di Dziga Cacace
Ho un nano nel cervello…
A me mi piace vivere alla grande, Franco Fanigliulo
352 — Amore e guerra di Woody, tra Groucho e Tolstoj, USA 1975
Viviamo in 39 metri quadri, praticamente una suite di Alcatraz, e le Vhs occupano una discreta cubatura, lo ammetto. Son stato pertanto diffidato da Barbara dal procedere ulteriormente all’importazione — considerata illegale — di materiali cartacei e audio-video. Ma c’è un modo per aggirare l’odioso embargo: millantare il possesso inverificabile di Vhs e sostituirle intelligentemente con meno ingombranti Dvd. Barbara scoprirà l’inghippo solo quando questo cinediario diverrà pubblico e nel frattempo avrò trasferito la mia principessa in un castello capientissimo. Questo spatafione per giustificare anche ai vostri occhi l’acquisto scellerato di 7, dicasi 7, Dvd, pur non possedendo ancora un lettore. Ma la svendita Fnac era troppo ghiotta e di fronte ai titoli dell’amato Woody, visto e rivisto migliaia di volte, ha prevalso l’ottuso feticismo dell’oggetto, accompagnato dalla pronta dichiarazione da rendere in caso di cattura: “Ma vuoi mettere la lingua e il formato originali? E comunque io obbedivo soltanto agli ordini”. Però ora basta con ‘sto pippone e diciamo due belinate su Amore e guerra (titolo italiano che evita la parola ‘morte’ dell’originale Love and Death), un Allen d’annata che si cimenta coi classici della letteratura russa e gioca anche coi cinéphiles citando a più non posso i maestri del cinema sovietico (Ejzenstejn su tutti) e infilandoci dentro anche un po’ dell’amore per Fellini e soprattutto per Bergman. Cosa ne risulta? Un pastiche fuori di testa con tante idee che vanno a segno e qualche altra (poche) che manca il bersaglio. Amore e guerra ha il pregio della leggerezza, è intelligentissimo e contemporaneamente molto stupido: gioca con materiali difficili, alti, sconosciuti ai più e li meticcia con slapstick comedy e monologhi surreali in camera da stand-up comedian. Per cui il film non risulta mai supponente o fastidioso e le citazioni scorrono in una trama sempliciotta ma dotata di ritmo e varietà. Insomma, è un film adorabile, dài.
Alba dell’ottocento nella santa madre Russia. Boris Grushenko è un filosofo tacciato di vigliaccheria, innamorato della cugina Sonia. La guerra fa di lui casualmente un eroe e fortuna vuole che sopravviva anche a un duello. Sposa Sonia e assieme decidono di uccidere il tiranno invasore Napoleone. Ma va male e Boris seguirà la Morte (con falce d’ordinanza) in un malinconico balletto. La ricostruzione d’epoca sembra grandiosa (perlomeno per i consueti budget risicati di Allen) ed è costantemente contraddetta dall’utilizzo di anacronismi o di nonsense: l’addestratore dei soldati zaristi è un negro, sul campo di battaglia ci sono le cheerleaders e Allen/Boris porta i consueti occhiali con la montatura spessa anni Settanta. Ma la vera (ri)scoperta del film è Diane Keaton, fresca, allegra, strabiliante. Non è bella secondo i consueti canoni estetici, ma è bellissima col suo leggero strabismo; la regia la inquadra con amore e le dedica degli intensi primi piani perché Diane ha una luce negli occhi, occhi splendidi che ridono. Allen regala alla sua musa un ruolo comico straordinario: la donna divisa tra ascesi mistica e animalesca voglia di sesso. Le fa dire “sono mezza santa e mezza vacca” (Boris sceglie “quella che dà latte”) e del resto Sonia cerca il matrimonio d’interesse ma è capace di grandi slanci ideali, disquisisce di metafisica e colleziona amanti: un ruolo schizofrenico interpretato al meglio dalla Keaton, altrove elegante, intellettuale, indifesa; qui magnifica nell’assecondare un copione che la vuole passionale e altera, ma soprattutto sempre comica. Tra musiche di Prokofiev e fotografia non banale s’intravedono le qualità dell’Allen maturo, qui legato a un cinema di gag, ancora un po’ discontinuo ma godibilissimo: avercene di commedie così. Visto a Genova, coi familiari. (A casa mia il Dvd si vede attaccando il Pc al Mivar da 25 pollici. Tutti a discutere se sia meglio il plasma o i cristalli liquidi… ma ragazzi, un 4/3 catodico indistruttibile come il mio, ma dove lo trovate?). (Dvd; 17/1/03)
