di Valerio Evangelisti
[Se ne è andato ieri un grande: grande scrittore, grande uomo, grande traduttore. Non troverete la notizia sulla “stampa che conta” (in realtà, nel sociale, non conta più un accidente, ed è bene così). La morte di colui che, più di ogni altro, ha dato in Italia dignità letteraria alla narrativa fantascientifica e fantastica, non può interessarla. Da parte mia, l’emozione per la scomparsa di un amico fraterno, veramente, mi toglie le parole. Preferisco riproporre la mia prefazione a una sua antologia, Retrofuturo, Shake Edizioni, 1999. Un’altra antologia di Vittorio è in libreria. Vedi qui.]
Siamo in parecchi, credo, a riconoscere in Vittorio Curtoni l’uomo che ha modificato profondamente la visione della fantascienza che si aveva in Italia, e che le ha permesso di accedere a un diverso e superiore status culturale. Tutto merito di una rivista mensile, Robot, che quando apparve, nell’aprile 1976, pareva in apparenza molto simile alla popolare Urania, nel formato esterno; ma che risultava diversissima, e in un certo senso antitetica, nei contenuti, nello spazio accordato alla saggistica, nella scelta prioritaria del racconto quale forma narrativa, nello stesso corredo iconografico, eccezionalmente ampio.
C’erano stati dei precedenti, anche molto illustri. Futuro, per esempio, che sotto la guida di Lino Aldani e di altri curatori di valore aveva presentato, tra il 1963 e il 1964, una serie di racconti italiani di qualità variabile; o la raffinatissima Gamma di Valentino de Carlo, uscita tra il 1965 e il 1968 senza complessi di inferiorità nei confronti della letteratura “alta” e con una sezione saggistica che ancora oggi impressiona per l’intelligenza dei contributi. Robot, pur essendo molto diversa da entrambe le testate, si inseriva in qualche modo nella loro scia, con un quid in più di cui dirò tra breve.
Lontane anni luce erano invece non solo le pubblicazioni popolari che dominavano o avevano dominato le edicole, come l’eterna Urania e il suo parente povero defunto nel 1967, l’illeggibile I Romanzi del Cosmo dell’editore Ponzoni; ma anche tentativi più ambiziosi quali Galaxy, e la successiva Galassia. Soltanto nelle mani prima di Vittorio Curtoni e di Gianni Montanari, e poi del solo Montanari, questa testata aveva raggiunto una certa dignità. In precedenza, pur presentando testi di tutto rispetto, era stata il crogiolo dei malumori verso l’odiato mainstream, delle rivalità interne, dei complessi di persecuzione, delle allusioni oscure e maligne a colleghi e concorrenti. In una parola, una perfetta sintesi della fantascienza intesa come ghetto, popolato da chi nel ghetto si compiace di rimanere e non vede un centimetro al di là delle sue pareti.
Robot mostra subito un’aggressività culturale che del ghetto è l’antitesi. Intanto presenta col dovuto rilievo autori di cui pochi avevano notato a fondo l’importanza. Fritz Leiber, per esempio, che si merita fin dal primo numero, a corredo di un proprio racconto, una biografia e una bibliografia accurate del livello delle presentazioni che, in quella stagione d’oro, Riccardo Valla sta premettendo ai volumi rilegati della Editrice Nord. Nello stesso numero, altri due autori di eccezionale livello, Damon Knight e il trasgressivo Thomas Disch, accompagnati dal discontinuo Harry Harrison in vena ironica, cioè al suo meglio, lasciano intuire scelte non casuali, effettuate seguendo una trama non ancora palese, ma chiaramente intessuta all’insegna del buon gusto.
Quest’ultimo predomina anche nella saggistica. Un lungo articolo di Giuseppe Lippi su fantascienza e letteratura popolare, un’intervista di Patrice Duvic (poi direttore delle collane della casa francese Fleuve Noir) a un altro grande trasgressore, Harlan Ellison; e poi cinema, recensioni, fumetti e altro ancora. Il tutto in un linguaggio sobrio e colto, scevro di quegli aggettivi mirabolanti (“capolavoro”, “opera inimitabile”, “stupendo”, “indescrivibile” ecc.) che impastavano la salivazione dei primi curatori di Galassia e di altre rivistine minori.
