di Dziga Cacace
Come Waste Your Time With Me
Waste, Phish
344 — Otto donne e un mistero di un farabutto, Francia 2002
Il mistero non è quello che la trama ci propone, ma: perché i critici hanno parlato bene di questa cagata di film? Io lo sapevo, ne ero certo e straconvinto che avremmo preso un pacco solenne andando a vedere ‘sta cosa, ma tant’è Barbara ha insistito e potevo io, nel santo giorno del Natale, circonfuso di bonomia disneyana, oppormi con maschile prepotenza alla nana malefica? No, non potevo e l’unica cosa positiva è che ho maturato nei suoi confronti un credito di almeno tre film sovietici, MUTI, da vedere a casa senza che lei opponga resistenza. Certo, durante la visione del film firmato dal giovanile e furbastro François Ozon ho sofferto come una bestia, ma anche Barbara ha dovuto ammettere che questo Otto donne e un mistero è una vaccata al di là del lecito. Esistono film scorretti, film realizzati col culo, film stupidi e altri venuti semplicemente male: questo è un film compiacente, ipocrita e leccato che non ha alcun senso, se non prendere per il naso critica e pubblico borghesi che vanno al cinema felici e rassicurati nel vedere otto famose attrici francesi recitare assieme. Insomma: una truffa micidiale, che meriterebbe di essere punita con un programma rieducativo in un cineclub nordcoreano.
Dunque: in una sperduta villa di campagna isolata dal resto del mondo si consuma un delitto. Il padrone di casa viene trovato morto nel suo letto. Chi, delle otto donne che gli ronzano attorno, è l’assassina? E ora c’è lo spoiler, perché se siete interessati a vedere ‘sta roba non vi meritate altro: l’assassina non esiste. Dopo un’estenuante ora e tre quarti di dialoghi leziosi e interpretazioni sovraccariche, ci viene rivelato che il morto non è morto, ma ha simulato per rendersi conto della vera natura delle donne che lo circondano. E allora, stavolta, decide sul serio di farla finita sparandosi un colpo in testa, esattamente come avrei fatto io dopo 5 minuti di proiezione. Quindi colpevoli non ce ne sono e misteri neanche (anche perché il suicida — in teoria — non dovrebbe avere ulteriori dimostrazioni della perfidia che lo attornia, sempre che gelosia, avidità, egoismo siano buoni motivi per suicidarsi). E allora cosa significa questo film verboso, lento e ripetitivo? Beh, come detto è l’occasione per mettere in scena un cast stellare che di fronte a un copione inesistente recita tutto sopra le righe, con la Huppert cui non pare vero di fare per l’ennesima volta la repressa frigida e isterica. Ci sono la Deneuve, la Ardant e la Beart che — in diversa misura — ricordano miracoli e orrori di lifting e siliconi vari. E poi il cinema francese mostra orgoglioso le nuove leve, la Sagnier e la Ledoyen, già diventate due cicciabombe neanche raggiunta la maggiore età. Per il pubblico medio c’è il consueto trasgressivo frisson (bacio e amplesso geronto-lesbico Deneuve/Ardant) e per chi si perde nelle scenografie si sprecano addobbi, velluti, passamanerie e un generale dispendio cromatico, tanto elegante quanto inutile. Teatro filmato — ma teatro di merda — senza alcuna scintilla vitale, senza nessuna invenzione, addirittura ripescando un’idea di Resnais (infarcire di canzonette il plot) per allungare una broda mortale come la cicuta. Otto donne e un mistero è uno stupido giochino pseudointellettuale, il peggior esempio possibile di odierno “cinema di papà”. E ripeto: qualcuno, pagato per andare al cinema e consigliarci, è stato tanto boccalone da ritenerlo un buon film: vergogna. Proiezione con sonoro ronzante e pubblico indifferente. (Cinema Ariosto, Milano; 25/12/02)