353 — L’uomo del treno del languido Patrice Leconte, Francia 2002
Quel Leconte che di solito si abbandona a estetismi inconcludenti, una volta tanto riesce a tenersi a freno e ci consegna il suo film più intenso. La storia di un incontro, tra l’adorabile sognatore Manesquier (Jean Rochefort), un chiacchierone che vive tra ricordi e rimpianti, e Milan (Johnny Hallyday), rapinatore dalla faccia da indio, all’ultima rapina prima di tirare i remi in barca. Tra i due c’è immediata (e credibile) confidenza: cercano l’amicizia l’uno nell’altro, sincerità, tenerezza. La trovano: due mondi lontanissimi si avvicinano, una nuova consapevolezza si fa strada. E quando la vita potrebbe cambiare è troppo tardi, perché gli appuntamenti sbagliati sono già stati presi. Ma l’importante è non dimenticare la dolcezza delle cose. Tra citazioni esplicite di Sfida infernale e di John Ford bebé e la singolare esposizione della filosofia della pantofola (va portata al limite dell’usura, scalcagnata, a ciabatta; e il passo va strascicato), L’uomo del treno risulta un film ben scritto, appena più pesante nel prefinale (il confronto con l’amante di Manesquier), che mi conquista nonostante la leziosità. Sarà che ero a Genova per il compleanno del babbo e quando torno a casa indulgo sempre in una celeste nostalgia, come un Cocciante qualsiasi, per dire. Tutto mi sembra sotto una luce aurea (tanto che son finito a fotografare da lontano la casa in cui son cresciuto) e un film così, intriso di rimpianto e ricordi, diventa perfetto anche se probabilmente perfetto non è: struggente e romantico, okay, ma con un finale ricattatorio dilazionato in maniera furbetta, eppure credibilmente poetico. Prima del film hanno proiettato il corto Occhiali di Carlo Damasco, (Italia, 2001), tratto da un racconto di Rita Ortese (chi? Boh!): Annaré non vede un beneamato cazzo, ma è figlia dei bassi napoletani dove filtrano poca luce e ancor meno soldi. Con grandi sacrifici arriveranno degli occhiali, ma la realtà è così brutta che Annaré preferisce tornare al suo mondo sfuocato. Eeeh, mi dispiace. Graficamente molto ricercato. Embeh? Mah. (Cinema Europa, Genova; 18/1/03)
354 — Il Signore degli Anelli — Le due Torri dell’intermedio Peter Jackson, USA/Nuova Zelanda 2002
Per dirla in breve, senza capo né coda. Ma c’è un motivo, è ovvio. Il difetto principale del film è nella sua stessa ragion d’essere, l’episodio centrale di una trilogia che vedrà il termine solo l’anno prossimo. Le due Torri riparte esattamente dove ci eravamo fermati la volta scorsa, senza neanche uno straccio di riassunto che faccia raccapezzare il povero spettatore, ignorante di Tolkien e già frastornato dal logorio della vita moderna. Lo hobbit Frodo, il fido Sam e l’infido Gollum continuano a dirigersi verso le terre di Mordor per distruggere l’anello che, se finisse nelle mani sbagliate, provocherebbe un cataclisma, cioè – pensate un po’ – la vittoria del Male. Intanto Aragorn, l’arciere Legolas e il nano Gimli finiscono con l’aiutare il popolo di Rohan rinchiuso nella fortezza di Trombatorrione al fosso di Helms. E poi ci sono Pipino e Merry preda degli Ents, gli alberi della foresta che confina con la torre dove vive Saruman. Ma chi cazzo ha scelto i nomi di questa saga? Trombatorrione?! Cos’è, un collega di Siffredi? Vabbeh: la critica venduta deve far andare la gente al cinema per cui ha raccontato la balla clamorosa che questo episodio è meglio del primo e ci sono molte più scene di combattimento. Non è vero: qui c’è meno varietà di racconto, meno sorprese (là si conosceva tutto per la prima volta), meno consequenzialità delle azioni (qui non si ricordano cause, né si vedono conclusioni: se ti ricordi, bene, se no, cazzi tuoi). E, ragionando da contabili, c’è uno scontro