Ma tutte queste promesse, poi ampiamente mantenute nei numeri successivi di Robot, non sarebbero state sufficienti a fare la diversità della rivista se, fin dall’inizio, tanti materiali non fossero stati conditi e amalgamati dalla personalità del direttore. Fin dai primi fascicoli il lettore scopre di stare dialogando, lo voglia o no, con un personaggio fuori del comune. Colto, sferzante, talora collerico, più spesso sottilmente derisorio nei confronti dei vizi dell’ambiente, dà il tono all’intera rivista con i propri editoriali, e poi con una rubrica della posta tanto ben fatta che meriterebbe di essere ristampata per intero. Finalmente si ha a che fare con un intellettuale vero, per cui la fantascienza non è che una delle espressioni culturali del nostro tempo, caratterizzata da un’intelligenza intrinseca che altre non possiedono. Nessuna cultura del ghetto, nessuna inclinazione alla rissa tra topi chiusi in una gabbia troppo stretta. Apertura, invece, alle problematiche del presente, al mondo delle idee senza aggettivi, persino all’attualità, così disprezzata dai suoi impari colleghi.
Numero dopo numero, Vittorio Curtoni osa l’inosabile. Auspica a tutte lettere il comunismo (siamo nei dintorni del ’77), suscitando le proteste isteriche di una buona fetta di lettori; dà spazio a polemiche femministe, antifasciste, anticlericali e quant’altro; pubblica racconti in cui il sesso è trattato in maniera esplicita quando altre riviste lavorano di forbici sulle frasi più innocenti; manda al diavolo un corrispondente e ne invita un altro al ragionamento; ma soprattutto, piano piano, guida il gusto dei lettori, lo affina, lo porta a individuare qualità letterarie e suggestioni sottili in un genere che sembrava un magma confuso, da amare o da odiare in blocco. Dopo simile scuola pochi, tra i lettori di Robot, saranno ancora disposti a comperare indifferentemente un romanzo di Gordon Dickson o uno di Theodore Sturgeon, scegliendo sulla base dell’illustrazione di copertina.
E’ una stagione di scoperte. Nomi mai uditi prima, da Barry Malzberg a Raphael Lafferty, da George R. R. Martin a Bill Pronzini, affiancano la rivisitazione di classici mal compresi, come Heinlein o Wyndham. E tutto ruota attorno a un fulcro qualitativo che vede al centro Leiber (l’autore più ricorrente) e Sturgeon, con i nomi sempre evocati, anche se non presenti de visu o presenti solo in rare occasioni per questioni di diritti, di Dick, di Vonnegut e di Ballard.
Leiber, Sturgeon, Dick, Vonnegut e Ballard. Sì, proprio gli scrittori che oggi, a venti anni di distanza, le grandi case editrici non specializzate, in Italia e all’estero, si contendono e ristampano in normali collane di narrativa. Nel 1976-78, a parte il caso Vonnegut (che si salvava l’anima negando di essere uno scrittore di fantascienza), nessuno avrebbe pronosticato per questi autori un destino simile. Nessuno all’infuori di Vittorio Curtoni.
Forse le scelte di Curtoni non sarebbero state tanto oculate se egli non fosse stato scrittore in proprio. E che scrittore. Già dal suo primo (e finora unico) romanzo, Dove stiamo volando, apparso su Galassia nel 1972, aveva dimostrato di saperci fare più della generalità dei suoi colleghi. In quel romanzo le spigolosità non mancavano, ma era e rimane un’opera inquietante e difficile da dimenticare. Se il dopobomba trattato da Dick in un famoso romanzo (Cronache del dopobomba, 1965) era terrificante, quello di Curtoni, apparentemente simile, ha un motivo di turbamento in più: è complesso. I rapporti di classe si sono riprodotti e trasfigurati sulla base delle alterazioni genetiche indotte dalla radioattività, e con essi si è riprodotta la conflittualità sociale. L’esito sarà una rivoluzione in qualche modo ineluttabile e mesta, perché attuata in un mondo da cui l’ottimismo è bandito. E vi si arriverà attraverso squarci deliranti destinati a rimanere nella memoria, come i dialoghi angosciosi tra due fratelli, di cui uno porta l’altro, mutante minuscolo, nel taschino della camicia.
Ma non è la dimensione del romanzo, quella tipica di Vittorio Curtoni. E’ piuttosto quella del racconto. Qui può esprimersi al meglio, dando prova di una straordinaria capacità di sintesi affidata a un italiano di una purezza cristallina, ricco di immagini nella sua costante fluidità. La distanza dell’autore da altri scrittori italiani di fantascienza a lui coevi o contigui nel tempo si misura proprio nello stile. Sono banditi, nelle pagine di Curtoni, le pause per spiegare gli antefatti, o i dialoghi irreali perché il protagonista deve spiegare non all’interlocutore, ma al lettore, ciò che quest’ultimo non sa, ma che l’altro dovrebbe sapere benissimo. Vizi tipici di chi non è capace di padroneggiare uno scenario troppo complicato, che gli italiani hanno del resto ereditato dagli ambigui maestri d’oltreoceano (Il Tiranno dei mondi, di Isaac Asimov, è un esempio da manuale di come non si dovrebbe scrivere un libro).
