di Alberto Prunetti
Giuseppe Ciarallo, DanteSka, Milano, paginauno 2011, p.94, euro 15
Si ride, si ride tantissimo leggendo i versi “danteschi” di Giuseppe Ciarallo. Il suo viaggio agli inferi, nel mezzo del cammino di una sbronza, con Fiodoro Dostoieschi come Virgilio e un incontro stupendo con un vecchio dalla barba bianca, che assomiglia ora a Marx ora al Padreterno, è godibilissimo. Oltre a consigliarne la rapida e piacevolissima lettura, della trama non dirò troppo. Innanzitutto perché la struttura del viaggio nell’Ade di Ciarallo riflette, oltre all’imitazione-invenzione parodistica del linguaggio dantesco, quella ben nota dell’Inferno della Divina Commedia, col sistema dei gironi e dei contrappassi. I personaggi incontrati da Ciarallo sono quelli moderni che trovate ogni giorno nei telegiornali e uno dei piaceri di “DanteSka” è quello di riconoscerli per le loro malefatte o per la caricatura fisiognomica che ne viene offerta. Ma non voglio entrare nello specifico, perché significherebbe rovinare il piacere di scoprire passo passo le vittime di Dante/Ciarallo: vi anticipo solo che come me fremerete di piacere quando Beppe alzerà il pugno per salutare il tipo che ha buttato il Nano nella merda.
Voglio solo citare due quartine, peraltro evidenziate nel risvolto della copertina, per darvi la misura della bravura dell’invenzione satirica di Ciarallo: “Fiumane di borghezi e buttiglioni / ci spingono e s’aggrappan forte a noi, / cicchitti, giovanardi e anche maroni / voraci come fosser avvoltoi; / gasparri, pecorelli e anche ghidini / vaganti per quel luogo disadorno, / storaci, calderoli e taormini / ci ostacolano il passo del ritorno. “
Vorrei invece spendere qualche parola sulla maniera in cui Beppe Ciarallo fa ridere. Ciarallo racconta la realtà di oggi col filtro deformante e tendenzioso della caricatura, dell’iperbole, del grottesco. Se il realismo è quello dei telegiornali, la riproduzione parodistica della realtà rovescia e rimette sui suoi piedi le menzogne del potere, svelando la bruttura dei politici e esponendoli in maniera derisoria al riso del lettore. Lettore che gode riconoscendo il potente di turno e immaginando la conformità del contrappasso che Ciarallo gli ha preparato. Un meccanismo che può aiutarci a comprendere quanto la Commedia fosse fruibile, in senso satirico, per i lettori contemporanei di Dante. C’è qualcosa della magia, della vendetta simbolica in questo sistema dei contrappassi che dà ragione a quelle teorie che vedono la satira e la caricatura come armi sociali, volte a smascherare le pretese dei potenti, a ucciderli in effigie col ridicolo. Ovviamente è un riso liberatorio, ma è un riso ostile, cinico, meritatamente cattivo — il Nano direbbe “tendenzioso” – che non si fa timore, giustamente, di attaccare l’autorità e la supposta grandezza di chi viene sottoposto a derisione. L’opera di Ciarallo è impreziosita da belle tavole grafiche opera della matita di Manlio Truscia, che spinge la vis satirica nella direzione del ritratto carico e caricaturale (stupenda la massa informe del “largo”) e in quella del grottesco.
Amruta Patil, Nel cuore di Smog City, Milano, Metropoli d’Asia, 2010 (12,50 euro, traduzione di Gioia Guerzoni)
Un graphic novel arrivato dall’India e pubblicato da Metropoli d’Asia, interessante editrice specializzata in letteratura asiatica, soprattutto indiana e cinese. Tanti i motivi di interesse in questo libro: avevo assistito alla presentazione del libro con l’autrice a Ferrara al Festival di Internazionale ma mi ero dovuto assentare al momento del dibattito. Ero rimasto incuriosito perché Amruta Patil aveva in qualche modo diminuito l’importanza di quegli elementi del suo lavoro che il lettore “orientalista” potrebbe guardare con favore, come ad esempio il fatto che la protagonista del racconto sia lesbica, o indiana, o queste due cose assieme. E aveva anche volontariamente tolto importanza alle pretese “artistiche” del suo lavoro, affermando che lei non aveva alle spalle né una formazione grafica assodata né la familiarità da lettrice col mondo dei comics. A un certo punto addirittura Amruta aveva spostato completamente il discorso dal suo libro, cominciando a parlare del suo lavoro in un gruppo che si interessa dei problemi dell’insegnamento a Mumbai (cosa che mi aveva colpito, perché io stesso ho insegnato a Mumbai per alcuni mesi). Quando finalmente ho letto il libro, le sorprese sono state tante. In realtà il titolo italiano, pur evocativo, è un po’ depistante. Più che una storia su Mumbai (che poi non è la città più irrespirabile in cui ho