all’inizio del secondo tempo coi lupi mannari e c’è l’epico confronto con l’esercito di 10.000 Haruk Hai nel finale. Splendide scene, sí, ma non esageriamo: adoro Peter Jackson e so che ciò che fa, lo fa ai fini del racconto e giudicare questo episodio di mezzo è fondamentalmente sbagliato. Sospendo il giudizio in attesa di vedere come finirà tutta la saga, perché si sa, una saga tira l’altra. Se però devo dirla tutta, nel primo tempo ho rischiato seriamente di addormentarmi due volte. Il ritmo non m’è sembrato particolarmente coinvolgente e le scene di combattimento non m’hanno levato il sonno. Boh. Ma io di queste cose — i nanetti, i piedi pelosi, le fate, gli alberi che parlano — non capisco nulla e a dieci anni, quando divoravo qualunque cosa scritta, non son mai riuscito a finire la riduzione a fumetti del film di Ralph Bakshi. E purtroppo l’ho persa, se no me la sarei letta ora che boccheggio! Sono un’anima semplice, io: calcio, patatine e Bertolucci, non chiedo altro e capisco meno ancora, sorry. Visto in un cinema gremito. Messa a fuoco non perfetta ma tollerabile, pubblico silente fuorché un povero bambino frignante a squarciagola, portato al cinema da genitori più che tolkeniani un po’ coglioni. (Cinema Odeon, Milano; 25/1/03)
355 — Gangs of New York del plasmatico Martin Scorsese, USA 2002
Nel 1862 New York è un villaggio di buzzurri dove regnano la prepotenza e il sangue. Praticamente come oggi, ma su scala ridotta. I “nativi” (quanta ironia!) che hanno combattuto per l’indipendenza dall’odiata Gran Bretagna son dei leghisti yankee e non vogliono essere invasi da irlandesi, polacchi e tedeschi. Ma gli ultimi arrivati hanno un paladino, Amsterdam, figlio del reverendo Vallon, ucciso nel 1846 dal macellaio Bill. Tra Amsterdam e Bill nasce un rapporto filiale ma il ragazzo cova vendetta e aspetta il momento giusto per vendicarsi. Il redde rationem arriverà durante la clamorosa sollevazione popolare che mise la città a ferro e fuoco nel 1863, quando gli strati più umili della popolazione si ribellarono alla coscrizione obbligatoria (seppur per sorteggio: negli USA c’è sempre una componente ludica… immagino il banditore che con la mano nel sacchetto dell’estrazione, tipo tombola di capodanno, tiene per le palle l’uditorio: “Il prossimo che marcirà in trincea, sarà… sarà… saraaaaaà…”). L’affresco è potente e ambizioso e Gangs of New York non delude, per quanto presenti alcune debolezze. Sotto la trama all’apparenza semplice si nasconde un film estremamente politico che risale al peccato originale (uno dei tanti, in realtà) di una nazione, alla sua nascita nel sangue, in un tempo in cui la si considerava già dannata, già corrotta e senza possibilità di redenzione. È uno dei consueti temi scorsesiani insieme al contrastato rapporto con la fede, al fascino della violenza e all’ambiguità del Bene, ma stavolta — più che in altre opere precedenti — Martin prova a combinare grande e piccola storia, quella di uno stato che non è ancora nazione e quella di alcuni suoi giovani cittadini. Il film possiede una bella prima parte ma viene a mancare di fluidità quando intreccia la vicenda romanzesca (per quanto storicamente accertata) alla storia ufficiale di New York, una città che fagocita se stessa, si riproduce nutrendosi della sua stessa carcassa e che ci ha lasciato pochissime testimonianze architettoniche del secolo scorso, come se volesse cancellare le colpe dei suoi abitanti. La lotta e la morte sono accettate senza tragedie: è così che si fortifica la nazione, facendola crescere nel sangue, concimandola con i cadaveri. La parte meno riuscita, quella meno armonica, è proprio l’ultima, quando si conclude lo scontro tra i protagonisti, in parallelo alla violenta repressione della rivolta. Le due vicende, piuttosto che sorreggersi, si confondono, perdono di chiarezza. Insomma, mi pare che il finale sia un po’ buttato via, come il rapporto tra Bill e Amsterdam. Bill è efferato e spietato nelle sue sentenze, ma