di Luisa Catanese
Era facile arrampicarsi sull’albero dei rusticani. Diramava dal breve fusto come una mano si apre ad artiglio, nodosa, su di un polso sottile. Un ramo primario era monco. Era stato reciso, pensavo, quando mio nonno si era tagliato il pollice della mano sinistra con una roncola.
Pare se lo fosse tagliato di proposito, mentre faceva legna, per evitare o almeno ritardare la partenza per il fronte russo. Non trovò subito la misura e la forza giusta. Ritraeva la mano a ogni fendente, all’ultimo momento, con uno scarto minimo. Per quanto cercasse di approssimare la lama al dito, la mano carnefice e la mano sacrificale obbedivano a volontà diverse. Quando finalmente si ferì la giuntura tra le falangi, e vide il sangue spicciare sulla neve, vibrò rabbioso colpi ripetuti. Le due falangi del pollice caddero a terra e guizzarono via. Il mio antenato si faceva serpe, quando lo raccontava, e faceva serpe il dito imitandone la vitalità e il sibilo.
L’uomo che gioca in quel modo è il fratello maggiore di suo padre. Quei giochi, pensa Mario, sono un modo per imparare, per quando crescerà.
Il padre di Mario è un impiegato; lo zio invece, si dice in famiglia, con le mani sa fare di tutto: è un operaio, un falegname, un muratore, un imbianchino, un idraulico. Il padre ha spiegato al figlio: «Non dire mai di un operaio che viene dal lavoro: “È sporco”. Devi dire: “Ha sui vestiti e sulle mani i segni del suo lavoro”. Ricordalo sempre». Il padre di Mario ha letto e riletto Cuore di De Amicis, e lo cita spesso. Ha studiato, si è diplomato, ha interrotto gli studi di Economia e commercio, ma assicura che sarà laureato prima che il figlio inizi l’università. Invece lo zio ha cominciato a lavorare durante la guerra, mentre il nonno era soldato.
I nonni di Mario si sono sposati molto giovani; hanno lavorato e risparmiato per tutta la vita; non hanno studiato, hanno fatto studiare il figlio più piccolo: «Il più intelligente», dice la nonna. «Cosa vuoi mai, erano altri tempi». L’ha detto centinaia di volte, di fronte a Mario e a chiunque.
Il nonno non dice niente, si guarda le mani, sorride. È contento che Mario possa studiare, è sicuro che studierà. Ha quasi paura che se cambia il governo, se va al potere il partito che ha sempre votato, i suoi figli e suo nipote, «ora che stanno bene», possano perdere le case e i risparmi. Sente il dovere di recitare le ansie quasi segrete dei suoi discendenti, perché il maggiore dei suoi figli è diventato un imprenditore e l’altro lavora in banca.
Lo zio di Mario, come il nonno, è un uomo che sa edificare con le proprie mani. Impianti sportivi: costruzione e manutenzione di campi da tennis e da bocce. Ha imparato dal nonno di Mario tutto quello che c’era da imparare e ha una lunga esperienza: le sue opere sono durevoli, resistono alle offese. Spesso, quando si siede a tavola, le sue unghie sono sporche, orlate di una morchia che sembra indelebile, ma dirlo in casa è vietato. Se qualcuno osa biasimarlo, c’è subito chi lo soccorre. «Un uomo lavora una vita intera, si sacrifica per gli altri, e poi c’è della gente che gli dà tutte le colpe», dice sua moglie. «Gli altri» di cui parla sono i nonni di Mario, il padre di Mario, la madre di Mario. Gli altri sono Mario.
La moglie dello zio non può avere figli, ma non importa: lavora, guadagna, risparmia. Oltre alle faccende domestiche, a casa propria lavora a cottimo, qualche volta anche la sera, guardando la tivù col marito, che spesso le dà una mano, come dice lui, per ammazzare il tempo. La moglie dello zio ha chiuso, avvolto, rivestito, riempito, cucito, attaccato, incastrato, assemblato, montato di tutto: confezioni, coccarde, guarnizioni, bomboniere, souvenir, gingilli di plastica, pacchetti, boccette. Per anni ha vestito bambole. Per qualche anno ha lavorato in una mensa, da cui attingeva le rimanenze per la propria casa e gli avanzi per le bestie del vicinato – o anche per sé, dicono i maligni. Quando era più giovane, e il marito non lavorava ancora in proprio, un paio di volte alla settimana «faceva le pulizie a casa di un signore».
Lo zio invecchia male, ma ha guadagnato abbastanza per rischiare di mettersi in proprio. Pare che la banca dove lavora il fratello gli abbia concesso crediti molto vantaggiosi. Così può lavorare e guadagnare di più. Risparmiare, saldare in fretta i debiti, guadagnare, comprare piccole case. Abita in un piccolo appartamento a un paio di fermate di autobus dalla casa di Mario, nello stesso caseggiato dei nonni. Si è costruito una casetta al mare, dove la moglie passa una parte dell’estate; una casa che a volte lo zio concede, o più volentieri affitta, ad amici, vicini di casa e parenti, e dove lui dorme di rado: solo se lavora da quelle parti, o magari, nella bella stagione, qualche fine settimana. Mai per una vacanza di una settimana intera.
Per lo zio e la zia, che non hanno figli, Mario è quasi un figlio, dice il padre di Mario. Quando Mario torna da scuola, pranza dai nonni o dalla moglie dello zio. Lo zio, se lavora in città, torna a casa a mangiare in fretta quello che gli prepara la moglie. Da qualche tempo Mario non lo guarda in faccia, anche se siede alla sua destra. Guarda la tivù per non vedere il bolo macinato, impastato da quei denti dolorosi, caramellati di tartaro e nicotina. In quella bocca masticano i denti di generazioni di contadini montanari, e anche i denti radi, lunghi, sguainati dalla piorrea, del nonno. Non è forse quella la sua colpa, non è anche quella? Quella bocca, quei denti, quelle mani, quelle unghie che non riescono a essere mai completamente pulite, nemmeno quando si siede a tavola.