345 — Il prezioso Un orfano chiamato San Mao di Zhao Ming, Cina 1949
Questo l’ho visto la prima volta nell’ormai lontano 1997: inaugurava la gloriosa raccolta di recensioni intitolata Oblique visioni ed era intestato ad “anonimo cinese”. Infatti i titoli di testa ideogrammatici e chiari come un discorso di Calderoli sono lunghi cinque minuti, ma non viene tradotto il nome del regista. Stavolta però ho ribaltato Internet e alla fine ho ottenuto un nome: San Mao Liu Lang Ji di Zhao Ming, intesi?, recuperato al festival di Cannes del 1981. Venne girato nell’inverno del 1948, interrotto dal Kuomintang, ostacolato dalla censura, e infine ultimato nell’ottobre 1949, dopo l’avvento del comunismo. Tratto da un fumetto popolare, racconta la vicenda di San Mao (“Tre Peli”, quelli che porta in testa) sulle strade di Shangai. San Mao è un orfanello che vive di espedienti. Prima viene adottato da un losco figuro che lo costringe a rubare, poi da una ricca famiglia borghese che ne vuole fare un damerino. Fuggirà sempre, alla ricerca della libertà e della felicità finché non troverà ad accoglierlo il Partito Comunista che ha appena fatto la rivoluzione: la magia del cinema! Il seguito non lo sappiamo e ci fermiamo alla gioia del piccolo, finalmente adottato da qualcuno che promette di volergli bene. Chissà. In ogni caso Un orfano chiamato San Mao è un film molto interessante perché ci fa vedere la Cina prerivoluzionaria con un’ottica molto poco conciliante, paragonabile a quella del cinema neorealista italiano. Anche se la trama vuole essere comica (anche Charlot era un barbone, del resto) si sente un realismo pungente: San Mao è costretto a lavori umilianti, ruba, raccatta sigarette dalla strada, viene picchiato, sfruttato, buggerato. Ma questo è anche un cinema inventivo, capace di improvvisi voli di fantasia (le visioni del cibo di San Mao digiuno, il tatuaggio che prende vita). E poi ci sono i due minuti finali di crassa propaganda maoista, esilaranti per come intervengono e mutano il senso del film. Sembrano un’appendice indipendente, ma il film è bello lo stesso. (Vhs da RaiTre; 26/12/02)
346 — Il pacco Spider di David Cronenberg, Canada/Gran Bretagna 2002
Andiamo allo spettacolo delle 19 all’Odeon per tentare di vedere Il pianista, ma com’è prevedibile i miseri 114 posti che la capitale morale offre a Polanski sono andati esauriti da un pezzo. Fesso io a non prenotare e applausi a scena aperta alla Milano della cultura del signor Albertini, uno che ha come modello Kinshasa Mobutu-style, ma dove Ali e Foreman menano i cittadini. Vabbeh. Barbara propone Spider: insiste da giorni, è curiosa, vuole Cronenberg. Quando ho provato io ad andare a vedere Existenz ha fatto resistenza tipo manifestante a peso morto e me lo ha fatto perdere. Ma ho da farmi perdonare troppi week end lavorativi per cui obbedisco alla garibaldina. In sala messa a fuoco precaria e aria condizionata tipo tromba d’aria polare con epicentro esattamente sul centro della mia calotta cranica, ma non ci farei neanche caso: andare al cinema ormai è un terno al lotto. Il film: Spider è uno schizofrenico in visita ai luoghi della sua infanzia. Ricostruisce il trauma che lo ha gettato nella catatonia e scopre che il responsabile della morte della madre è, indovina un po’, proprio lui. Ci arriva dopo 100 minuti angoscianti, di scavo nella sua interiorità, ricostruendo l’intossicante ragnatela dei rapporti familiari, la gelosia nei confronti del padre e il rapporto morboso con la madre. Il film è oscuro, lercio, volutamente respingente, ma non ha nessun fascino né visivo, né narrativo e per la prima ora mette a dura prova la mia digestione a rischio abbiocco. Il