di Paolo Pozzi*
Qui la prima parte
A Jo Condor, in memoria
“Alla fine la ns. decisione cadde su Tobagi, in seguito a discussione che facemmo su chi sequestrare; poi mi sembra che incaricammo di raccogliere notizie su Tobagi la Caterina Rosenzweig, la quale, quando passò la scheda, disse che lo conosceva, perché era amica di famiglia. Poi io andai sotto casa di Tobagi e mi feci accompagnare dalla Caterina, che essendo di Milano, conosceva la zona e mi indicò la casa. Dopo, la Caterina uscì di scena è andò avanti il nucleo incaricato di questo tentativo di sequestro, cioè io, il Marocco, Felice Pietroguido e Battisaldo Massimo”.
Sergio la vide arrivare alla redazione del giornale un caldo pomeriggio di maggio. I suoi grandi occhi neri in un viso dal vago aspetto amerindo lo colpirono profondamente. Per il resto non era poi una gran donna. Vestiva quell’abbigliamento che rendeva le donne proprio tutte uguali, quell’abbigliamento che a Sergio non andava proprio giù. L’età non era certo la sua. Sergio era intorno ai cinquanta, lei non dimostrava più di venticinque, ventisei anni. Ma lo mise subito a suo agio dandogli del tu e cominciando a parlare per prima dopo aver salutato un signore di mezza età, un po’ più vecchio di Sergio, che l’aveva accompagnata.
Poi si sedette davanti a Sergio coprendosi le ginocchia con la sua gonna larga. Quella specie di pudore inaspettato colpì favorevolmente Sergio. A ripensarci dopo, era forse l’aspetto di lei che gli era piaciuto di più; dopo quei due grandi occhi neri. La ragazza cominciò a parlare disinvolta. Quasi offensiva nel tono di voce.
«Guarda, mi hanno detto che lavoro alle tue dipendenze, nelle quattro pagine che decidi tu. Non ti nascondo che sono straraccomandata. Tanto lo sai già».
Quando lo assalivano così, nonostante i suoi quasi cinquant’anni, Sergio si vergognava e diventava quasi sempre tutto rosso. E così successe anche quella volta. Perdio — pensò — non posso mica farmi vedere così timido con le donne come se fossi un ragazzino, e attaccò discorso.
«Vede signorina» disse con tono quasi professionale «non è che comando io. Io sono caporedattore. In un certo senso lavoro più degli altri per chiudere le pagine, ma non comando. Comanda il direttore che nel nostro caso non sta neanche a Milano».
Lei rimase stupita da quel tono e sorrise e quello era il segnale per Sergio che così non andava. E poi la ragazza aveva capito che a lui non spiaceva. E allora Sergio si mise a parlare del più e del meno. Si informò cortesemente dei suoi studi, da dove veniva, dove stava. Ma lei era molto elusiva, quasi non rispondeva e continuava a guardarlo con quei due grandi occhi neri che lentamente lo attiravano. Finì per darle appuntamento per il giorno dopo.
Se ne uscì dalla redazione del giornale più tardi del solito. Non sapeva bene cosa fare. Verso le 21 telefonò a un’amica con cui aveva una storia di sesso. Gli rispose la figlia, che dopo aver detto che la mamma non c’era lo invitò a passare a casa lo stesso a bersi qualcosa. Lui declinò in fretta l’offerta. Poi si infilò in un minuscolo cinefilm dove davano il solito film tedesco coi sottotitoli in francese. Di quelli che piacevano un sacco alla sua ex moglie. Mentre entrava pensò un attimo alla ragazza che poco prima al telefono l’aveva invitato a passare a casa sua e si disse: ma che cazzo di città è questa, adesso pure le figlie che ti vogliono fare di nascosto dalla madre, e si cacciò sconsolato a vedere quel film. Alla fine se ne uscì di nuovo sulla strada.