per tutta la prima parte del film — finché il ragazzo gli fa da figlio putativo —, c’è una leggibile empatia, un affetto, una stima tra i due. Poi, all’improvviso Amsterdam si ricorda della dovuta vendetta e Bill, nella frazione di secondo in cui Amsterdam prova ad accoltellarlo, torna suo acerrimo nemico, ristabilendo i ruoli originali, senza alcuna felice ulteriore ambiguità. E non è clamoroso neanche lo sviluppo della storia d’amore tra Amsterdam e Jenny, l’ex puttana dal cuore d’oro che è la migliore borseggiatrice di Manhattan e che spera in un futuro a ovest (scrivendo “puttana dal cuore d’oro” è già evidente il ricorso a un luogo comune narrativo usuratissimo). (Scrivendo “usuratissimo”… vabbeh, basta). Scorsese si autocita e butta nel calderone anche Ejzenstejn e Bertolucci, costruendo un kolossal epico e ricchissimo, montato come sempre dalla Schoonmaker e impreziosito dalle scenografie di Dante Ferretti. Girato per nove mesi anche a Cinecittà, va evidenziata la clamorosa apparizione di Barbara Bouchet che in pochi secondi fa dimenticare decine di commedie boccaccesche degli anni Settanta. So già che adesso, ogni volta, dirà di aver girato con Martin, lei. Del resto, io, ho recitato per Bernardo, per cui siamo pari. La sala offre una proiezione impeccabile, un intervallo eterno e un pubblico rispettoso, salvo un imbecille che proiettava il laser sullo schermo e un deficiente dietro di me che s’è annoiato per tutto il film e faceva commenti da ritardato mentale. Ma allora rimani a casa che su RaiUno magari c’è Panariello, eh. (Cinema Orfeo, Milano; 26/1/03)
356 — Mon oncle dell’affettuosamente reazionario Jacques Tati, Francia/Italia 1958
Di nuovo all’Ariosto per il ciclo su Tati, ma stavolta non ci sto: questo è un capolavoro che ho amato incondizionatamente. È una delle cose per cui vale la pena di vivere, che mi dà pace interiore. E lo voglio vedere come si deve, eccheccazzo. Per cui prima del film chiedo — con piglio dirigenziale — di parlare al proiezionista, come se fossi un’autorità in visita. Lo sventurato esce dalla cabina di proiezione interrogativo e gli butto addosso la mia allergia alle pellicole proiettate col mascherino sbagliato. Risponde a tono ed è categorico, sostenendo che i film del muto o del dopoguerra dobbiamo beccarceli comunque in 16/9 e che a Milano i film si possono vedere solo così. Non conosco i particolari tecnici ma mi sembra una violenta cazzata; insisto, ma non cede, anzi — al culmine di questa discussione surreale e ad alta voce, con tutti gli spettatori che entrano in sala preoccupati — mi chiede “Ma lei, scusi, ma chi cazzo è?”. Rispondo pronto: “Cacace, e lei?”. Ma il proiezionista non si spaventa e il violento conciliabolo deve concludersi. Boh, m’adeguo e vado a sedermi imbufalito. Questo Mon oncle l’ho visto la prima volta con Hilda, nella primavera del 1994, quando il futuro sembrava a portata di mano sinché la gloriosa macchina da guerra di un Occhetto s’è sbriciolata davanti a un nano orecchiuto. Io pesavo 10 kg di meno e avevo anche i capelli (e lunghi): stavamo raccogliendo materiale per la nostra tesi su cinema e architettura e i titoli di testa del film, in questo senso, sono emblematici: sono presentati come le indicazioni di un cantiere, mentre intanto la città cresce inesorabile. Dopo pochi minuti, rendendosi conto che NON si può ridurre 4/3 in 16/9 (perché le teste e i piedi vengono tagliati), quel genio del proiezionista si ravvede e mette il mascherino giusto, trovando un bilanciamento tra messa a fuoco, dimensioni dello schermo e formato esatto. Avrei voglia di mettere il dito medio davanti al fascio di luce per esternargli iconicamente il mio commento sullo schermo, ma invece mi dedico, ormai rasserenato, al film: splendido, indolente, svagato, lento, ripetitivo, felice come il suo protagonista, Hulot. È lo zio di un bimbo prigioniero di una famiglia moderna e porta una scintilla d’anarchia e di disordine in quella parte di città (e