di Alessandra Daniele
Oggi, nell’era della piena realizzazione del Liberismo, si fatica a credere che ci sia stato un tempo nel quale il mercato del lavoro era prigioniero di leggi insensate e limitazioni avvilenti. Eppure, fino ai primi anni del ventunesimo secolo, milioni di persone anziane venivano ancora cacciate dal loro posto di lavoro soltanto a causa della loro età anagrafica, e costrette ad anni e a volte decenni di umiliante improduttività. Una pratica detta allora ”pensionamento”, ma che oggi possiamo chiamare col nome che le spetta: discriminazione.
Con un’iintollerabile ingerenza statale nelle libertà personali, agli anziani veniva negato il diritto di morire lavorando. La soddisfazione umana e professionale di dare la vita per la ditta era possibile solo grazie ai coraggiosi imprenditori che ignoravano le retrograde norme di sicurezza.
Gli anziani non erano però gli unici a subire crudeli emarginazioni in base all’età. Il protervo dirigismo statale cercava di impedire l’accesso al mercato del lavoro ai minorenni, preferendo sprecarne le risorse produttive in futili esercizi d’apprendimento di pratiche e nozioni obsolete, che a volte si protraevano anche oltre la maggiore età, producendo generazioni di disadattati, con gravi danni all’economia, e all’ordine pubblico. Per quanto oggi possa sembrare delirante, esistevano infatti istituti di formazione, detti ”università”, dove si discutevano e si insegnavano discipline e competenze del tutto estranee alle richieste del mercato, e addirittura contrarie alle esigenze degli imprenditori.
Questa pratica dissennata rendeva inevitabilmente ogni ”università” un covo di terroristi.
Anche i lavoratori che rientravano negli assurdi limiti d’età allora in vigore subivano la loro pesante quota di restrizioni, a cominciare dalle donne, alle quali non era consentito partorire sul posto di lavoro, restando produttive anche durante la riproduzione, mentre il bigotto moralismo dell’epoca arrivava persino a disapprovare la prostituzione a fini di carriera.
Le proibizioni più odiose però non venivano inflitte ai lavoratori dallo Stato – che comunque le avallava – ma da una prepotente lobby di tecnocrati detta ”sindacato”, che pretendeva di sottrarre al singolo il diritto di negoziare da solo le condizioni dei suoi rapporti di lavoro, e imponeva la ratifica di rigidi contratti nazionali diretti a privarlo della libertà di lavorare ininterrottamente senza limiti di tempo, di rinunciare del tutto al salario, e di vendere o affittare parti del suo corpo a seconda delle richieste del mercato, e delle esigenze degli imprenditori.
Il principale strumento di coercizione adoperato dal ”sindacato” sulle sue vittime era lo ”sciopero”, ovvero l’obbligo ad astenersi dal lavoro, a volte addirittura per un’intera giornata, e spesso a partecipare a cortei umilianti e pericolosi, che si rivelavano inevitabilmente un covo di terroristi.
L’ansia di tornare produttivi spingeva i lavoratori a cedere alle richieste del ”sindacato”, e soltanto il coraggio e la resistenza di imprenditori nobili come il Cavaliere del Lavoro Marchionne, al quale oggi qui inauguriamo il monumento, era in grado di restituire loro la libertà, e la speranza nel futuro.
Quegli anni bui sono ormai un ricordo del passato, però, affinché niente del genere si ripeta, occorre uno sforzo comune. Il 2029 è stato un anno difficile per l’economia mondiale, la solidità della nostra moneta comune, il Dolleuro, è in pericolo.
Saranno necessari nuovi sacrifici fiscali, anche se non disumani.
E naturalmente un’ulteriore liberalizzazione del mercato del lavoro.