Cominciò a camminare sul marciapiede di destra. Ogni tanto qualche tram sferragliava venendo incontro a grande velocità. Mentre camminava cominciò a contarli. Era a sette quando attraversò la strada per dare un’occhiata in un grande negozio di jeans. Le luci intermittenti rischiaravano l’interno della vetrina. C’era il manichino di una ragazza. Era vestita quasi uguale alla ragazza che aveva visto il pomeriggio in redazione.
Pensò a quei due occhi grandi e neri. Si sentì attirato profondamente. Si staccò dalla vetrina quasi con rabbia. Ci manca solo che mi metta con qualche ragazzina — si disse — e continuò a camminare lungo la strada. Poi cambiò idea e saltò su un jumbo tram che si era appena fermato. Tirò fuori un biglietto dal portafoglio e ripensò alla ragazza. Quella sicuramente non paga il biglietto — pensò — e rimase con il biglietto in mano per un po’ davanti alla macchina obliteratrice. Alla fermata successiva un ragazzo salì di corsa e si fermò ad aspettare dietro di lui. Guardò Sergio che stava lì col biglietto in mano e tossicchiò. Sergio allora mise il biglietto nella fessura quasi automaticamente e il suono metallico della macchina lo svegliò.
“Facemmo una serie di appostamenti: poi una sera, siccome eravamo stanchi di aspettare e non lo vedevamo mai, decidemmo di stare lì fermi… Quella sera io e il Marocco rubammo un furgone 850 dalle parti di Porta Genova e ci portammo lì per fare l’azione, se il Tobagi fosse passato. Aspettammo e forse demmo troppo nell’occhio, tanto che nella casa sopra l’entrata del palazzo, di fianco al tabaccaio in via Solari, una donna si affacciò alla finestra, poi abbassò la tapparella e spense la luce. Al che pensai che ci avesse sgamato e segnalammo agli altri di stare attenti”.
Per due mesi la ragazza dai grandi occhi neri lavorò con Sergio alle quattro pagine del quotidiano. Ogni due o tre giorni portava dei pezzetti di cronaca e colore sui locali alternativi milanesi che sbucavano come funghi, su qualche gruppetto teatrale che recitava nelle case occupate, su l’ennesima radio libera che cominciava le trasmissioni. Non erano pezzi entusiasmanti. Sergio li leggeva e ci faceva le correzioni. Sembravano dei compitini da scuola media.
Dopo un mese di lavoro, cedendo alle sue insistenze, uscirono una sera insieme. A Sergio non andava di farsi vedere con lei in giro. Al giornale cercava di trattarla a metà tra il cortese e il paterno. Ma lei invece gli si faceva sotto, lo guardava negli occhi fino a farlo diventare rosso, lo prendeva sottobraccio quando uscivano qualche volta insieme dalla redazione nell’intervallo di pranzo a prendersi un panino.
La ragazza lo portò in giro quella sera in quei locali di cui parlava nei suoi articoletti. In mezzo a tutti quei ragazzi, che per lui potevano quasi essere suoi figli. Mangiarono in piedi prima un panino in un locale che proprio faceva schifo. Ed era pure caro. Poi in un altro bevvero un bicchiere di vino bianco. E via in giro da un’altra parte. E lei che ogni volta baciava tutti gli uomini e le donne che incontrava. E come non bastasse lo presentava agli amici. E tutti mangiavano quei maledetti panini. E alla fine andarono in un altro locale dove suonavano del jazz e finalmente Sergio era riuscito a farla sedere a un tavolo e a farsi servire una buona bottiglia.
E mentre c’era un sax che suonava lei gli disse: «Mi piaci un sacco, mi va di scopare con te».
