di Alessandro Castellari
Valerio Varesi, La sentenza, Frassinelli, 2011, pp. 278, € 18,50.
Vorrei cominciare queste note dalla questione all’apparenza più spinosa: come si possa oggi scrivere un romanzo sulla lotta partigiana, quando allo stesso Calvino nel ’46, accingendosi al Il sentiero dei nidi di ragno, la “letteratura della Resistenza” parve così “impegnativa e solenne” da trarsi dall’impaccio affrontando il tema non di petto ma di scorcio, affidando il punto di vista ad un bambino, “in un ambiente di monelli e vagabondi”.
Ci possono essere ragioni legate ai fondi interiori da cui trae ispirazione ciascun autore e ragioni che appartengono al contesto culturale di un’epoca. Fra le prime ragioni si può notare in molti romanzi di Valerio Varesi l’esigenza di fare i conti col passato: sfondi drammatici di amori ed odi non elaborati, figure spesso irrisolte di vecchi partigiani, personaggi a volte “secondari”, ma tematicamente decisivi, per i quali lo strazio nasce dal vedere come quell’età di eroici furori si sia impaludata nel disincantato e cinico presente (cose analoghe si potrebbero dire per le vicende dell’Oltretorrente antifascista di Guido Picelli o per quelle studentesche degli “anni del dissenso”). Fra le seconde ragioni è da annoverare la sua dichiarata volontà, in un altro ampio segmento della sua produzione, di fare del giallo una forma del “romanzo sociale”, ponendosi, ma senza forzature programmatiche, nel solco di una parte consistente della letteratura contemporanea: quella che ha abbandonato le forme manieristiche o giocose o estetizzanti o metanarrative del “postmodernismo” (oggi in crisi anche sul versante filosofico perché sormontato da una nuova esigenza di “realismo”) per cimentarsi in modo più diretto con la realtà. Nella speranza, dico io, che i contenuti non facciano dimenticare la forma letteraria, perché, per citare ancora Calvino, “quel che conta è la musica e non il libretto”: pericolo che non corre Varesi per il quale l’orchestrazione narrativa e il ritmo linguistico sono l’assillo continuo del suo mestiere di scrittore.
Ma a me pare che qui ci sia un terzo tipo di ragione che risponde in modo ancor più convincente alla domanda iniziale: “Perché oggi un romanzo sulla lotta partigiana?”
Lo dico subito: l’inattualità. La sentenza è un romanzo felicemente inattuale. Viviamo, come mai in altre epoche, inseguendo l’attualità ed essendone inseguiti. Ci nutriamo quotidianamente di dosi massicce di informazioni che costituiscono il nostro orizzonte e configurano il nostri modelli mentali. Il pericolo è non avvertire più come fecondi orizzonti e modelli diversi. Il pericolo è in sostanza è quello di non far vivere altre parti, altrettanto importanti, di noi stessi. Quali sono in questo romanzo “le altre parti di noi stessi”?
In questa storia partigiana fra la valle dell’Enza e quella della Parma, fra il Ventasso e il Fuso, sono protagonisti dei giovani coi loro progetti, con le loro voglie. Per tutti in qualche modo l’esperienza di quei mesi del ’44 è un percorso di formazione, e La sentenza assume le forme nobili del Bildungsroman. Bengasi vuol sentirsi vivo nell’azione e spende la sua vita in questa spavalda volontà ma divenendo consapevole dei limiti di quella spavalderia; Ilio impara faticosamente che la ragione rivoluzionaria fa fatica a reggere il peso della complessità; Jim viene posseduto a poco a poco da sentimenti sempre più complessi: il disagio, l’affezione per i compagni, la vergogna, il desiderio di riscatto. E poi c’è quel cruciale capitolo 31 in cui il percorso nella notte di Jim e Bengasi costituisce la mise en abîme dell’intero percorso di formazione dei due protagonisti. Cosa c’è di più inattuale in un’epoca in cui la “in-formazione” è una parola in cui il nome viene oscurato dal suo prefisso?
E poi c’è l’avventura, quella vera, nell’epoca dei videogames. Le bande partigiane si muovono nei boschi, sulla china dei monti, lungo l’argine dei torrenti, sulle strade provinciali fra assalti, cacce, fughe, inseguimenti, imboscate, rastrellamenti con quell’andamento continuo, con quella scioltezza giovanile che solo alcuni libri possiedono, e fra essi il capolavoro (inattuale e anacronistico anch’esso!) della letteratura resistenziale, Una questione privata di Beppe Fenoglio. Un movimento, per altro, che rimonta ad una delle tradizioni letterarie più pure, quella del romanzo cavalleresco. Così i nostri combattenti sembrano a volte quegli antichi cavalieri, ai quali per troppa precipitazione poteva capitare di girare a vuoto: “La prima impressione è che non sappiano bene cosa vogliono. Un po’ inseguono, un po’ duellano, un po’ giravoltano, e sono sempre sul punto di cambiare idea”.
E, infine, mi pare esserci nel romanzo un altro elemento di feconda inattualità. Questo aggirarsi nei boschi in nome di un progetto rivoluzionario o per spavaldo vitalismo o per odio o per passione amorosa è iscritto in una toponomastica rigorosa (ed affettuosa) di borghi, case coloniche, colline, boschi, vette; è scandito dagli spari, dalle urla concitate, dal rumore dei camion: poi l’azione drammatica lascia il posto al silenzio dei luoghi, all’odore degli alberi e dello stallatico, al canto degli uccelli, al movimento delle nuvole, al cangiare delle luci. È come se la natura innocente ed indifferente si prendesse uno spazio, in questa nostra epoca frettolosa e concitata, per rammentarci i limiti invalicabili di ogni azione umana.