di società) imbalsamata nella pulizia e nella prevedibilità. Hulot vive in un quartiere dove regna ancora l’atmosfera del paese e basta il riflesso del sole su di un vetro per far cinguettare un uccellino. Tutti si conoscono, tutti perdono amabilmente tempo: lo spazzino non spazza, ciarla. È la città vecchia che scompare. Il ritmo di Mon oncle è molto diluito: oggi sembra al rallenti, ma è ancora più evidente l’appello a tempi diversi, di racconto e di vita. Struggente e bellissimo, ancora una volta con un uso geniale del sonoro: perché quando c’è intelligenza non servono parole. Grande Tati. Esco dal cinema pervaso dalla bellezza, con passo ostentatamente lento e controllando con la coda dell’occhio il proiezionista, che fuma una sigaretta facendo finta di niente. (Cinema Ariosto, Milano; 28/1/03)
357 — Non si sevizia un paperino del sadico Lucio Fulci, Italia 1973
Per un horror (o quel che è) di tal fatta bisognava che si ricomponesse il mitico trio: le due temibili cugine Barbara e Alessandra, appassionate di serie B, e il sottoscritto. Propongo io il Fulci d’annata e loro abbozzano. Il film non è eccezionale, ma molto molto buono sì, zeppo di idee, a partire dall’ambientazione rurale. Siamo in un paesino imprecisato del sud Italia. Tre bambini vengono rapiti e strozzati e i sospetti s’indirizzano sui “diversi” della comunità. Una è Barbara Bouchet (arieccola!), ricca signora annoiata col vizio della droga (schiava, udite udite, della marijuana!), l’altra è Florinda Bolkan, strega fattucchiera invisa al paese, tanto che verrà crepata a mazzate. Ma ci vuole un giornalista milanese per riportare l’ordine in queste terre arretrate e preda della superstizione. Si tratta di Tomas Milian che, senza grandi deduzioni, incastra il giovane pretonzolo un po’ troppo attaccato ai suoi giovanissimi parrocchiani: li uccide prima che diventino dei peccatori. La fotografia è bellissima e rende spettrale il tradizionale paesaggio mediterraneo operando una geniale inversione di senso rispetto ai consolidati stereotipi. Poi, seppur in versione edulcorata (e non so quanto influiscano i tagli dell’emissione televisiva), appare qualche tettina, si accenna a droga e pedofilia e si fa fare la parte del mostro al tradizionale bravo pastore di anime, cose mica tanto scontate per il 1973 (e 40 anni dopo, il film andrebbe ancora vietato ai Giovanardi non accompagnati). Ma Fulci cerca di uscire dai canoni consolidati del genere anche espressivamente: la barbara uccisione della Bolkan è montata col sottofondo musicale radiofonico di una canzone pop della Vanoni, assolutamente straniante (ed è la scena migliore: terrificante e solare). Ci sono zoomate lancinanti, bei particolari fotografici, facce sporche, sudate, intense: pieni anni Settanta, ma con intelligenza, anche perché se serve il giornalista per risolvere il caso, non è la cultura (o la ricchezza) a rendere meno colpevoli dell’ignoranza dei locali: si vedano il clamoroso errore del magistrato che ragiona poco sulla scarcerazione della Bolkan (e la condanna alla vendetta popolare) oppure l’indifferenza degli automobilisti (segno di progresso economico, ma non etico) di fronte alla richiesta d’aiuto della stessa Bolkan sanguinante sul ciglio della strada. Le musiche di Ortolani non mi piacciono e in generale lo sviluppo narrativo è — specie nella prima parte — un po’ disordinato, ma metteteci la mia stanchezza mentale e le sforbiciate censorie e capirete il mio giudizio ondivago. E sono in errore perché Fulci è veramente avantissimo. (Vhs da Retequattro; 1/2/03)
358 — Progeny del pasticcione Brian Yuzna, USA 1999