Sono bocche che hanno pregato, bestemmiato, raccontato storie ai figli e ai nipoti. Ma se i nonni, quando Mario mangia con loro, hanno sempre storie da raccontare, storie di guerra, lavoro contadino, amori e beffe, sembra che gli zii vivano in un presente smemorato dall’ansia e dal lavoro.
Una sola volta lo zio gli ha raccontato una storia di quando lui non era ancora nato. Camminava lungo le rive del Reno, da solo; era una scorciatoia per andare dal lavoro a un chiosco dove si mangiavano i ranocchi fritti. Lo zio era passato accanto a una piazzola sterrata, circondata da pioppi che non finivano più, dove stava un accampamento di zingari, e si era fermato un momento a guardare. Aveva visto donne che parlavano e cucinavano, bambini che giocavano con le mani e i piedi nel fango. Un uomo l’aveva visto, si era avvicinato, gli aveva mostrato un coltello: lo aveva minacciato, gli aveva ordinato di stare alla larga.
La verità è che Mario non sa quasi niente del loro passato. Ma forse non è la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità: questo è ciò che vuole ricordare e raccontare Mario.
Agli zii, mentre si sta a tavola, se la tivù è spenta, Mario spiega le scienze della natura: l’origine dell’universo, gli atomi, le cellule, l’evoluzione della specie, i pianeti, le stelle, le galassie. Poi torna a casa e passa interi pomeriggi da solo in camera a leggere racconti di fantascienza e a fare piccoli esperimenti. D’estate ha tolto dal frigorifero del prosciutto crudo e lo ha nascosto dietro i libri della sua camera, finché di notte, prima di prendere sonno, non ha sentito l’odore della carne sudata.
Il fratello del padre è come quella carne rossa, salata, stagionata per durare ma conservata male. Quell’uomo, qualcosa di quell’uomo, pensa Mario, è andato a male. Mario pensa che non avrà figli, non li avrà finché suo zio sarà vivo e finché la gente come suo zio non andrà più spesso in vacanza.
Mario va spesso a casa dell’uomo che gli insegna i giochi che fanno i grandi. Quei giochi, dice a se stesso, sono un modo per imparare, per quando crescerà.
Nei pomeriggi d’inverno, dopo aver pranzato, Mario non dorme volentieri. Non gli piace dormire in un letto estraneo, tra il copriletto e le lenzuola. Ma se la notte hai dormito male, gli dicono, devi riposare al pomeriggio. Per stare bene, bisogna fare qualche sacrificio, come i grandi.
Lo zio lavora sempre, ha sempre lavorato. Quando riesce a pranzare a casa, sonnecchia sul divano per qualche minuto prima di tornare al lavoro. Una volta si è riposato accanto a Mario. Quando lo zio si è alzato, le lenzuola erano un fazzoletto ripiegato nella tasca, pieno di muco caldo appena soffiato.
Passano i giorni e un giorno, all’ora di pranzo, lo zio entra in bagno per cambiare i pantaloni. Cambia i pantaloni che ha sporcato al lavoro. Non è la prima volta che li toglie mentre il bambino è in bagno. Il bagno è piccolo; il bambino è seduto sulla vasca e annusa i sudori dell’uomo. Non vuole giocare, non sa stare allo scherzo: è un bambino scorbutico. No, questo bambino è un pazzo: lo ha morso, lo poteva mutilare. Ma non sarà il trionfo del piccolo eroe di una fiaba, non è l’ultima prova per passare oltre l’infanzia.
Una sera, dopo cena, mentre la moglie guarda la tivù, lo zio bussa alla porta del bagno e gli chiede sottovoce di seguirlo nella stanza da letto. Lo zio gli regala dei soldi. Gli regala dei soldi ogni settimana. Glieli regala in presenza della moglie, e ogni volta Mario li ringrazia e li bacia. A volte lo zio, senza che nessuno li veda, gli regala altri soldi. Forse quella sera no. Quella sera gli vuole insegnare un gioco nuovo, ma bisogna fare in fretta.
Appena l’uomo comincia il suo gioco, la moglie entra nella stanza. Mario è la figlia vergine, insidiata dalla soldataglia nemica davanti alla madre disperata. L’uomo prende la donna con rabbia, mentre Mario è ancora steso sul letto, lì a fianco. L’uomo non riesce, bestemmia, o forse finisce appena inizia. Non è facile capire, non si vede; tutto si svolge in fretta, tutto si è svolto secoli fa. Non è nemmeno successo. L’uomo va in bagno, ancora rabbioso. La donna chiede al bambino di darle conforto. Ma forse è lei che vuole, che crede di consolarlo, e lui non capisce. Mario pensa che voglia la sua parte. Lei è la donna con la faccia da vecchia che partorisce un vitello, se il bambino lo sguaina, glielo toglie da dentro. Il vitellino ha gli occhi chiusi, la testa piccola come la sua mano. Mario guarda le sue mani fradice, di grumi di sangue e di alghe, e si sveglia. L’uomo torna e si infuria di nuovo, per l’ultima volta.
Guardano la tivù in silenzio. Non si sono mai mossi di lì. Un limìo di suoni. Un’apnea luminosa fino al sonno. Vanno a dormire. Mario dorme da loro. Quando si svegliano, lo zio non è in casa. È un sogno difficile da dire; e quello che non si dice prima o poi si dimentica, ritorna un sogno, non esiste più, continua a fare male.