pubblico è talmente scioccato che non fiata. Io m’incazzo e penso: ma Cronenberg per chi li fa i film? Questo Spider che senso ha? Cosa ci racconta? Che idee mette in scena? M’è sembrato un film accademico, senza alcuna scintilla vitale, senza un briciolo di genialità o anche di mediocre inventiva. Ma poi, per chi viene prodotto un film così? Per il pubblico no, perché non ci vuole un genio a capire che ne verrà fuori un prodotto plumbeo, ostico e respingente. Allora lo facciamo per i critici o per incassare qualche premio alle rassegne cinematografiche internazionali. E il senso? Il cinema è (era) l’arte della socialità, della fruizione pubblica, della condivisione, la materia dei sogni della gente, e adesso non mi capita altro che vedere tiramenti di culo da parte di registi che hanno voglia di farsi solo il loro filmetto, incassarsi la bella fattura per aver scritto, ideato, diretto e quant’altro. Tanto ci sono organi appositi che “difendono” il cinema. Il problema è che dovrebbero difenderlo da chi il cinema se lo produce per sé e per pochi (per nulla fortunati) eletti. Parliamoci chiaro: non ce l’ho col cinema d’autore o col cinema difficile. Ce l’ho col cinema brutto e cagoso, senza cuore, e stasera — incidentalmente — il film è anche d’autore e se è difficile non lo è perché prova a introdurci a chissà quali altissimi concetti, no, lo è per compiacimento, per sentirsi autore. Sono imbufalito. Quanto costerà un film così? Diversi miliardi che ci facevi mangiare mezzo Sudan. Cronenberg: dove hai perduto l’ispirazione e il tuo senso sociale? Addavenì la rivoluzione culturale, ma cattiva stavolta, eh? E il regista se ne torni a fare quei poveri e geniali film di zombie di inizio carriera, va’. (Cinema Colosseo, Milano; 26/12/02)
347 — The laughable Interview with the Vampire by Neil Jordan, USA 1994
Dura la vita del vampiro: devi dormire in una bara per evitare i mortali raggi del sole e per cibarti devi addentare tanta bella gente. Se non intervengono decapitazioni o altri accidenti catastrofici, capace che vivi qualche secolo, pensa la menata. Un po’ com’è accaduto a Louis — il belloccio e scimpanzesco Brad Pitt —, vampirizzato a fine ‘700 in Louisiana e ancora in giro ai giorni nostri, costantemente intristito dalle sue vicende senza requie che racconta a un giornalista alla ricerca dello scoop. Reso vampiro dal perfido e sanguinario Lestat (quello sfigato siderale di Tom Cruise, patetico con la parrucca bionda e la dentata puntuta), Louis tenta di fuggire al suo pessimo destino, prova a cibarsi di topi e piccioni ma deve arrendersi al suo istinto bestiale e ogni tanto gli scappa l’umano, non come Lestat che di umani abusa, anche se con un certo gusto e razzismo (non apprezza le nuove ondate di emigrazione in America, vuole i buoni vecchi creoli della Louisiana). Ma il rapporto tra Louis e Lestat, velatamente omosessuale, ristagna nel continuo confronto e alla coppia si aggiunge Claudia, una bambina odiosa. Louis, intenerito, piuttosto che lasciarla morire, preferisce farla vampira e così la strana coppia adesso deve anche preoccuparsi di una mocciosa voracissima, con evidenti turbe ormonali e sconvolta dal fatto che non potrà più crescere, condannata a un corpo di otto anni per l’eternità. Lestat vuole educare la figliola come un padre-padrone, Louis ha un rapporto fraterno con qualche sottinteso sessuale. I due si alleano e provano a far fuori Lestat bruciandolo vivo. Infine pensano che è meglio levarsi dai piedi e fanno ritorno a Parigi per investigare le loro origini. Trovano una allegra compagnia di vampiri teatranti, tra cui il tenebroso Armand (Banderas) che vuole sedurre