Curtoni unisce scorrevolezza, qualità letteraria e astuzia tecnica. Il fatto è che i suoi racconti, pur apparendo mentre negli Stati Uniti, e di riflesso anche in Italia, ancora domina la fantascienza detta “sociologica”, si distaccano completamente dal modello prevalente (condotto alla quasi-perfezione da Robert Sheckley) fondato su scenario paradossale / spiegazione / trovata finale che imbroglia le carte. Curtoni ha sottobraccio il suo Ballard, e mette in scena conflitti umani, talora persino scopertamente autobiografici: uomo-donna, genitori-figlio. Non li abbandona però alla mediocrità, ma li inserisce in un contesto in cui la tecnologia (più raramente la scienza) ha ribaltato gli schemi di vita. Le fughe dalla civiltà moderna ricorrenti, come ha scritto Domenico Gallo, nella fantascienza italiana degli anni ’70 sono estranee ai suoi protagonisti. Vi si trovano invischiati per sempre, e a essa devono adattare, volenti o nolenti, le loro psicologie. Come accadeva, in fondo, ai personaggi ballardiani quando si trovavano alle prese, senza possibilità di ritorno, con un mondo invaso dall’acqua, oppure percosso da un vento impetuoso proveniente dal nulla.
La novità rappresentata dalla narrativa di Curtoni emerge evidente nel 1977, con l’uscita di un numero speciale di Robot che raccoglie una grossa fetta della sua narrativa breve, apparsa fino a quel momento su riviste minori: La sindrome lunare. Il racconto che apre la raccolta, e che ritroverete nella presente antologia, è di quelli che sconcertano. Una serie di personaggi intrecciano dialoghi in apparenza incomprensibili, e fondati sull’indifferenza reciproca. Si scoprirà solo poco a poco in essi i sopravvissuti di una guerra chimica mostruosa, basata su sostanze allucinogene. Privi di una percezione sicura, vagolano in un mondo incomprensibile, in cui lo stesso inconscio collettivo junghiano è venuto meno; per cui stentano a riconoscersi l’uno con l’altro, ad avere un linguaggio comune, ad adottare comportamenti che non siano quelli elementari di una quotidianità ormai remota. Ovviamente, non c’è un finale, né lieto né triste; né vi è un vero e proprio avvio. Tutte le convenzioni della scrittura sono scardinate da una prodigiosa intuizione, che non è né trovata né pretesto, ma condizione del quadro descritto, contesto, consustanzialità.
La stessa intuizione è alla base di un altro racconto di Curtoni, successivo all’antologia di Robot: il bellissimo (fin dal titolo) La volpe stupita. Attenzione, sono racconti ardui, che non possono essere letti contando di affidarsi passivamente al meccanismo della suspense, che pure c’è. Bisogna penetrarvi con tutti i sensi all’erta, perché alludono a una delle esperienze umane più terrificanti: la schizofrenia. E infatti in un altro racconto, Volo simulato, troviamo un delirio schizofrenico descritto dall’interno, con una precisione che non sfigurerebbe in un manuale di psichiatria. Il debito di Curtoni verso Dick potrebbe, a questo punto, sembrare evidente. Ma non è così. Dick mette a confronto personaggi tutto sommato convenzionali (si pensi ai ritratti femminili, spesso ai limiti della misoginia) con un mondo che non è ciò che appare, e che si rivela un gioco di scatole cinesi. In ciò è assolutamente geniale. Ma alla fin fine è ancora una volta la “trovata” a prevalere, dato che l’unica vera psicologia che emerge nella storia è quella dell’autore, con le sue angosce e i suoi smarrimenti riflessi dai labirinti che compone.
Invece Curtoni proietta nei personaggi dubbi e tormenti esistenziali, mentre il contesto, pur sorprendente, è di solito fisso, senza sviluppi interni e senza strati troppo risposti da esplorare. L’esplorazione è essenzialmente mentale, e riguarda la collocazione del proprio sentire umano a fronte di regole del gioco eterodecise e immodificabili. Si tratti della guerra psichedelica o di un dopobomba martoriato, di una società condannata all’eterna conservazione di se stessa o di un pianeta in cui la notte non esiste, non è nei poteri del protagonista modificare quel quadro. E’ se stesso che deve modificare, se si riesce; se non vi riesce, il risultato è la più radicale alienazione, fino alla perdita dell’Io e alla pazzia.
