di Luca Baiada (Da Il Ponte, LXVIII n.1, gennaio 2011)
[Ringraziamo Il Ponte per la gentile concessione.]
È presto per dire se il modello berlusconiano sia davvero tramontato, se si tratti di una scossa, di un’eclissi momentanea, di una metamorfosi. E speriamo che per altri aspetti, non sia invece troppo tardi.
Caduta la prima fila, arrivano i tecnici? In realtà, quasi tutti i componenti del governo Monti sono cresciuti e si sono arricchiti con la protezione politica. Economisti dai mille incarichi, uno più redditizio dell’altro, avvocati da sempre al servizio della classe dirigente, in modo assolutamente trasversale a gruppi e schieramenti, consulenti generosi di consigli a chi sino a ieri comandava di fronte e adesso comanda di profilo o si è messo da parte in attesa di mettersi di traverso. Robusta è la presenza del potere papale, in tutte le sue articolazioni intellettuali, amministrative e gestionali. Si notano persino alacri presenze dell’Università cattolica e della Comunità di sant’Egidio. Alla Cattolica la cultura, mentre il fondatore di una struttura che svolge funzioni di diplomazia parallela, con serie implicazioni geopolitiche, dovrebbe garantire qualcosa sulla bontà, con la benedizione di qualche cuoricino.
La presenza di banchieri è determinante. È possibile che Mario Monti e Corrado Passera occupino quattro posti governativi? No, è peggio, ne hanno cinque. Monti è presidente del consiglio e ministro ad interim dell’economia. Passera è ministro dello sviluppo e ad interim di infrastrutture e trasporti. Ma quest’ultimo ministero deriva dall’accorpamento di due funzioni diverse. L’esito istituzionale e politico è un groviglio preoccupante e centrale nella cifra di tutto il gabinetto. Nell’Italia democristiana si paragonava un grosso affarista a una divinità indiana dalle tante braccia. Non si poteva immaginare che due banchieri avessero cinque fondoschiena: forse anche gli dei perdono il bon ton.
Di più, l’insistenza degli interim ricorda le pagine più orrende della politica italiana, compresi certi governi Mussolini, oltre che il lungo interim di Berlusconi allo sviluppo economico dopo le dimissioni di Scajola. Certo, oggi si tratta di scelte condizionate anche dalla presenza di veti incrociati, che però tradiscono l’angustia di tutta l’operazione. E soprattutto tenere insieme sviluppo, infrastrutture e trasporti esprime una scelta di campo rigidamente ideologica, politica e davvero vivace come il museo delle cere: l’uso delle opere pubbliche come scelta di rilancio economico. A unire lo sviluppo alla cultura non si è pensato, e del resto se il modello fosse stato affidato all’Università cattolica, non ci sarebbe stato da fidarsene.
Questo aspetto coinvolge uno dei problemi più profondi dell’Italia contemporanea. Il papa Ratzinger ha denunciato esplicitamente la pericolosità della classe media borghese, in quanto portatrice di orientamenti materialisti, relativisti, edonisti. Più chiaro di così. Certo, fa effetto sentire il papa, al vertice di una delle organizzazioni più ricche del mondo, alzare la voce contro il materialismo, e quanto all’edonismo, il suo ingresso nel discorso come categoria politica risale all’arrivo di Reagan alla presidenza Usa: il cosiddetto edonismo reaganiano, un capitolo del mito del mercato. Schierati sullo stesso versante politico, Reagan organizzava la repressione fisica nel continente americano, e Ratzinger quella culturale, con la persecuzione della Teologia della liberazione. Allora, l’edonismo faceva comodo. Ma veniamo a ciò che riguarda più direttamente l’Italia: la classe media viene mortificata. Il suo impoverimento, certo, non deriva da manovre papali, è la conseguenza di complesse dinamiche economiche e geopolitiche. Però, anche il fatto che il clero paghi ben poco, dei tributi che deve, e che quindi partecipi scarsamente al fabbisogno della Repubblica, è un grave fardello economico, una palla al piede. Comunque, la ripresa della classe media dovrebbe necessariamente passare da un’elevazione culturale, che è indispensabile per l’economia ad alto valore aggiunto, e che invece il papato dichiaratamente avversa e sabota. Chi troppo s’ingegna, poi disubbidisce: «L’uomo non volerà mai», dice il vescovo nel Sarto di Ulm di Brecht. Ecco allora che la quadra politica è fedele a tutto questo: lo sviluppo deve essere impostato come opere pubbliche, cemento, spartizione di commesse fra appaltatori grandi e piccoli, col seguito di favoritismi, opacità, svuotamento di diritti. Sempre ammesso che vi sia il denaro da spartire, perché il futuro potrebbe preparare una situazione con troppi poppanti intorno a mammelle vizze. L’Italia rischia di divenire ostaggio allo stesso tempo di creditori e di sabotatori. Non si possono pagare i creditori senza lo sviluppo qualificato che i sabotatori impediscono, e non si può fermare il sabotaggio senza il benessere ipotecato dal debito. E gli italiani, allora? Che facciano i cementificatori, gli osti, i rivenduglioli; produzione a basso valore aggiunto, oppure compiti ancillari. In alcune città, già si vede qualche risciò a pedali, e qualche lustrascarpe. L’Italia sia una grande camera con vista, su rovine artistiche. Very pittoresco, darling, ma non guardare sull’altro lato, che c’è il viadotto dell’alta velocità. E i più preparati, che emigrino, così non creano problemi. O il vassoio o la valigia.