Louis. Gli altri vampiretti gelosi fanno la pelle a Claudia e Louis mena gran strage, facendo infine ritorno alla Louisiana d’origine dove incontra nuovamente Lestat avvizzito e incupito. Passano i secoli e Louis è a San Francisco a comunicare la sua penosa esistenza al giornalista di cui si diceva, ma che sembra non capire il senso delle lamentazioni del protagonista, tanto che vorrebbe essere vampirizzato anche lui per diventare immortale, ma Louis non è in vena. Colpo di scena finale con Lestat che fa capolino sul Golden Gate, perché lui davanti a un bel morso alla giugulare non si tira mai indietro. Film confuso, lungo, ricchissimo di temi e suggestioni. La messa in scena è spendacciona, il cast costoso e la piccola Claudia è la futura stella Kirsten Dunst — già orrenda, già brava. Sbanda però la regia, incapace di portare a fondo tutte le tematiche sessuali e di coordinare una trama troppe volte noiosa e ripetitiva. La cosa non mi stupisce giacché ho sempre pensato che Neil Jordan fosse un cialtrone. La moglie del soldato era una bella sòla, un classico successo di scandalo, dove tutti provavano chissà quale brivido a vedere sul grande schermo il pisello tra le gambe di una che credevano fosse una donna. Bah (evidentemente clientela di cinema e di viali notturni non coincidono). Da allora ho visto soltanto Michael Collins, un pappone anatomicamente sceneggiato coi piedi e recitato col culo che rasentava il ridicolo. Tornando a Intervista col vampiro, peccato: perché la carne al fuoco era tanta e le premesse per un film affascinante c’erano tutte. Amen. Sui titoli di coda i Guns’n’Roses urlacchiano Sympathy For the Devil. Massì, li perdono. (Dvd; 10/1/03)
348 — Il pianista di Roman Polanski, Francia/Polonia/Germania/Gran Bretagna 2002
E finalmente riusciamo a vedere l’opera definitiva di Polanski (Palma d’oro a Cannes 2002) che, arrivato ai settanta, affronta i fantasmi della sua infanzia. Per farlo ricorre alla biografia avventurosa e dolente di Wladyslaw Szpilmann, il miglior pianista polacco anteguerra, ebreo, uno dei pochissimi sopravvissuti nell’inferno di Varsavia. La guerra irrompe con violenza nel quotidiano nel settembre del 1939. Szpilmann sta eseguendo Chopin alla radio e deve interrompere la trasmissione. Da lì in poi sarà un crescendo di orrore. Gli ebrei accettano le limitazioni, l’essere rinchiusi nel ghetto, infine la deportazione ma Szpilmann riesce sempre — un po’ per caso, un po’ per feroce volontà di sopravvivenza — a rimanere nella sua città che viene martoriata dall’occupazione nazista prima e dalla liberazione sovietica poi. La fame, le bombe, i rastrellamenti, l’abbrutimento fisico, la malattia, il ricatto: Szpilmann arriva a fine conflitto ridotto a una larva, ancora però capace di suonare, come se l’arte fosse l’unico elisir capace di tenerlo in vita. Film commovente che non indulge mai alla lacrima o alla scena madre, Il pianista è un potente affresco su sei anni di terrore assurdo, quando l’irrazionalità ha sconvolto la vita di mezzo milione di ebrei polacchi (ne sopravvissero un decimo). Gli ebrei sembrano senza difese di fronte alla ferocia inumana cui sono sottoposti. Non sanno come reagire perché ciò che accade è inaudito, imprevedibile, inaccettabile secondo una logica civile. Anche Polanski dovette arrangiarsi (aveva 8 anni!) fuggendo dal ghetto di Cracovia, mentre la sua famiglia veniva deportata nei campi di concentramento. Musica splendida, come era lecito aspettarsi, e fotografia livida per ricostruire l’atmosfera plumbea dell’occupazione. Adrien Brody è di una bravura allucinante, maschera perfetta nel calvario che deve subire poco a poco. Dopo il film si accende la discussione con Barbara e Alessandra contro Pier Paolo, Riccardo e Claudia che sostengono la superiorità di Spielberg su Polanski. Essendomi astenuto da Schindler’s List, posso fare il pesce in barile, anche se sono sicuro che hanno ragione le due cugine malefiche. Io ho trovato Il pianista un intenso capolavoro, accarezzato sui tasti di un pianoforte, efficacissimo. (Cinema Odeon, Milano; 11/1/03)
