di Luca Baiada (Da Il Ponte, LXVII n. 12, dicembre 2011)
[Ringraziamo Il Ponte per la gentile concessione.]
Il magistrato Antonio Ingroia, il 30 ottobre scorso a un congresso del Pdci, fa la voce grossa:
“Mi diranno che un magistrato deve essere imparziale, e io sono d’accordo. Un magistrato deve essere imparziale, quando esercita le funzioni. […] Lo confesso, non mi sento del tutto imparziale, anzi, di più, mi sento partigiano, e nel senso più nobile del termine. […] Ma detto questo, che fare? Occorre resistenza, resistenza costituzionale, ma credo che non basti, la sola resistenza costituzionale. […] Borghesia mafiosa e capitalismo mafioso vanno verso un processo di saldatura fra economia criminale e economia legale che rischia di divenire irreversibile.”
La questione di fondo è colta bene, e resta irrisolta. La struttura del potere in Italia scivola nella criminalità. Il modello è fatto di prevaricazione sociale e si declina tra sangue e sfruttamento più o meno legalizzato. Il paradigma sta risalendo l’Italia e anzi l’Europa. Mezzo secolo fa, Leonardo Sciascia accostava il successo della mafia all’avanzare verso nord del confine dell’area della palma. La strage di Duisburg del 2007 ha dimostrato che la palma può varcare le Alpi.
Il magistrato deve essere imparziale nei singoli casi che tratta, non deve parteggiare nella contesa processuale né avere pregiudizi nei confronti dell’accusato. Però. Il suo sistema valoriale resta affidato alla sua libertà, e la Costituzione non è grigia né statica: vuole che la società cambi nel senso della giustizia sociale. Quindi, il magistrato più fedele alla legge, e cioè professionalmente più valido, è quello orientato in quel senso.
Uscito da difficili scuole di sapere tecnico, il magistrato applica regole di cui a volte percepisce la profonda ingiustizia (il discorso vale anche per altri pubblici poteri, ma con diverse caratteristiche). E da anni la produzione legislativa italiana è affidata a camere elette con un sistema antipopolare. A questo si è arrivati, partendo dal referendum truffa del 1993, e passando per riforme elettorali una peggiore dell’altra. Di fatto, in Italia due terzi dei votanti non contano, un terzo sceglie un marchio, non persone, e a cose fatte i padroni del marchio prendono la maggioranza parlamentare. Quale sia il loro seguito nel popolo italiano, lo dimostra la vicenda bella, gagliarda e mai abbastanza ricordata del 2006: modificato il testo costituzionale dalla falsa maggioranza, quella taroccata col sistema maggioritario, il referendum svolto invece col proporzionale boccia la modifica e i falsari che la volevano.
Certo, c’è da chiedersi se tutta questa proclamata dedizione alla Costituzione, che i migliori cittadini condividono, rischierebbe di trasformarsi in una lacerazione e in una trappola, il giorno in cui un’astuzia manovriera riuscisse a stravolgerne il testo. Le religioni interpretano i loro libri sacri, ma ne conservano gelosamente ogni lettera. E qui gli arnesi dei giuristi, senza opportune tarature, si rivelano spuntati. Così sono anche le parole di Ingroia, che si spinge fino a un certo punto, e poi ammette: «resistenza costituzionale, ma credo che non basti, la sola resistenza costituzionale». Oltre questo discorso un po’ vago, c’è la terra incognita dove l’interpretazione sfuma nella trasgressione, o piuttosto nella disobbedienza. Nella Costituzione lo sciopero non è un buco del lavoro, ma la sua avanguardia, perché le conquiste del lavoro avanzano anche con le lotte sociali. Per questo, la Repubblica fondata sul lavoro difende lo sciopero. E allora qual’è, nella giustizia, l’arnese che apparentemente buca la regola e invece ne è il progresso? L’impegnativa risposta andrà cercata mettendo alla prova l’interpretazione giuridica, l’organizzazione, i fatti, e forse qualcosa che ancora non ha nome.
