di Valerio Evangelisti
[Questo articolo è l’introduzione al volume di Luca Barbieri Storia dei licantropi, ed. Odoya, 2011, pp. 379, € 20,00.]
Ancora a metà degli anni Sessanta, il serissimo Grande Dizionario Enciclopedico UTET riportava la voce Licantropia, tra quelle dedicate alla medicina. Ne parlava come di una forma di psicosi legata agli effetti della luna piena, dalla sintomatologia variabile però verificata.
In seguito le certezze mediche si attenuarono, e i riferimenti ai lupi anche. Quella che un tempo era detta “licantropia” fu associata alla porfiria, una patologia genetica davvero tremenda su cui si sofferma Luca Barbieri in questo suo eccezionale, dottissimo saggio. Sta di fatto che se il mito del vampiro è sostanziato da pochi elementi di verifica concreti, quello dell’uomo-lupo ne conosce invece molti, fin dalla notte dei tempi. D’altra parte, il successo cinematografico e multimediale dei vampiri si è appoggiato a trasposizioni letterarie di grande successo (a cominciare dalle opere di Polidori, Le Fanu, Stoker ecc.), mentre quello dei lupi mannari ha piuttosto alle spalle cronache locali, resoconti, dossier di polizia.
Per intenderci, il più noto uomo-lupo dello schermo, Larry Talbot, non nasce da un romanzo che lo abbia a protagonista, come invece accade per Dracula, Carmilla e tanti altri precursori e imitatori. Ha invece una serie di documenti che testimoniano di una paura diffusa, antica e forse basata su esperienze concrete.
L’appeal dell’uomo-lupo sulla letteratura è relativamente recente, e comunque largamente inferiore a quello del vampiro, per una ragione a mio avviso piuttosto evidente. Il licantropo non esercita il richiamo sessuale distorto che connota il suo più diretto rivale, nella famiglia dei mostri. Nemmeno si presta molto a letture mistiche, a differenza di Dracula, interpretabile come una sorta di anticristo. Il lupo mannaro è semplicemente un uomo che scatena la propria forza bruta, consapevolmente a volte, inconsapevolmente nella maggioranza dei casi. A ben vedere, rispetto a questo il fatto che si trasformi in lupo, del tutto o in parte, è in fondo accessorio. Potrebbe comportarsi da lupo anche senza modificare la propria parvenza fisica.
Siamo dunque in presenza del meno sexy dei mostri. Non a caso, la recente saga cinematografica di Underworld ne fa una specie di proletario, a fronte degli aristocratici vampiri; e non dissimile, pur se in forme differenti, è il trattamento che gli riserva l’altra saga del momento, Twilight.
Se Dracula è dunque una sorta di Cristo ribaltato, che invece della vita eterna promette la morte eterna, il licantropo è piuttosto un “povero Cristo”. Non servono con lui crocifissi o acqua benedetta ustionante. Basta nel suo caso un proiettile qualsiasi. D’argento, sì, ma il dettaglio vale solo a nobilitare pagine tristi tratte dalla storia criminale. In realtà, un fracco di legnate sarebbe forse sufficiente.
L’uomo-lupo è eternamente infelice. Larry Talbot, per esempio, si macera nella malinconia, davanti a una malattia che non riesce a controllare. Certi vampiri, della loro condizione di non-morti, mostrano fierezza. Il licantropo no. Se riacquista coscienza delle azioni commesse in stato bestiale, vorrebbe morire. Dracula è creatura semi-divina e semi-infernale. Il lupo mannaro è solo malato, e ne è consapevole. Riaffiora così, con inquietante frequenza, nei racconti popolari. Del popolo fa parte, non diversamente dai Morlocks che, ne La macchina del tempo, Wells descrive come proletari di fabbrica regrediti a condizione bestiale, in un futuro in cui le classi si sono ripartite la superficie e i sotterranei della terra. Ai “lupi” spetta di diritto il sottosuolo, e la ferocia è l’unica arma che possiedono per affermare una loro dignità. Nonostante ciò restano dei perdenti nati, capaci di fare paura ma non di sovvertire alcunché. La gleba della gleba, malata nel corpo e nella ragione.
Ci sono elementi in evidente contrasto con la mia interpretazione. A parte i molti esempi portati da Luca Barbieri, potrei citare i vexillarii: veterani dell’esercito romano con, sull’elmo e le spalle, testa e pellame di un lupo (o di un orso, o di un leone). Insigniti dell’onore di portare l’aquila della Legione, difesi dagli altri combattenti, punto di riferimento per dove concentrare l’attacco. Una funzione chiaramente nobilissima.
Solo che un conto è sommare alle virtù di un uomo quelle di una belva, un altro conto è regredire alla condizione di lupo, tanto da cancellare l’essenza umana. Nel secondo caso l’esito è il precipitare nelle pure tenebre, nella bestialità senza speranza. E poco importa che Freud, nel manto bianco dei lupi sognati da un suo paziente, scorga il candido vello degli agnelli, e i segni di una mutazione in corso. Se trasformazione c’è è irreversibile e, almeno in questo caso, priva di alibi sessuali attendibili.
L’uomo-lupo è pura bestia feroce. Non suscita pietà, sebbene la chieda ogni volta che ha un risveglio di coscienza. Lo attende non un paletto, bizzarra caricatura del legno della croce, bensì un proiettile nel cranio. Rivestito d’argento per contrappasso cromatico: eri nero, il bianco ti ucciderà. Il mostro proletario morirà come merita: un semplice colpo in testa. Tipo gli zombies di tanti anni dopo, appartenenti alla sua stessa, infima, classe sociale.