349 — Il tozzo K-19 di Kathryn Bigelow, USA 2002
La marina militare sovietica vuole dare un segnale preciso a Kennedy e mette in mare il primo sommergibile nucleare in anticipo sui tempi previsti. Ciò significa che il reattore non è esattamente a regime e che tutti i lavori di rifinitura sono stati arronzati con materiali scadenti o senza le opportune verifiche. Per portare a termine la prima missione (e farsi vedere belli cattivi e pronti ad attaccare) Mosca impone che il comandante Polenin (Neeson) si faccia da parte davanti al fedelissimo Vostrikov (Harrison) il quale si adopera con puntiglio per mettere alla prova il sommergibile. Chiama esercitazioni massacranti, manda il K-19 a 300 metri di profondità e gli fa spaccare il pack artico. Tutto bene, finché il reattore nucleare non fa cilecca. E allora sono cazzi sovietici ed amari, anche perché intorno al sommergibile in avaria sono arrivati gli yankee belli curiosi. Che si fa: si molla la nave al nemico e ci si fa recuperare? Ci si autoaffonda o si prova a riparare il guasto? L’ultima che ho detto: questi sono comunisti dentro e sembrano crederci. Si sacrificano in cinque che, col saldatore (!), riaggiustano il reattore birichino e, nonostante la palese disparità di giudizio tra l’ex comandante e quello nuovo, si giunge a una inaspettata alleanza nel momento del bisogno. Alla fine moriranno in ventisette e la faccenda verrà messa a tacere fino alla caduta del Muro. Il film dura due ore abbondanti e fila come uno dei siluri stivati nel K-19: a fine proiezione mi sembra sia passato solo un quarto d’ora. Personalmente la cosa che mi ha colpito di più è come possa venire in mente a una donna di fare un film così. Non sono solo “maschili” le premesse, il tema, il cast, la costruzione psicologica. È decisamente “maschile” il risultato, virilissimo, muscolare, col sovrappiù dell’orgoglio sovietico. Nell’ambiente claustrofobico del sommergibile la Bigelow mette in scena un confronto serrato tra due modi di intendere il comando e i rapporti coi sottoposti, sottintendendo anche una diversa adesione ai valori del socialismo reale (con rovesciamento finale: l’ortodosso Vostrikov è figlio di un deportato in un gulag). Di contorno quello che è lecito aspettarsi nel classico equipaggio che deve condividere la stessa avventura: ci sono i marinai fedeli, quelli ingenui ma generosi, poi c’è il viscido rappresentante del partito e c’è il vigliacco cattivo destinato all’infamia e il vigliacco buono che si riscatta salvando tutti gli altri. La trama però fila liscia e l’adesione a qualche stereotipo di troppo non infastidisce. Forse è di troppo il finale dilazionato fino ai giorni nostri, ma in fondo cosa ne so io? Visto con Barbara e Alessandra, proiezione perfetta, titoli “accesi”. E ora, vai di inno sovietico! (Cinema Rosetum, Milano; 12/1/03)
350 — Le merveilleux Les vacances de monsieur Hulot réalisé par Jacques Tati, France 1953