Ma torniamo ai due banchieri del governo Monti. Anche la loro cifra personale, e profondamente politica, c’è da interpretarla. Uno è di respiro internazionale, l’altro è più legato al mondo del capitalismo italiano. Collocare meglio il loro schieramento è difficile, perché entrambi sono cresciuti piegandosi a esigenze momentanee e mostrando grandi capacità di adattamento. Dei due, però, Passera sembra quello sceso a compromessi politici più disinvolti e mediterranei. In affari e in politica da anni, vota per Prodi alle primarie, poi scommette sulla sua caduta a fine 2007, ed è fra i più importanti registi dell’operazione Alitalia, che con la cannibalizzazione dell’azienda permette a Berlusconi di usare in campagna elettorale un argomento di propaganda, e a un gruppo di imprenditori trasversale al centrodestra e al centrosinistra di fare affari sotto protezione politica, senza disturbare gli interessi di un colosso industriale straniero, e di sperimentare nuove formule per l’economia e per il diritto del lavoro. Va ricordato che la possibilità di un incarico istituzionale per Passera, come per Monti, era oggetto di previsioni da tempo. Per esempio, un «radioso futuro politico» per Passera era stato previsto nell’autunno 2009, a un convegno della Fondazione centesimus annus, nel periodo a ridosso della pronuncia della Corte costituzionale sul lodo Alfano, quando molte seconde file nella struttura del potere in Italia si erano agitate fiutando possibilità, poi sfumate. Saper cogliere il momento giusto è importante. Infatti anche un altro banchiere, Alessandro Profumo, vota per Prodi, ma poi non aiuta Berlusconi: così, a distanza di tempo, Profumo svapora, e Passera va al governo. Per quanto riguarda l’Alitalia, l’esito aziendale sarà il controllo industriale da parte di Air France, impresa pubblica francese, e sarà chiamato privatizzazione o salvataggio. È possibile che il governo Monti ripeta o adatti questo modello anche a nuove privatizzazioni, cioè che le cannibalizzazioni trovino nuovi appetiti. Però non è detto, e anzi proprio su scelte di questo tipo si potrebbero avere sorprese, perché di fatto Passera ha avuto molti alleati, ma spesso per un periodo limitato, e la storia insegna che fra banchieri l’amicizia non ha prezzo, nel senso che ha solo un canone d’affitto.
Proviamo a fare un primo assaggio della situazione.
Finiti i carnasciali, ecco i penitenzieri, ovviamente sempre a beneficio della stessa classe. Con qualche somiglianza con altre epoche della storia italiana, per esempio i primi anni Novanta, oppure il governo Prodi nel 1996, al potere scomposto di segmenti irresponsabili e gaglioffi della classe dirigente italiana, alle scorribande di improvvisatori e di ribaldi, segue l’irrigidimento portato da personale professionalmente più preparato, che però si guarda bene dal porre mano alle ingiustizie, e preferisce scaricare ogni conseguenza sui settori più deboli della società. Si guarda bene dal tappare il lavandino, e invece insegue la pallina che vi corre dentro, travolgendo qualsiasi ostacolo. E oggi, ecco un diluvio di encomi, una profusione di stima e di rispetto per Monti e per ministri carichi di titoli accademici e professionali. Certo, prendono il posto di personaggi che vantavano lauree vinte coi punti al biliardino, cattedre strappate con oscure sanatorie, incarichi meritati con le presenze televisive, con le foto discinte, coi baccanali notturni impasticcati di chimica, col festival della coscia. Eppure, anche questo ossequio per i nuovi arrivati tradisce semplicemente il desiderio che le regole profonde della società escano intatte dalla bufera.
