di Osvaldo Bayer
Pubblichiamo le pagine di apertura del Severino Di Giovanni (Agenzia X, 2011, pp. 253, 15 euro), forse il libro più proibito durante la dittatura argentina di Videla e compagnia brutta. Severino è uno dei miti argentini, il simbolo dell’immigrazione libertaria italiana. Parlatene con un tano argentino, non crederà quando gli direte che in Italia quasi nessuno conosce il nome di questo anarchico abruzzese arrivato a Buenos Aires come esule politico. L’opera di Bayer, pubblicata quasi 40 anni fa in Italia, viene adesso riproposta in una nuova versione da Agenzia X (qui la scheda del libro). L’autore, lui stesso esule negli anni Settanta, ha riscritto alcuni passi fondamentali del testo sulla base di alcune interviste a testimoni d’epoca e dei documenti rinvenuti negli archivi italiani e olandesi. Dalla nuova edizione, data adesso alle stampe in Italia, emerge un quadro ancora più intrigante: l’individualista in realtà collaborava coi sindacati di base di marittimi e panettieri; un altro emigrato italiano, che sembrava un delatore, in realtà era una vittima della polizia e le pratiche violente che divisero la scena antiautoritaria argentina erano da tempo impiegate da ogni componente del movimento. Una lettura imprescindibile, un pezzo di storia italiana dall’altro capo del mondo, un esempio di amore e rivolta contro ogni dittatura] A.P.
L’ambasciatore italiano a Buenos Aires, Luigi Aldrovandi Marescotti, conte di Viano, aspetta il Presidente della nazione sulla scalinata del teatro Colón. Applausi: arriva don Marcelo T. de Alvear accompagnato da donna Regina Pacini. Al suo seguito i ministri argentini degli Interni, degli Esteri e della Pubblica Istruzione.
Sarà festa grande. La comunità italiana ha deciso di festeggiare con massima ostentazione il 25° anniversario della salita al trono di Vittorio Emanuele III. Punto culminante, la grande serata artistica al teatro Colón di sabato 6 giugno 1925.
La festa sarà una prova per l’ambasciatore italiano. Primo, perché sa che Mussolini è molto interessato alle ripercussioni del suo regime nella comunità italiana d’Argentina, e secondo perché bisogna dimostrare potere e scrupolosità davanti agli occhi degli altri ambasciatori che trattano il fascismo con sufficienza.
Una cosa è certa: questa notte al Colón sembra proprio di essere a Roma. L’organizzazione è perfetta, con la coreografia tipica delle cerimonie fasciste. Qualsiasi tentativo di disordini sarà immediatamente represso dalle giovani camicie nere della comunità. La delegazione del Fascio ha posto particolare attenzione a questo dettaglio.
La platea riluce di abiti di gala. Le dame italiane della borghesia danarosa hanno indossato il meglio del loro guardaroba per questa festa che è l’apice di un giorno di cerimonie pubbliche. Chiacchiere pompose e ammirazione di uniformi ricamate, specialmente quelle di diplomatici e militari. I bersaglieri fanno sospirare le signore quarantenni.
Entrando nel palco presidenziale, Alvear è accolto da una salva di applausi entusiasti. Le giovani camicie nere, distribuite in maniera strategica, osservano che tutto sia tranquillo. Una vera festa di buoni figli d’Italia.
Di colpo la banda municipale inizia l’esecuzione dell’inno di Mameli. C’è compunzione e circospezione. Tutti in piedi. La musica arriva come un balsamo a calmare la tensione dei grandi eventi. Si conclude l’Inno di Mameli. Applausi rispettosi. Ma riparte adesso la marcia reale italiana. E allora sì che fuoriesce tutto il temperamento meridionale. Gli occhi si inzuppano di lacrime. Il sangue arde nelle vene di questi uomini riuniti a tanta distanza dalla Patria. Ah, questa musica! L’orchestra sollecita lo spirito nazionale. Si odono voci roche. Tutti cantano. L’Italia vive una nuova giovinezza. È risorta, l’Italia torna a essere Roma.
Eppure sembra che ci sia qualcuno che voglia rovinare la serata a gente tanto entusiasta. Dalla platea comincia a sentirsi un mormorio scendere dal paradiso. L’ambasciatore continua a cantare. No, non può essere. Invece sì. L’ambasciatore si risveglia con uno scossone quando tra i canti crede di udire:
_ “Assassini! Ladri! Matteotti!”
