di Marcello Simoni
[Marcello Simoni sta ottenendo enorme successo, davvero insolito per un esordiente, con il suo romanzo Il mercante di libri maledetti (Newton Compton, 2011). Gli abbiamo chiesto di spiegarci, con parole sue, quale sia la ragione di un’accoglienza così fervida da parte dei lettori, e quale progettualità abbia guidato la stesura del romanzo. Simoni ne parlerà anche al centro sociale Cox 18 di Milano, il prossimo 26 novembre.]
“Comprendere la ricchezza del genere; violarla in molte forme; passare ad altro, pur senza rinnegare l’ambito d’origine”. Le parole di Valerio Evangelisti (Distruggere Alphaville, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, pp. 17-18) sono le più idonee ad aprire uno squarcio su un aspetto emblematico della cosiddetta paraletteratura, in modo particolare sul thriller. Suscita interesse soprattutto la fase della “violazione”, che se da un lato invita a un’autentica profanazione dall’altro trasmette le suggestioni di chi si appresta a “craccare” un sistema per accedere ai livelli superiori o inferiori di una rete. La dinamica alto-basso si presta bene a rendere l’idea della narrativa di genere suddivisa in bolge sovrapposte, dove ai “modelli puri” del noir, dell’horror e della fantascienza si alternano quelli di recente formazione che sfumano dal fantagotico all’urban fantasy, dal cyberpunk al chick lit.
La questione non compete soltanto l’invenzione di nuovi plot, personaggi e situazioni, che a ben vedere si inquadrano in una casistica facilmente circoscrivibile. Il processo a cui alludo è trasversale e consiste in un autentico meccanismo di ibridazione capace di aggregare a un modulo narrativo elementi provenienti da altri filoni, distinti e a volte antitetici, fin quasi a trasfigurarlo. Non si tratta di esiti maccheronici o di fake letterari ma di un’operazione ormai matura, un mostro di Frankenstein di cui non si scorgono più bulloni e suture. In sostanza si ha a che fare con una materia proteiforme che trascende le prerogative del singolo genere pur restando ancorata alla sfera della paraletteratura, ovvero destinata a “passare ad altro, pur senza rinnegare l’ambito di origine”.
L’impalcatura del thriller si presta egregiamente a questa ibridazione, essendo in grado di fagocitare i moduli del mistery, del noir, dell’horror, del romanzo erotico e di avventura, e allo stesso tempo di adattarsi con disinvoltura alle più svariate epoche storiche senza impoverire il ritmo dell’intreccio e della suspense. Si pensi a L’angelo delle ossa di John Connolly, dove i flashback sul Medioevo e su eventi storici successivi non debilitano l’equilibrio della detective story, pur “sporcandola” con situazioni che sconfinano nell’horror e nel paranormale. Sarebbe opportuno citare al riguardo Il club Dumas di Arturo Pérez-Reverte, ma se si pensa all’intreccio tra Medioevo, noir e thriller non si possono ignorare i lavori di Alfredo Colitto e di Giulio Leoni. Tutte elaborazioni di altissimo livello che per buona parte si prestano alla serialità: altro elemento, questo, tipico della paraletteratura.
D’altro canto violare i moduli di un determinato genere significa anche enfatizzare le sue peculiarità o addirittura a metterne in luce potenzialità latenti, senza scordare che non si sta parlando di una procedura chirurgica ma di un’autentica esigenza creativa che spinge a spaziare oltre i limiti degli stereotipi per reinventarli, rielaborarli o semplicemente per giocare con un’enorme matassa di intrecci.
Il mercante di libri maledetti, nel bene e nel male, appartiene a questa nebulosa di trame ibride. È sostanzialmente un romanzo storico che innesta robusti elementi avventurosi a una struttura tipica del thriller. L’intenzione di base era scrivere un romanzo popolare dotato del maggior numero di sfaccettature possibili, fermo restando che ognuna di esse dovesse riflettersi dentro l’altra annullando l’effetto di giustapposizione. Un Frankenstein senza bulloni, per l’appunto, ovvero una vicenda esoterico-rocambolesca che facesse occhiolino al feuilleton, con capitoli brevi e un linguaggio veloce capaci di focalizzare l’attenzione su un antieroe quasi fumettistico dotato del “genio dell’intrigo” come il D’Artagnan di Dumas. E d’altronde sono persuaso che la riuscita — ovvero il gradimento — di un simile romanzo sia determinata per buona parte dal protagonista che agisce al suo interno.