Sergio ci rimase. Lui senza la poesia non ci riusciva proprio. E poi come si fa a farsi dire ti voglio scopare da una ragazza di quasi vent’anni più giovane? Ma nonostante ce la mettesse tutta per fare il contrario, la ragazza un certo fascino l’aveva. E poi si vedeva che nonostante tutti gli sforzi che faceva per essere sgarbata, un po’ di buone maniere le aveva imparate da piccola. Sentì quegli occhi neri che lo attiravano sempre di più e per non caderci attaccò discorso, per dirle magari qualcosa di sgradevole. Ma lei si avvicinò e gli diede un bacio profondo sulla bocca. Sergio a sentire quelle labbra rinvenne dal suo stupore, ma non contraccambiò.
«Mica sarai finocchio» gli disse.
Pure la stronza fa adesso — pensò in un attimoSergio, e sentendosi provocato le mise una mano sul seno. La maglietta sottile gli fece sentire subito il capezzolo. Sergio ritrasse la mano come se pungesse.
«Ma che fai? Togli la mano?» e nel dirlo lo baciò sull’orecchio.
Sergio si ritrasse ancora e lei lo guardò di nuovo interrogativa.
«Senti,» le disse «se vogliamo scopare come dici tu va bene, ma non mi piacciono queste cose in pubblico».
«Allora andiamo da te e scopiamo».
Lui fece il viso stupito.
«Va bene, non ti va che il tuo portiere ti veda salire con una ragazza; allora andiamo da me».
E Sergio fece sì con la testa. Le chiese solo: «Dove stai» e poi non disse più nulla.
Uscirono e mentre aspettavano il tram lei cominciò a baciarlo intensamente sulla bocca. Sergio la strinse un attimo contro il palo della fermata e si sentì una vampata dentro. Ma lo sferragliare del tram lo fermò. Salirono di corsa. Lei lo condusse per mano a sedersi vicino al conduttore senza pagare il biglietto. Seduti sulla panca a ogni curva si scivolavano addosso. Sergio all’inizio puntò i piedi per evitarlo, ma poi anche lui finì per assecondare le spinte del tram e per stringerla sempre più forte ogni volta che il movimento lo spingeva verso di lei.
“Dopo alcuni minuti arrivò una pantera della polizia, sgommando. Si ferma di colpo davanti al portone, mi guardano e stanno per scendere dalla macchina. Aprono le portiere, uno mette un piede a terra”.
Dopo quella notte passata insieme la ragazza si fece vedere molto meno al giornale. Aveva da fare un paio d’esami all’università. Così gli aveva detto. Ma lui dopo un po’ si accorse che lei gli mancava. Avevano fatto l’amore in maniera intensa e pulita. Forse un po’ troppo per i gusti di Sergio. Gli era già successo anni prima con una donna anche lei molto giovane. Fare l’amore con loro —pensava Sergio — è un fatto ginnico. Non hanno più il fascino del peccato. Poi hanno quel modo di svestirsi completamente prima di infilarsi a letto. Che uno se le ritrova nude per intero e non ci resta che fare all’amore. Tutte e due le volte che gli era capitato gli era tornata in mente sua moglie che ce n’era voluto del bello prima di farla spogliare per intero. Ma a dir la verità erano anche gli anni del dopoguerra. Era tornato con la mente a quando, ancora fidanzati, erano andati insieme a vedere Poveri ma belli, un film scandalo per allora, e al ritorno lui aveva dato i numeri e aveva cercato di fare all’amore in Topolino. Finché sua moglie non gli aveva mollato uno schiaffo che gli aveva lasciato il segno delle dita in faccia per qualche giorno. Sergio sua moglie l’amava ancora, proprio tanto. L’aveva incontrata al liceo e si era innamorato subito di lei. Con quegli occhi azzurri sembrava uscita da un libro di mitologia greca. Ma un giorno, dopo tanti anni che stavano insieme, se n’era andata con un architetto fuori Milano per un week end e non era più tornata.
A fine giugno la ragazza dagli occhi neri si fece vedere ancora per un attimo al giornale. Sergio se la ritrovò in ufficio e non riuscì a celare una certa emozione. Fumava una sigaretta dietro l’altra mentre stava sistemando un pezzo di cronaca su una festa di Democrazia Proletaria al parco Ravizza. «Senti», le disse diventando tutto rosso, «ci vediamo stasera?»
