di Alessandro Castellari
Ecco, sì, io sono come una tavoletta di morbida cera sulla quale lettere e parole e frasi vengono incise con eleganza dal ferro aguzzo: lo “stilo” fa di me un essere malleabile alla sua bella scrittura, alla sua calligrafia, e, quando esso mi percorre e mi segna, provo un piacere quasi masochista. Stilettate che entrano nella carne e la fanno fremere, lo confesso.
Capisco che le mie parole, che germinano dalla rilettura solitaria di Also sprach Zarathustra, possano sembrare oscure a voi, voi che vi siete precipitati in piazza a veder bruciare un orribile pupazzo masticando il rancido panettone offerto dalla Coop, voi a cui il piacere della crapula a prezzi scontati ha sottratto il piacere del bello, voi che ormai praticate qualsiasi banalità conviviale dove vien fatto strame della bella lingua: solecismi sguaiati esibiti come vezzo, sgrammaticature da somari per le quali un semplice ottativo al presente come “Che vada al diavolo!” si tramuta chissà perché in “Che andasse al diavolo!”, anacoluti devastanti a causa dei quali sono state sterminate la ricchezza e la precisione del linguaggio. E voi a invocare la semplicità, ovvero la grettezza! E voi a ripetere: “Parla come mangi”, essendo il trangugiare l’unica vostra occupazione consapevole.
Ma veniamo al merito del mio intervento. Avrete capito (confido per un attimo nel vostro acume) che io sono, oltre che una docile tavoletta di cera su cui lo stilo incide, un anacoreta del buon gusto, un cultore solitario della bella forma, un santo siriaco, una sorta di san Simeone, che piange la volgarità del mondo dall’alto di una colonna (o stele o “stilus”, che dir si voglia). Ma benché stilita solitario e severo, non posso che concordare con Cesare Beccaria quando nelle sue Ricerche intorno alla natura dello stile affermò che lo stile sa cercare ed evocare le sensazioni più piacevoli: io godo infatti per una frase ben costruita, per una metafora perfettamente icastica, per un arabesco raffinato, per una mise-en-abîme vorticosa, o almeno per un’idea esposta in modo chiaro e distinto. Voi invece, adusi ai panettoni “tre per due” del discount sotto casa, al vin bianco cartonato, ai balli dei circoli Arci, voi che siete lontani da questo principio del piacere dei sensi che solo il bello stile sa procurare, potete sopportare le insopportabili sguaiataggini domenicali di Luciana Litizzetto e l’insoffribile salotto notturno di Bruno Vespa di cui il grande e sarcastico Carlo Emilio Gadda ebbe a dire: “Ecco il tempietto babilo-neoclassico sullo sfondo e le nivee poltrone ai lati che c’è voluto un arredatore di Lambrugo d’Erba per concepirle di tale bellezza”.
Ma dai cenni di disgusto che fra di voi scambiate, dalla vostra insofferenza per le mie parole, dai vostri sguardi opachi dai quali traspare un volgarissimo “Che cazzo va dicendo!?”, sento di dover giungere al centro del mio discorso per non offendere ulteriormente le vostre deboli menti. George-Louis Leclerc, conte di Buffon, sagacemente scrisse che “lo stile è l’uomo”, e quindi troppo elevato per gli ominidi; e Gustave Flaubert aggiunse che “lo stile non è altro che un modo di pensare”, e quindi fuori dalla portata dei bruti. Capisco insomma la vostra difficoltà e cercherò di dire la cosa che mi preme di dirvi nel modo più semplice e piano e senza ulteriori perifrasi. Ma una piccola premessa chiarificatrice si impone, affinché si possa giungere nel modo più proficuo alla conclusione: essa vuol gettare luce sul contrasto fra quest’epoca di luoghi comuni, di frasi fatte, di parole che passano di bocca in bocca, di canale in canale, di sito in sito ed altre epoche fortunate in cui lo stile poteva essere ossequio ai grandi esempi classici (tanto che Dante, rivolgendosi a Virgilio, poteva esclamare:” Tu se’ lo mio maestro e ‘l mio autore, / tu se’ solo colui da cu’ io tolsi / lo bello stilo che m’ha fatto onore”), in cui lo stile poteva essere, al contrario, il marchio dell’originalità espressiva dell’artista, ma comunque sempre lo stile era la capacità di penetrare la verità universale.
Proprio perché è abissale la differenza fra quelle epoche e la nostra, fra i veri cultori dello stile e voi che mi ascoltate, e soprattutto perché il vostro impaziente desiderio di panettoni e spumanti in offerta speciale offusca il vostro ultimo barlume di perspicacia e intelligenza, cercherò finalmente di trasmettervi la ricchezza del mio pensiero a proposito dello stile nel modo più piano e nei termini più elementari.
A me Mario Monti provoca piacere: tanto elegante, sobrio, misurato, quanto gli altri erano sguaiati, cialtroni, incontinenti. Ha un modo così signorile di impoverirmi, di togliermi (permettetemi il brutto neologismo) “l’indicizzazione” sulla pensione, di farmi pagare l’imposta sulla casa… Che impagabile delizia! Ecco, dicevo, io sono come una tavoletta di morbida cera su cui il ferro aguzzo incide con precisione ed eleganza. Stilettate di piacere masochista, lo confesso.