Dentro questo avvicendamento, molti osservatori hanno visto un complotto, ricordando quanto accaduto nel 1992 e in particolare l’episodio del Britannia, la riunione promossa dalla Goldman Sachs su un panfilo reale britannico, per discutere aspetti della vita economica italiana con la partecipazione di chi doveva difenderla e svilupparla. Mettendo da parte ogni rilievo su quella vicenda, la questione si presta a qualche considerazione più generale. Nello Stato come nelle vicende di comunità molto più piccole, per esempio quelle familiari, il malgoverno, la disinvoltura e l’intrallazzo aprono la strada a brutali rese dei conti, a liquidazioni frettolose e convulse, in cui si intrufolano rigattieri, captatori di testamenti, usurai, elemosinieri, serve padrone. La questione se in Italia un complotto abbia posto fine al governo Berlusconi è dunque malposta, anzi ingannevole. La realtà è che formule politiche, e soprattutto persone, sostanzialmente devastanti per la politica e la società, non possono avere altro che successori più nefasti di loro. Altra cosa, è che proprio i successori preparino il loro arrivo per tempo, con l’insistenza con cui un confessore o una badante si infilano in casa, sapendo aspettare un pingue testamento. Magari, guidando nella scrittura una mano malferma, e premendo un cuscino sul viso.
Di fatto, tutta la storia del capitalismo è percorsa da rapporti di forza tra stati e sistema bancario, e da quando esiste l’euro la dipendenza degli stati europei dalle banche è impostata su una nuova forma di vassallaggio. Se però ci si chiede chi ne sia il signore, le risposte più semplificate indicano banche, finanza, intrighi. C’è del vero e del romanzesco, ma la sostanza è che una classe padronale percorre ricche carriere fra enti pubblici, organismi internazionali, istituzioni di controllo, banche, imprese. Sovrapposta alla realtà, c’è la lettura fiabesca, in cui Craxi cade per un complotto, Berlusconi cade per un complotto, eccetera. Curiosamente, chi grida al complotto contro Berlusconi non ricorda che il suo potere politico è stato costruito proprio sulle macerie del craxismo, appoggiando solo a parole Mani pulite e galleggiando sulle stragi del 1992 e del 1993. Nella sostanza, insomma, un abisso sociale separa il ceto dominante dal mondo del lavoro, e a ogni tappa storica i costi creati dal tracollo del modello precedente vengono posti a carico dei più deboli, mentre si ripete una versione mitizzata fatta di risanamento, rigore, serietà.
Nell’insieme, è impossibile non tenere conto dell’effetto frana costituito dalla caduta del governo Berlusconi. Il dileguarsi di un gabinetto costituito, con poche eccezioni, da arruffapopoli, squali, omoni d’affari e donnine di malaffare, è un fatto in cui è impossibile negare una sostanza positiva. Certe nostalgie sono o un po’ ingenue o molto pelose. Invece la folla che si è riversata nel centro di Roma la sera delle dimissioni di Berlusconi era animata da sentimenti sinceri, e non c’è da disprezzarla. Altra cosa, è che abbia creduto a un vero cambiamento nei rapporti di forza, mentre la sostituzione del gabinetto uscente con uno più antisociale è una realtà che l’entusiasmo non ha notato, o su cui ha creduto di sorvolare. Il problema di fondo è che il gruppo al potere, nelle sue varie articolazioni, sia berlusconiana che altro, possiede una capacità organizzativa che il popolo italiano non ha, e sa ricompattarsi e cambiare direzione con la prontezza di un branco di pesci. Quanto al sistema mediatico, non smette di essere deplorevole. Per il momento, nessuno dei leccapiedi che da anni cantano le lodi di Berlusconi, o riempiono i notiziari di divagazioni demenziali, è stato davvero messo da parte, e qualcuno dovrà appena cambiare stanza. In questo segmento della vicenda, davvero la fine del governo Berlusconi somiglia alla caduta di Mussolini cui, a parte il suicidio del direttore dell’agenzia Stefani, sopravvissero stuoli di lacchè in grisaglia da giornalisti.
Il Partito della Merda potrebbe essere il vero e più profondo lascito di questi ultimi anni agli italiani, scrivevo prima della crisi governativa. Finito o accantonato il modello berlusconiano, potrebbe essere un governo diverso a portare avanti la liquidazione, lo smaltimento di pezzi del mondo produttivo e organizzativo italiano, e soprattutto l’espulsione e l’allontanamento di strutture, cose e persone indesiderate. Ma almeno su un aspetto focale della vita pubblica italiana si misurerà la distanza del governo Monti dal Partito della Merda, o invece la sua maleodorante somiglianza alla decomposizione: la questione del sistema elettorale.
Praticamente assente dal dibattito istituzionale nei giorni dell’insediamento del nuovo governo, la frode maggioritaria è lo strumento con cui dal 1993 è stato possibile a pochi imporre la volontà a molti. Soprattutto è il cavallo di Troia con cui è stato possibile sgretolare istituti e conquiste sociali. Sul punto, circola già una brutta ipocrisia: dire che temi importanti, come appunto la questione elettorale, sono di competenza del parlamento, non del governo. Quasi tutto ciò che questo governo ha promesso o che ci si aspetta da lui, richiede norme di legge, che quindi devono prima o dopo essere approvate dal parlamento. Non ci sono scuse, dunque, e se questo governo non riuscirà neppure a restituire al popolo italiano il diritto di voto, il Partito della Merda avrà segnato purtroppo un nuovo successo.