Lei lo guardò, quasi sfottendolo, negli occhi. «Non ti sarai mica innamorato».
Sergio disse un no secco, come una schioppettata, e ci sentì dentro un eccesso di smentita. Si girò a fingere di controllare una piantina di Milano appesa alla parete mentre lei usciva aprendo lentamente la porta. Poi sentì la sua voce che diceva: «Mi sono rotta di questo lavoro. Me ne vado in Sud America. A settembre magari ripasso».
“Io avevo il loden con le tasche tagliate e la mano sulla pistola (una 9 con il combat). Misi mano alla pistola facendo intendere che ero armato, feci solo segno, senza estrarla da sotto il cappotto. Contemporaneamente il Marocco col pulmino 850, assieme al Felice, si avvicinò col furgone dietro alla pantera”.
A settembre la ragazza dagli occhi neri non passò proprio. Sergio continuò a fare le sue pagine per un po’. Poi il giornale decise di chiudere quelle quattro pagine di cronaca milanese e Sergio tornò a scrivere i suoi articoli di vita e costume. Faceva la sua solita vita. Di giorno al giornale, di sera il più delle volte solo. Qualche week end fuori Milano con donne della sua età.
A metà dicembre di quell’anno per caso incontrò sua moglie in Galleria, dove si era messa a frugare in un negozio di libri a metà prezzo. «Posso accompagnarti» le disse, e al suo assenso la prese sottobraccio. Lei sorrise, come faceva tanti anni prima. Prima che se ne andasse con l’architetto. Era un po’ invecchiata, ma col passare degli anni i suoi occhi azzurri si erano fatti più chiari, quasi trasparenti. Così le disse per incominciare: «I tuoi occhi sono sempre più luminosi, sembrano stelle».
«Non fare lo stupido, Sergio, possibile che mi fai sempre la corte?»
«Ma io sono innamorato cotto, lo sai».
«Stai zitto» gli disse, mettendogli un dito sulle labbra.
Poi andarono al Motta a prendere un caffè.
«Sarai pieno di donne» lei disse.
Sergio sorrise. «Mica tante, poi. Sai, le solite storie di sesso. È difficile innamorarsi alla nostra età».
«Non dire così, non è vero».
L’accompagnò attraverso la grande piazza. Poi lei si perse nel tram che caricava la gente delle sei di sera.
Sergio passò quell’anno il natale più solitario della sua vita. Non aveva voglia di vedere nessuno, nemmeno una di quelle sue amiche con le figlie emancipate. Girò un po’ per le strade di Milano, quelle strade piene di gente coi regali sottobraccio. Per capodanno gli venne un’idea strana. Fare un regalo alla ragazza dai grandi occhi neri. Non aveva molto senso. Ma Sergio si divertiva a seguire le idee balzane che gli passavano per la testa. L’ultimo dell’anno, prima di uscire dal giornale, si annotò su un pezzetto di carta il numero telefonico. Glielo aveva lasciato lei una sera, ma lui non l’aveva mai usato. Esitò un attimo prima di telefonare. Forse non era una buona idea telefonare l’ultimo dell’anno a casa di una ragazza di vent’anni più giovane. Poi si decise. Gli rispose una voce di donna: la signorina non è in casa. Doveva essere la domestica.
“Battisaldo, dall’altro lato della strada, si mise anche lui in atteggiamento d’azione; questi si guardarono in faccia e ripartirono, probabilmente intuendo qualcosa. Il furgone seguì il giro della piazza della pantera e tornò a caricare me e il Batt; andammo via, mollando il progetto. Questa storia finì così”.
