di Letizia Mirabile
[Abbiamo già pubblicato una recensione di Mauro Baldrati del film di David Cronenberg A Dangerous Method. Ne abbiamo ricevuta una differente, per valutazioni e punto di vista. La proponiamo visto l’interesse del tema e del film. Tra Freud e Jung si giocano le coordinate del nostro tempo, quanto a conoscenza delle psicologie individuali. Dopo di loro ci sono stati passi in avanti, ma non scatti capaci di oscurare i predecessori.] (V.E)
Nell’Europa di fine ‘800 e inizio ‘900, quando intellettuali e scienziati, musicisti, scrittori animavano la vita intellettuale di Vienna, una giovane paziente, affetta da una grave isteria, Sabina Spielrein, viene affidata alle cure di un medico in ascesa: Carl Gustav Jung.
Le cure si basavano sul metodo freudiano, quello che, in termini molto riduttivi e mortificanti, lega ogni istinto, ogni problema alle pulsioni sessuali. Proprio per confrontarsi sul difficile caso inizia la corrispondenza fra Freud e Jung. Anche la relazione fra paziente e medico oltrepassa i confini del setting, dando la stura a un’appassionata e dolorosa storia d’amore. Jung prosegue i suoi studi e si discosta nettamente dal suo mentore, legato e imbrigliato alle teorie della sessualità. Inevitabile la rottura fra i due.
Anche la storia con Sabina ha un fermo, causato sia dalle reticenze etiche sia da quelle moraliste di Jung, che arriva a negare la relazione a Freud, facendo apparire la donna come un’esaltata isterico-aggressiva. Quando ammette la sua colpa, Sabina inizia la cura con Freud, e una volta superato il suo problema, diventa una valida psicoanalista. Ciò segna la definitiva liberazione da Jung, che invece rimane invischiato nell’anelito della ricerca di un surrogato.
Questa la trama del film di David Cronenberg: A Dangerous Method.
Sin dalle prime immagini — la fotografia è di Peter Suschitzky -, televisive e prive di alcun guizzo artistico, emergono i famosi attori, capaci di inabissare dei personaggi così interessanti. Keira Knightley fa la parodia di soap opere messicane con il mento tremulo, Viggo Mortensen esprime una monolinearità noiosissima, che schiaccia Freud in un infantilismo egocentrato e in una superbia fanatica. Migliore Michael Fassbender, che però non riesce a dare lo spessore necessario al medico ariano. Anche la chicca di Vincent Cassel, nel ruolo di Otto Gross, è insipida e monolitica.
Una delusione la sceneggiatura banale, di Christopher Hampton — premio Oscar per Le relazioni pericolose – in cui è evidente la volontà di sottostare alle regole dei film da cassetta: potere, sesso, la giusta dose di ambiguo e torbido e, qui marginalmente, soldi.
Le uniche cose da salvare con una sufficienza sono: le musiche di Howard Shore, che ben accompagnano il film, cadendo, a volte, nel mélo-didascalico; le scenografie, di James McAteer, molto ben curate e i costumi di Denise Cronemberg, sorella del regista, che, però, non si capisce perché li abbia scelti tutti bianchi per le donne. Sarà il simbolo esteriore di una purezza eterna e ontologica?
Anche il montaggio non brilla per pulizia e accuratezza. Pessima la scelta di inserire le carrellate aeree della nave che trasporta i due medici in America.
Scadente la fine, che vorrebbe agognare a un agrodolce nostalgico sulla soglia della Seconda Guerra Mondiale, e che riesce solo a far esultare lo spettatore per la raggiunta liberazione.