Quelle di Curtoni sono quindi avventure interiori, in cui l’elemento dinamico è racchiuso nelle spire del pensiero e nei loro lenti movimenti. Di qui la sostanziale indifferenza dell’autore di fronte ai dettagli delle tecnologie che hanno modificato il mondo conosciuto. Con gli occhi dei suoi personaggi, le contempla senza aneliti vani di ritorno al passato, bensì con una sorta di rassegnata disperazione, dovuta alla consapevolezza di quanto stiano erodendo in maniera irreversibile i presupposti stessi dell’umanità.
E’ fantascienza quella di Curtoni? Sì, ma trattata dalla parte dell’uomo, cioè con un angolo visuale antitetico a quello prevalente nel genere, specie quando di matrice anglosassone. Non credo, contrariamente a quanto pensa l’autore, che si tratti di una visione fondante una fantascienza “italiana” dai suoi specifici tratti. Quando Curtoni si è trovato, nel brillantissimo saggio Le frontiere dell’ignoto (1977), a ricercare i lineamenti di una possibile “scuola” italiana nelle opere dei suoi colleghi, ha finito per pronunciare moltissime condanne e solo un pugno di assoluzioni (di cui un paio riservate a qualche carneade dei primordi, ripescato per probabile nostalgia). Il fatto è che, né tra i predecessori di Curtoni, né tra i suoi presunti continuatori, se ne trova uno solo che gli stia davvero alla pari. Né come rigore stilistico, né come capacità di sintesi, né come abilità introspettiva, né come respiro intellettuale. Curtoni non si colloca in nessuna scuola perché quella scrittura così particolare, viscerale eppure lucidissima, sottile eppure appassionata, appartiene unicamente a lui. O a coloro che si sono accostati al difficile tema dell’alienazione immergendovisi con totale coraggio, fino alla perdita di pudore. Ma, nel campo della fantascienza, italiana e non, sono stati pochissimi.
Ciò strappa i racconti di Curtoni ai vincoli del tempo in cui sono stati scritti. Il racconto a base tecnologica diviene obsoleto nel giro di qualche anno; l’esperimento di narrativa sociologica si ritrova a essere non più proponibile quando i problemi sociali sono cambiati (si pensi a tutta la polemica contro l’opulenza e la società dei consumi, e a come rischierebbe di risultare ridicola se riproposta oggi, in tempi di deflazione: un possibile “grande”, il citato Robert Sheckley, rimasto troppo invischiato in quei temi, non è più facilmente ristampabile). Invece ciò che non cambia è proprio la crisi di identità di fronte all’anomia, alla trasformazione troppo rapida e radicale, per essere introiettata, di strutture e sistemi. Bene, proprio questa è la tematica centrale della narrativa di Curtoni, capace di resistere al tempo come sempre accade alle opere di uno scrittore vero.
L’editore mi chiede, a questo punto, di descrivere la struttura dell’antologia, quasi temesse che il lettore vi si smarrisca. E’ molto improbabile, comunque mi adeguo. Dunque, vi è una sorta di semi-autobiografia di Curtoni, in cui l’autore racconta il proprio lungo rapporto con la fantascienza, divisa in tre parti che corrispondono ad altrettanti periodi storici. A ognuna delle tre parti seguono i racconti relativi al periodo. Ogni racconto è preceduto da un breve pezzo in cui si narra come è nato. Tutto qua.
La mia unica raccomandazione è che il lettore non passi subito ai racconti tralasciando i brani introduttivi. Perché, come “Robot” era illuminato dalla presenza straripante e lucidissima del suo direttore, allo stesso modo i racconti qui radunati, editi o inediti, prolungano la loro forza negli scritti che li corredano. Perché la prosa di Curtoni, quale che ne sia l’oggetto, è sempre inimitabile e avvincente, tanto da far pensare che la penna con cui è scritta celi una magia o un segreto.
In realtà un segreto c’è, e non sta nello stile né in artifici tecnici. Sta nella complessa e affascinante personalità dell’autore, fragile e cordiale, aggressiva e tormentata, sentimentale e antiretorica; improntata, comunque, a una costante onestà intellettuale e a una nobiltà – sì, avete letto bene: nobiltà – che traspare da ogni gesto e comportamento, fino a riflettersi sulla pagina scritta.
Ma queste ultime sono considerazioni molto personali. Voi lettori accontentatevi del piacere di scoprire un grande scrittore. Tra i più grandi che vi siano in giro, in quest’Italia delle mezze cartucce.