Deposizione di Rocco Ricciardi, processo Rosso-Tobagi, 22 aprile 1983
A primavera Sergio partì per alcuni mesi dall’Italia. Il suo giornale gli aveva chiesto se voleva fare un giro in Germania per dei reportage sul mondo giovanile tedesco. Si era pensato a lui — gli aveva detto il direttore — per le sue brillanti doti di analista di vita e costume degli ambienti giovanili. Sergio ci sentì un’allusione al periodo in cui curava le pagine di cronaca cittadina e girava con la ragazza dai grandi occhi neri. La proposta non lo entusiasmò, come nulla del resto da anni. Ma aveva voglia di cambiare aria. Prima di partire andò a passare il week end con una delle sue amiche, un fine settimana in montagna. Poi se ne andò in Germania senza rimpianti e desideri.
Era ad Amburgo quando un tardo pomeriggio rimase esterrefatto nell’aprire i giornali italiani. Un suo collega, che tra l’altro conosceva anche personalmente, era stato ammazzato sotto casa. L’attentato era stato rivendicato da una sigla minore del panorama terroristico. Sergio pensò a Milano, al senso di desolazione che gli aveva dato negli ultimi anni. A tutti quei ragazzi che aveva visto quella sera quando la ragazza dagli occhi neri lo aveva trascinato per quei locali alternativi. E alla fine era finito nel letto a casa sua. Ora che ci pensava la casa era proprio vicina alla redazione del giornale del giornalista morto ammazzato. Pensò un attimo a questo particolare del tutto insignificante. Chissà dov’era la ragazza, se lavorava, se era ancora a Milano. Chissà se si ricordava di lui. Devo essere stato una specie di trofeo. Una cosa da raccontare alle amiche, pensò scuotendo la testa.
Restò in Germania tutta l’estate e l’autunno. Ogni tanto pensava che doveva telefonare a qualcuno in Italia, ma esaminata freddamente questa spinta concludeva che non c’era nessuno che aspettasse la sua telefonata. Se non al giornale, ma lì si trattava di lavoro.
Una volta gli venne l’idea di chiamare sua moglie, un’idea fissa che gli durò per giorni. Ma non lo fece. Sarebbe finita come al solito. Con lei che gli diceva: Sergio, non fare lo sciocco per favore. A novembre rientrò a Milano. Non era cambiato proprio nulla. La città era più tetra e desolata del solito. Qualcosa di nuovo succedeva, ma certo non di bello. Le pagine del suo giornale e degli altri ogni settimana erano piene di titoli a scatola che annunciavano decine e decine di arresti. Si trattava quasi sempre di giovani, se non addirittura a volte di ragazzi. Vedeva le loro foto segnaletiche pubblicate in prima pagina nei giornali del pomeriggio. Ogni tanto si fermava a guardare quei volti deformati. Per vedere se conosceva qualcuno. Se c’era magari la ragazza dai grandi occhi neri.
Ma lei non c’era. Chissà dove era sparita.
Poi una sera, mentre era in redazione, l’aveva avvicinato Mario, uno della cronaca.
«Ti ricordi quella ragazza che lavorava da te due anni fa?»
«Quella ragazza mora con gli occhi neri?»
«Sì, proprio lei».
«E allora?»
«Sta venendo fuori dalle indagini che è la ragazza di quello che ha ammazzato il giornalista in maggio».
Sergio rimase a bocca aperta.
«Giusto, tu eri in Germania. Ma qui è successo il finimondo. Non ti dico il casino anche nei nostri ambienti. Sembrava proprio un delitto nato in casa».
Sergio era come paralizzato. Mario nell’uscire gli mise una mano sulla spalla.
«Dai Sergio, smuoviti. Ormai tutto è già avvenuto».
* L’opera Trittico milanese di Paolo Pozzi, pubblicata sulla rivista Paginauno tra febbraio e settembre 2011, è composta da tre racconti: Controvoglia, La ragazza svanita nel nulla, Gli atti del postino, rispettivamente pubblicati sui numeri 21 (febbraio-marzo), 22 (aprile-maggio), 23 (giugno-settembre). Ringraziamo la rivista e l’autore per averci consentito la pubblicazione on line.