Ennesima variazione sul tema della donna ingravidata da un alieno. Solo che stavolta il regista è Yuzna, supposta garanzia di horror fantascientifico ad alto tasso intellettivo e, più propriamente, supposta indesiderata nel mio grasso culone. Perché Progeny è brutto forte, possiede due idee e le tira per un’interminabile ora e mezza. Dopo una quarantina di minuti ho cominciato a dormicchiare. Mi svegliavo dopo qualche minuto e chiedevo se fosse accaduto qualcosa. Invariabilmente, nulla. Il dottor Burton è un poveretto con la faccia da fesso. La sua infecondità è risaputa dai simpatici colleghi che se ne burlano, ma insperabilmente riesce a mettere incinta la moglie. Con un piccolo problema: durante la fatale trombata c’è stata una dilazione temporale di due ore di cui i due partner non ricordano nulla. Ci hanno dato dentro borghesemente per cinque minuti nella più classica delle chiavate sindacali, ma l’orologio ha invece segnato due ore. Cos’è successo? Complici l’ipnosi, poco a poco Burton si convince che l’amata Sherry è stata rapita dagli alieni, ben più prestanti, efficaci e duraturi di lui. Sherry, nel frattempo, ha un mal di pancia del diavolo e quando le viene fatta un’ecografia l’ospite dell’utero non è esattamente tranquillizzante. Burton farà da sé: apre la moglie e prova ad estrarre il nascituro alieno. Per riuscirci deve però lasciare la consorte in ipotermia qualche minuto. La polizia irrompe puntualmente in sala operatoria e i minuti passati sono ben di più di quelli previsti: gli extraterrestri hanno fregato di nuovo il nostro frescone impotente, che andrà a meditare sulle sue sfighe in carcere. Ma non è finita: una notte una luce bluastra sovrasta la cella di Burton, che scompare. Lo hanno prelevato? Era un alieno? Boh, chissenefrega. Progeny ha la pasta fotografica di un tv-movie di RaiDue in seconda serata e la trama di un B-movie anni Cinquanta, ma di quelli stupidi forte. Il tema non è granché aggiornato (a parte alcune scene di sesso eccitanti come il membro in una tagliola), gli effetti sono ingenui e gli alieni sono realizzati con della plastilina marcia. In questo disastro si salvano solo la povera attrice principale, che per metà film è nuda e isterica, e il miserando Brad Dourif, abbastanza spaesato. L’attore che interpreta il dottor Burton è invece un bestione che già mi aveva traumatizzato ne La mummia, qui perfetto per la parte dell’imbecille. Progeny è un film sponsorizzato da critici seri e meno seri, tanto per cambiare, perché così si è originali e gggiovani con consapevolezza di storia del cinema, ma in realtà è un film brutto, mal riuscito e derivativo. Non so bene da cosa, però qualcosa di orrendo, evidentemente. Simpliciter: m’ha fatto cagare, e scusate il latino. Visto con Alessandra e Barbara, anch’esse schifate. (Vhs da RaiTre; 16/2/03)
359 — To Be or Not to Be del perfetto Ernst Lubitsch, USA 1942
Capolavoro a lungo aspettato e infine visto con soddisfazione estrema. Di Lubitsch m’aveva un po’ deluso Mancia competente, assunto però in un’emissione pessima e con audio (tradotto risibilmente) orrendo. Per Vogliamo vivere ho portato pazienza e Fuori Orario m’ha regalato una limpida versione originale dove, scontati i sessant’anni della pellicola, si sentono i dialoghi in maniera cristallina. C’è una compagnia di teatranti polacchi che riesce a salvare baracca e burattini grazie alle proprie capacità mimetiche e recitative e a fuggire dalla Polonia occupata. Nel 1942 non si sapeva niente dei crimini nazisti e si ironizza sull’ottusa disciplina tedesca. Lubitsch avrebbe avuto la mano così leggera sapendo anche dei campi di concentramento? Il risultato è in ogni caso esaltante. Da un punto di vista puramente tecnico il film è scritto in maniera perfetta. Non c’è un attimo di tregua: un fuoco di fila ininterrotto di battute e gag, sostenuto dalla bravura degli attori, semplicemente memorabili a partire dai due protagonisti principali Jack Benny e Carole Lombard. Un’ora e quaranta che passa come un fulmine: Barbara e io eravamo completamente rapiti e ammirati dalla finezza della scrittura, dai giochi di equivoci, dall’ironia sui teatranti e dalla sottile riflessione sul travestimento e l’inganno che possono far coincidere arte e vita. Una goduria. (Vhs da RaiTre; 20/2/03)
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