vissuto) la storia ha un taglio esistenziale, sganciato da coordinate geografiche – tanto che il titolo originale coincideva col nome della protagonista, “Kari” – e racconta i disagi di una generazione avviata ai lavori cognitivi in una metropoli in cui si continua a (con)vivere come studenti perché i lavori creativi sono sempre più precari e gli affitti al metro quadro sono da paura. E questo a Londra come a Parigi, a Mumbai-Bombay come a Roma. Tanto che a un certo punto quasi mi è dispiaciuto che ci fosse così poca Mumbai nella graphic novel e mi sono trattenuto a sognare sulla pagina 43, dove compare la linea ferroviaria che facevo così spesso nei miei percorsi tra Bandra e la stazione di Churchgate, in quel treno così affollato in cui finivo sempre per calpestare e essere calpestato. Quanto al tratto grafico, l’autrice si sottovaluta: le tavole sono bellissime, evocative, intime. E la scrittura scava a fondo nel corpo della giovane protagonista, restituendo le sue vibrazioni emotive, fibra per fibra, come in un diario. È un bel lavoro ed è molto brava Amruta Patil, al punto che l’anticipazione che con la sua sensibilità si sta preparando a modellare in forma grafica un capolavoro come il Mahābhārata mi colma di entusiasmo e di impazienza. Si tratta di un testo che è svariate volte più corposo della Bibbia, per capirci con le dimensioni. Quasi come sfidare l’Himalaya. Ma ormai le donne indiane sono così determinate che le montagne se non le scalano le spostano.
Maria Jatosti, Per amore e per odio, San Cesario di Lecce, Manni, 2011, pp. 267, 17 euro
Quello di Maria Jatosti è un romanzo autobiografico emozionante, contorto e complesso come una vita. La sua vita. È difficile renderne conto in pochi righe. C’è la dimensione della vecchiaia, con gli acciacchi, anzi, con una malattia grave, le difficoltà a muoversi, la limitazione nell’indipendenza. C’è la lotta: dagli anni dell’idealismo giovanile, quando bellezza e forza aiutano a combattere contro i mulino a vento, fino a quelli della maturità, per resistere all’agro del boom economico che le prime vittime te le fa accanto. C’è la complessità dei rapporti umani a cominciare dal sentimento forse più importante, l’amore. C’è il lavoro culturale, che diventa alienazione, con le presentazioni, le quindici persone che riempiono una stanza piccola, le copie del libro da firmare e il musicista che non si presenta; e poi c’è Lui, che non viene mai nominato eppure spunta con tutto l’ambaradan di rapallizzazioni, vite agre, kansas city, Marcello che è il nome del figlio ma anche di un personaggio letterario, con quel terribile addio, “è stata tutta colpa tua”. Lui che quasi si vendica anche dopo la morte, costringendo a rinnovare la memoria, a continuare il lavoro culturale, di nuovo Grosseto, convegni, fotografie lasciate in dono alla Fondazione, interviste. Eppure assieme a tutto questo, che in parte era atteso prima della lettura, ci sono sorprese che con piacere ci meravigliano. Dalle biografie dedicate a Lui, Lei appare a volte, almeno nel lavoro letterario, come un personaggio che vive di luce riflessa: Lui detta la traduzione e lei batte sui punzoni della macchina da scrivere, ad esempio. Ma leggendo il libro della Jatosti ho trovato pagine mirabili in cui il gioco espressionista dell’elencazione, coi giochi di parole e le assonanze, per cui Lui è noto per i suoi virtuosismi sia ne La vita agra che in Aprire il fuoco, non si può dire imitato, ma eseguito con abilità e originalità sorprendenti da Maria. E l’impasto straniante di italiano e lingua straniera, che Lui preparava con la malta dell’inglese e che Maria performa col francese, non sembra meno degno di quello di lui. Vuoi vedere che allora quella stanzetta in affitto a Brera con la luce del neon intermittente è stato un laboratorio di mezzi tecnici in cui Lui e Lei hanno affinato le loro capacità espressive in maniera mutua e reciproca? E se la traettoria creativa e esistenziale di Lui è stata quella di una veloce meteora, che però ha lasciato un segno profondo in tanti lettori, e giustamente, lei invece ha seguito percorsi più lenti, meditati, prendendosi il tempo senza agganciare la propria vita al ritmo della scrittura, lasciando che questa fermentasse lentamente, come in una barrique (la scrittrice barriccata, questa garberebbe anche a Lui, che ci farebbe qualche ironia pesante alla faccia di Baricco.) Lei che ci ha regalato pochi libri, quasi uno a decennio, perché non aveva tanto tempo da scrivere, e troppo tempo da vivere (in conformità col testo della Jatosti, non diamo nome a Lui).