Ragionando con il senno di poi, il successo di Ignazio da Toledo deriva dal fatto di essere un individuo universale ma talmente estraneo allo stereotipo del vincente da incontrare la simpatia del pubblico. È un camaleonte in perpetuo conflitto con il mondo, un pellegrino in grado di attraversare le sfere del potere sacrale e temporale senza lasciarsi contaminare da esse, e tuttavia altrettanto capace di entrare nelle grazie di chiunque — nobile, chierico o villano — possa rivelarsi utile ai suoi piani. Ignazio non è il cavaliere senza macchia che intraprende la quête per conquistare la bella, né il soldato che si consacra alle crociate per ritrovare la fede, ma neppure il monaco che abbraccia un’indagine per ristabilire l’ordine della verità e della giustizia. Ignazio da Toledo è fondamentalmente un egoista, un uomo che condivide le meschinità dei propri simili ma che amplifica l’entità delle sue sciagure a causa di una curiosità e di un intelletto fuori dal comune. Perciò mente, fugge e scombussola le pedine del gioco in base all’unico discrimine che ritenga valido: se stesso. E sebbene sia dotato di un senso etico e di un’emotività forse in grado di elevarlo dalla massa, sceglie di nascondersi — a volte per necessità, a volte per comodo — dietro una maschera impassibile. La sua incorruttibilità di fondo è debitrice di una schiera di personaggi della letteratura popolare, dal capitano Nemo a Van Helsing, da Rocambole ad Arsenio Lupin… Ma anche da Dylan Dog a Mandrake. Sì, perché la contaminazione del fumetto gioca un ruolo fondamentale nel delineare personaggi seminascosti tra i chiaroscuri di china e tuttavia sempre fedeli a se stessi, immutabili perché votati alla serialità, non piatti ma assoluti.
Se Ulisse è “nessuno”, Ignazio da Toledo è “chiunque”. È l’uomo di strada, il sapiente curioso, il sospetto di negromanzia, il mercante di reliquie che ripone la fede nell’effimero pur di obbedire soltanto a se stesso, e non certo ai componenti del clero e dei vertici sociali. Ci troviamo di fronte a un outsider, all’archetipo dell’anarchico inteso nei suoi aspetti più atavici e spigolosi.
Il fascino controverso di Ignazio da Toledo ha conquistato da subito lo staff del mio editore — per buona parte femminile — al punto da decidere di comune accordo di dedicargli ampio spazio nella fase di pre-pubblicazione, con l’elaborazione di un booktrailer ad hoc e addirittura di un “taccuino di viaggio”. D’altronde, si trattava di dare enfasi a qualcosa di già ampiamente descritto nelle pagine del romanzo…
Il mercante di libri maledetti si avvale di altre particolarità, primo fra tutti — e tipico del filone avventuroso — il “tema guida” di un viaggio che sposta la trama in ambientazioni sempre diverse, teatri di imprevisti e di colpi di scena. La molteplicità, dunque, non riguarda soltanto gli “innesti” di vari generi, ma anche la varietà degli sfondi. E forse è stata proprio questa molteplicità a infondere vita al mio Frankenstein, che contrariamente a quello di Mary Shelley non è ispirato ai canoni della bellezza ma a una compattezza strutturale scandita da ritmi sincopati.
In definitiva aspiravo a scrivere un thriller itinerante infuso del senso dell’esotico, delle leggende dei profanatori di catacombe e dei mercanti che rubavano reliquie da terre lontane, spesso ostili e sconosciute. Volevo ambientarlo in luoghi di importanza storica, ma indagati nei loro recessi più segreti per rendere uno scenario adeguato alla ricerca di uno pseudobiblion capace di evocare gli angeli. Ricercavo soprattutto una forma narrativa “popolare” dotata di un linguaggio immediato e di veloci cambi di scena che potessero intrattenere qualsiasi lettore, non soltanto i patiti di thriller e di trame storiche. Qui la logica del fumetto si è mostrata d’aiuto, suggerendomi di stendere capitoli brevi, incisivi come vignette, e di descrivere scene d’azione che richiamassero i tratti nervosi e chiaroscurali di Frank Miller e Corrado Roi. Infine, per esasperare l’effetto della suspense, ho trasfigurato il tema del pellegrinaggio in un’estenuante caccia all’uomo, dove l’homo viator diviene preda e predatore.
Ultimo ingrediente, il Medioevo. Con i suoi infiniti spunti al grottesco e al misterioso, il XIII secolo rappresenta il comune denominatore de Il mercante di libri maledetti. Il suo respiro odoroso di incenso e di sego di candela avvolge ogni cosa come una coltre di nebbia.