente spiegata. Si rubano rifiuti altrui, si danneggiano altre famiglie, si toglie il pane a chi lavora per il bene del paese.» Agitò un fo-glio. «E’ vostra o non è vostra, don Urbano, la firma sotto questa ordinanza? Si intitola Trasferi-mento di liquami e immondizia varia da Pompei ad Agrigento
«Quale firma dici? Di che minchia parli?»
Vito capì che era il momento di agire. Afferrò il microfono. «Sì, posso confermarlo. La firma è la sua.»

Quando don Urbano Crollalanza, tradotto in carcere per essere interrogato, morì sotto le tortu-re, il presidente del Consiglio, don Costantino Stuorto, convocò Vito Pizzuto nell’ex Teatro della Scala, che gli serviva da ufficio. Stuorto si carezzava il ventre prominente, debordante dai pantaloni: segno certo che era di ottimo umore.
«Buon lavoro, onorevole Pizzuto» disse il presidente. «Grazie alle vostre rivelazioni abbiamo potuto salvare la discarica di Pompei e dare concretezza al progetto federalista, che qualcuno sabo-tava.»
«Vi sono grato per queste parole, don Costantino.»
«Era inevitabile che si aprisse una crisi istituzionale. Camorra contro Cosa Nostra. La spacca-tura di sempre. Per sanare il contrasto, la presidenza della Camera non può che andare alla Ndrangheta.»
Vito aveva aderito alla Ndrangheta ancor prima del decesso di don Urbano. Fu travolto dalla soddisfazione. «Grazie mille, presidente!»
«Di nulla. Per la carica ho pensato a un uomo equilibrato, stimato da tutti, di grande esperienza e di merito indiscutibile. L’ex prefetto di Milano, Ciccio Mangano. Ora “don” Ciccio. Che ne dite?»
Vito dovette deglutire ripetutamente. Non gli venivano le parole. Infine mormorò con voce impastata: «Ottima scelta.»
«Sì, è vero.» Costantino Stuorto si alzò. «E’ inutile che vi dica che sarete il suo capobastone. Lo servirete fedelmente come avete servito don Crollalanza, finché si è mantenuto onesto.»
«Non dubitate» bisbigliò Vito.
Mentre stringeva la mano del presidente, in cuor suo pensava che, per vendicare quell’umiliazione, aveva un solo modo. Passare all’opposizione. Alla Stidda.

Fu una scelta felice. Meno di un mese dopo, Ciccio Mangano cadeva ucciso da una ventina di proiettili. Il successore era uno solo. Costantino Stuorto lo celebrò alzandogli il braccio, davanti alle Camere riunite.
«Ecco a voi il nuovo capo del Parlamento. Don Vito Pizzuto, un uomo che tutti conosciamo. Le elezioni hanno visto trionfare un partito giovane e dinamico, la Stidda. Ed è un presidente giova-ne che noi avremo. E’ un paese intero che lo reclama.» Stuorto si asciugò una lacrima. «A lui la parola.»
Grondarono gli applausi. Dalle finestre spalancate giungevano gli urrà della Stidda, che aveva mobilitato, volenti o nolenti, masse di milanesi.
Vito si asciugò il sudore, deglutì e disse: «Onorevoli colleghi, non sono qui per rappresentare una sola tendenza. Il nostro paese richiede unità. Abbiamo tanti problemi, dalla mafia russa, che preme alle frontiere, alle Triadi cinesi. C’è inoltre chi ci critica chiamandoci criminali. Semmai siamo solo, un poco, disinvolti. Dove sta il problema? La gente è con noi, la Chiesa è con noi. Abbiamo occupato un voto alla volta l’intero sistema delle istituzioni. I sondaggi sono a nostro favore. Cosa aspettiamo per unirci? Mafia, Camorra, Ndrangheta, Sacra Corona Unita, Stidda non sono la ver-gogna d’Italia. Sono l’Italia!»
Gli applausi, fragorosi, coprirono il clamore delle manifestazioni di piazza. Fuori, esprimevano il consenso a decine di migliaia. Nessuno notò l’uomo che scivolava sotto l’auto di don Vito per incollare alle balestre una carica di esplosivo. Erano previsti fuochi artificiali. Lo scoppio si sarebbe confuso nello spettacolo.