Che tenerezza! Questo mi mancava da vent’anni, quando papà me lo fece vedere una sera di fine estate, a San Michele di Pagana su un minuscolo Brionvega in bianco e nero. Il magnifico, rumoroso, disordinato, scoordinato Hulot va in vacanza in una tranquilla località balneare. Il suo arrivo o la sua semplice presenza creano disastri, rovinano il quieto vivere, ma danno anche un po’ di allegria e vivacità al sonnolento tran tran dei villeggianti. E del resto la turista inglese mattocchia, la giovane villeggiante e il ragazzino insofferente, sono tutti segreti ammiratori di Hulot, magnifico perturbatore. L’ho rivisto godendo dall’inizio alla fine. È praticamente un film muto, senza dialoghi, ma in realtà ricchissimo di musica e rumori (estremamente musicali). Si ride e si pensa: Tati era un genio. Proiezione senza intervallo (bravi!) ma con metà schermo fuori fuoco e soprattutto il mascherino sbagliato clamorosamente (cani!): ho dovuto subire teste e piedi impietosamente tagliati dal mascherino panoramico… ma come si fa? (Cinema Ariosto, Milano; 13/1/03)
351 — Il tettuto Pantaleón e le visitatrici di Francisco J. Lombardi, Perù 2001
Approfitto di un pomeriggio indolente per vedermi questo piccolo caso cinematografico. I peruviani sono un popolo di mandrilli infoiati e l’esercito di stanza nei confini amazzonici sta commettendo un sacco di porcate nei confronti della popolazione femminile locale. Urgono provvedimenti per i militari stupratori. Come fare? Calmarli dandogli legale materia prima: delle compiacenti “visitatrici” a prezzo politico, il classico “sconto militari”. Si incarica lo zelante capitano Pantaleón Pantoja che, dopo una minuziosa ricerca statistica, previsioni azzeccatissime e un’inossidabile fede nell’ideale militare al limite dell’ottusità, organizza un funzionale servizio di meretricio. Innamorandosi però della fatale colombiana Olga: una figa tellurica, con corpo sinuoso adeguatamente siliconato, gambe guizzanti da fenicottero, musetto imbronciato e morbido vitino di vespa, che ti guarda sempre dal basso verso l’alto, facendo l’indifesa e sgranando gli occhioni. Pantoja ci casca come una pera e noi spettatori maschi etero con lui: avevo gli occhi penzoloni come quelli degli occhiali da carnevale con le molle. La vicenda si concluderà come la storia di Bocca di Rosa, per intenderci, e le irriconoscenti gerarchie militari spediranno Pantaleón nel gelido deserto ai confini meridionali del Perù. Lì si adopererà col consueto zelo per sconfiggere l’analfabetismo e secondo i suoi calcoli, lavorando sodo, nel giro di qualche anno potrebbe riuscire a insegnare a leggere e scrivere a ventimila persone. Nel deserto. Commediola graziosa dalla partenza frizzante e dalla seconda parte pachidermica, ripetitiva e lenta. C’è un certo ammiccamento erotico ma non andiamo al di là di uno humour quasi britannico, per lo più verbale, dove la chiave comica risiede nel puntiglio dell’organizzazione della prostituzione, nella burocratizzazione, nel conteggio impiegatizio delle prestazioni, nell’andamento dei consumi. La splendida protagonista (Angie Cepeda) si mostra biotta solo alla prima folgorante apparizione, poi la sua nudità prorompente è sempre solo suggerita, tanto — e la regia non ha tutti i torti — uno se l’è già bella stampata sulla retina, come Terminator quando scansiona il nemico. Non conosco (ammetto la grave colpa) la commedia scollacciata all’italiana, quelle delle varie insegnanti, in cui la trama era facile pretesto per mostrare belle signore, ma il paragone che qualcuno ha fatto con questo film mi sembra irriguardoso, anche se è evidente una regia molto elementare. Visto in una sala grande come lo scompartimento di un treno, con mascherino perfetto e titoli per lo più a luci spente. Pubblico di soli uomini, a parte un gruppo di peruviane allegramente caciarone e con nostalgia di casa. (Cinema Centrale, Milano; 14/1/03)
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(Continua — 30)