Ma perché alle parole di un magistrato, in fondo piuttosto ovvie, si scatena un chiasso fuori misura? Non è la prima volta, che Ingroia viene attaccato. Per esempio a fine 2009, al tempo della sentenza di primo grado sull’omicidio di Perugia, quando «Panorama», dà spazio a «una teoria generale dell’inferiorità del sistema giuridico italiano, applicabile non solo al caso Knox», sullo stesso numero del settimanale interviene Bruno Vespa, rinfacciando a Ingroia di aver detto che «la Seconda repubblica è nata da un patto tra Stato e mafia». Più in generale contro la magistratura, Vespa scrive: «A Palermo come a Milano, […] i magistrati si dividono in due categorie: quelli che ce l’hanno con Berlusconi (e ieri con Giulio Andreotti) e quelli in maggioranza che non ce l’hanno con nessuno, ma hanno paura di ritorsioni». Probabilmente, non si perdona a Ingroia di aver preparato insieme al collega Domenico Gozzo, sin dal 2002, circa cento domande da porre a Silvio Berlusconi, sulla sua condotta dagli anni Settanta e Ottanta. Novanta pagine di interrogativi: origine del denaro, rapporti con mafiosi e loro soci, rapporti Berlusconi-Dell’Utri-Craxi, interessamento della mafia alle televisioni, intestazioni di beni a prestanome, eccetera.
Va detto che sul dilagare della criminalità l’attenzione non è solo italiana. Un messaggio inviato nel 2009 a Washington dal Consolato Usa di Napoli, pubblicato da Wikileaks, riferisce che in due visite del console nell’isola è stato notato l’impegno dei magistrati, e anche di Ingroia. In quelle occasioni, pur con buoni propositi, si è preso atto della penosa situazione: mancano fondi e personale. Proprio Ingroia ha sostenuto che la Procura è vittima del suo successo, nel senso che il governo, temendo lo scompaginamento della mafia con gli arresti, ha tagliato i fondi. Nello stesso contesto, sempre il Consolato Usa ha notato l’importanza delle intercettazioni. È desolante che l’Italia affronti questi problemi così male, da rendere necessario a una superpotenza una specie di viaggio ispettivo, con animo simile a quello di chi si aggira per un villaggio povero, contando le mosche sul viso dei bambini. E certamente le autorità statunitensi non sono diventate toghe rosse.
A proposito di abbigliamento. Se il nero sfina, non è detto che il rosso doni alle toghe, anzi, potrebbe persino farle troppo esili, addirittura invisibili. Forse dipende dalla sartoria. «Il giudice è la storia, l’esecutore della sentenza è il proletario», dice una frase di Marx, lapidaria al punto da colpire un’attenzione antiretorica come quella di Albert Camus. Frase dura verso i giudici, esautorati da un tribunale più grande di loro, ma durissima verso i proletari, ridotti a carnefici che ubbidiscono a sentenze senza firma e senza volto. Ernesto Guevara invece, quando nel 1959, subito dopo il successo della rivoluzione a Cuba, dirigeva il collegio penale giudicando i collaboratori di Batista, si faceva fotografare in aula, alla presidenza. La procedura era criticabile per vari aspetti, ma l’uomo era un medico e certo pensava che a volte per salvare il corpo occorre amputare. Del resto, catturato in Bolivia qualche anno dopo, Guevara sarà ucciso senza alcun processo, neppure sommario. In ogni caso, la faccia che ci metteva era la sua, non quella della storia, e l’immagine del Che mentre presiede un’udienza, rinsaccato in una divisa disadorna, fa un effetto di salutare spaesamento a chi frequenta troppo rigide distinzioni di ruolo. E infatti, la foto è semisconosciuta: per motivi diversi ma in fondo simili, vederlo in quell’incarico non piace né ai suoi sostenitori né ai suoi detrattori. Privo del viso affascinante che oggi lo crocifigge alle bancarelle e alle spillette, non guarda lontano, non addenta il sigaro, non si acciglia e non sorride: è una delle poche fotografie in cui sembra a disagio. Nessuno indosserebbe una maglietta con quel Che lì, neppure chi innalza i ritratti di Falcone e Borsellino. Ahi, Ernesto Guevara, nel 1959 impari sulla cattedra di un tribunale, di che lacrime e di che sangue grondi il potere! E se non ti piace, la Sierra boliviana ha pronto un riposo per le coscienze inquiete.
Qui invece, è il caso di insistere sulle parole di un magistrato, o su repliche e ripicche? Proprio no.