L’ambasciatore non è ancora convinto. No, non può essere. Sì, disgraziatamente sì. Davanti al naso di Luigi Aldrovandi Marescotti, conte di Viano, passano centinaia di volantini, come una pioggia di carta in picchiata. E adesso si sentono chiaramente le grida:
_ “Ladri! Assassini! Viva Matteotti!”
Nella sala sono tutti in piedi e guardano in alto. I volantini continuano a cadere. L’orchestra non smette di suonare ma nessuno le presta più attenzione. E adesso dominano le grida:
_ “Assassini! Viva Matteotti!”
Nel paradiso c’è una rissa in corso.
I disordini sono partiti dalla prima fila del paradiso. Sono otto o dieci tipi che, iniziata la marcia reale italiana, hanno cominciato a urlare e a lanciare volantini sulla platea. I ragazzi in camicia nera non hanno reagito con l’efficienza prevista, perché non si aspettavano un attacco del genere. Appena riavutisi dalla sorpresa, si lanciano con santa indignazione conto i rivoltosi.
Ma questa è gente che si difende bene. Il trambusto è totale, le prime file prossime al paradiso si svuotano, le donne gridano e gli uomini si danno alla fuga. Cazzotti vanno e vengono. Arrivano anche i manganelli tenuti in un angolo dai fascisti. Sembra però che i facinorosi abbiano la testa dura. Specialmente uno biondo, che si difende come un leone. Prende in mano un volantino e con voce da baritono, che arriva in platea, grida:
_ “Santificatori della monarchia Sabauda, avete dimenticato che proprio sotto il regno di Vittorio Emanuele Terzo, per grazia di Dio e volontà… di pochi…”
In quello stesso momento una camicia nera lo prende per il collo e prova a trascinarlo oltre le poltrone. Ma il ragazzo biondo vestito di nero ha la forza d’una bestia. Si libera di quelli che lo stanno tempestando di manganellate, pugni e pedate, si ferma sulla prima fila e continua:
_ “…Re d’Italia… sorse, si alimentò nel sangue quell’accozzaglia di briganti che si chiamano fascisti! Con tutti i suoi Dumini, i Filippelli, i Rossi, i De Vecchi, i Regazzi, i Farinacci… e che trova in Benito Mussolini…”
La lotta prosegue senza quartiere. A terra si rotolano uomini intenti a scambiarsi colpi e morsi. I rivoltosi si difendono con le unghie e con i denti ma le camicie nere continuano a ricevere rinforzi. Gli spettatori in basso si sentono in dovere di salire e mettere ordine nel paradiso. Giovani e vecchi — quest’ultimi coi bastoni — salgono le scale a larghe falcate per dare quel che si meritano ai perturbatori dell’ordine. Intervengono anche i pompieri e la polizia. L’orchestra prova a tirare avanti ma le note sono meno marziali.
Alcuni dei rivoltosi sono già stati ricondotti alla ragione. Dieci, dodici paia di braccia, pugni e bastoni si abbattono sulle teste dei ribelli. Ma il giovane biondo vestito di nero, in piedi su una poltrona, continua il suo discorso più volte interrotto:
_ “…in Benito Mussolini la più precisa e perfetta raffigurazione di tutte le infamie. Glorificatori della
Monarchia, appuntellata dal pugnale dei Dumini, scrivete nella storia della Casa Savoia questo nome glorioso: Matteotti!”
Ma non può andare avanti. Braccia ferree lo afferrano per il collo mentre una camicia nera lo prende a pugni sull’occhio sinistro. Quando lo trascinano per il corridoio ha ancora la forza di gridare:
_ “Ricordate i 700 assassinati nel 1898 dai cannoni di Umberto il Buono! W la mano di Bresci!”
Tutti vogliono linciarlo: eleganti signore dalla faccia scomposta e ragazzotti con espressioni da campo di battaglia. Alla fine i dieci impertinenti sono catturati e affidati alle cure di polizia e pompieri. Li radunano nella hall e li ammanettano. Quando arriva il cellulare li fanno mettere in fila indiana, costretti ad avanzare in mezzo a una folla indignata. Prima di montare sul veicolo il giovane rivoltoso biondo lancia un preciso sputo contro la faccia di un rigido militare italiano col cappello da bersagliere.
Poi grida: “Viva l’anarchia!”
[Qui un altro post di Carmilla dedicato a un altro episodio romanzesco della biografia di Di Giovanni: il suo amore per l’adolescente America Scarfò]. A.P.