Invece. Già una circolare del 6 giugno 1944 di Vincenzo Arangio Ruiz, ministro di grazia e giustizia nel secondo governo Badoglio, poi ribadita da un’altra di Togliatti, fa riferimento al dovere civico dei magistrati di fare vita politica. Chi oggi si scandalizza per la vita politica di un magistrato, è più maresciallo di Badoglio.
La successiva Costituzione sembra restrittiva, eppure i migliori interpreti hanno dimostrato che se consente di vietare ai magistrati l’iscrizione ai partiti, tuttavia non propende per l’effettiva istituzione del divieto. All’assemblea costituente, infatti, il divieto la destra lo voleva, la sinistra no, e l’esito è un compromesso intermedio. La Corte costituzionale nel 2009 ha osservato che i magistrati «possono, com’è ovvio, non solo condividere un’idea politica, ma anche espressamente manifestare le proprie opzioni al riguardo». Però attenzione. Tutta la questione è fuori misura e fuori tempo: il divieto di iscrizione, configurato nel 1947, è stato posto nel 2006, oltre mezzo secolo dopo, e vige adesso che i partiti politici di tipo novecentesco non esistono più, sicché questa diatriba sui fantasmi prende un sapore di umorismo macabro. Di fatto, dal 1992 il pauroso sfilacciamento del ceto politico italiano trascina con sé il reclutamento di personale proveniente da una categoria professionale altamente specializzata (e nell’insieme piuttosto moderata); senza il filtro della militanza in un partito politico, l’ingresso del magistrato in politica avviene per cooptazione o per iniziative personali, tanto che c’è da chiedersi se aver posto il divieto di iscrizione in questo quadro abbia tradito, invece di realizzarli, gli intenti della Costituzione. L’effetto è paradossale: uomini d’ordine sembrano sovversivi, qualche tecnico navigato arringa come un arruffapopolo, e può persino accadere che il console Usa si rivolga a Washington citando come autorevole punto di riferimento un magistrato applaudito da un congresso di comunisti.
Il tema va collocato nel suo vero ambito: il reclutamento di personale politico in categorie tecniche, fenomeno legato sia alla marciscenza del ceto politico professionale, sia al progressivo complicarsi del mondo produttivo e di tutta la società. Finita la Guerra fredda, in Italia lo scacco al potere politico sembra provenire dalla giustizia; oggi sembra provenire dall’economia, ma non vi sono filtri o divieti per l’impegno degli economisti in politica. È impossibile prevedere se in futuro saranno l’infosfera o la tecnologia (magari con le neuroscienze, le biotecnologie, le nanotecnologie) a presentare al quadro politico un rendiconto, una proposta, un ricatto. L’impressione, però, è che l’avvicendarsi di ceti professionali lasci inalterati i rapporti di forza nella stratificazione sociale, e che le regole su questo siano più bizzarre che ragionevoli.
Ma c’è qualcosa di nuovo, quando si strattona la questione dello schieramento politico dei magistrati? Di offese alla magistratura c’è un repertorio logoro, e il migliore campionario si trova nel giornale «Il Regime fascista» del gerarca Roberto Farinacci. E zelante, il ministro della giustizia della Rsi Pisenti, nel giugno 1944 informa: i magistrati che si dimostrarono antifascisti dopo il 25 luglio 1943 «vennero sottoposti a diligentissime inchieste». Questo linguaggio malevolo e occhiuto come un mattinale poliziesco deve aver ispirato le molte, successive schedature di magistrati, anche nella Repubblica, a volte serie, a volte grottesche, sempre miserabili. Per esempio, quelle a cura di Nicolò Pollari e Pio Pompa, nella vicenda dell’archivio segreto di via Nazionale scoperto nel 2006, contro cui il Consiglio superiore della magistratura ha ammonito tutti i nipotini del generale Maletti: «Le attività di partecipazione al dibattito politico-culturale sono componenti essenziali della democrazia».
Oggi, inquietanti attenzioni per i componenti delle magistrature sembrano tornate in voga, a cura di maccartisti del XXI Secolo. Contro questi lugubri ciuchi, vale il monito di Jacques Lacan: «Ricorderò al giurista che in fondo il diritto parla della stessa cosa di cui ora vi parlerò — del godimento».