di Marilù Oliva
In meno di cinque mosse questa partita sarà finita. Potrò tornare a casa, mettere i vestiti nel borsone e andarmene.
Dall’altra parte del tavolo Martina, con la sua camicetta rossa, la stessa per tutti i tornei, i capelli legati in una coda di cavallo, gli occhi piccoli e infossati che ruotano per la scacchiera e si rifugiano a controllare il vantaggio dei pezzi, deve aver considerato la mia azione semplicemente come una svista, e allora ha mangiato la Torre in h3 con il suo Alfiere nero.
Anche se gioca da oltre dieci anni, non ha ancora imparato che l’unica cosa importante negli scacchi è l’ordine. L’ordine in cui si sposta la seggiola prima di sedere. La forza con cui si stringe la mano all’avversario. Il modo in cui si avvia l’orologio e il tempo comincia a scorrere. La disposizione in cui i pezzi sono schierati, coordinati, immaginati. Non ha capito, Martina, che invertire l’equilibrio corrisponde a perdere l’armonia di confine sulla quale si gioca un match, dove perfino anticipare la spinta di un pedone può tramutarsi in una sconfitta.
“Lo sbaglio” di Flavia Piccinni (Rizzoli), comincia così: con una partita di scacchi. O meglio, con la parte conclusiva di una match. Caterina non ha dubbi sull’epilogo, lei conosce i meccanismi delle trappole, studia le mosse del campione Morphy perché ne apprezza la capacità di muovere i pezzi e orchestrare combinazioni mortali, il coraggio di sacrificare e di lottare anche in condizioni disperate. Lo stesso coraggio che non le appartiene nella vita quotidiana, perché è assuefatta a una famiglia che converge nella figura materna di Giuseppina, Tina, maniaca dell’ordine e devota a una reliquia di san Genesio, brandello di pelle contenuto in una piccola piramide, pagata quindici milioni nel ’92. Caterina ha sul groppone un fidanzamento benedetto dai genitori, non mangia perché le piacciono le ossa che spuntano dal petto – e la nonna che ha vissuto la guerra non la capisce — e per scelta della madre ha intrapreso gli studi da farmacista. Gli scacchi tornano come ossessione ma soprattutto come metro d’azione e strumento di reazione, intersecati a una storia che si staglia su una città, Lucca, capace di appassire nell’arco di una notte.
L’autrice, Flavia Piccinni, è nata a Taranto nel 1986 e oggi vive a Roma. Suoi racconti sono apparsi su “Nuovi Argomenti”, Nazione Indiana e in numerose antologie, fra cui Voi siete qui (minimum fax). Ha curato l’antologia sulla morte Nulla per sempre (Giulio Perrone Editore) e quella di autori emergenti Under 18 (Coniglio Editore). Nel 2005 ha vinto il Premio Campiello Giovani e il concorso Subway. Nel 2007 ha pubblicato il romanzo “Adesso Tienimi” per Fazi e “Lo sbaglio” (Rizzoli) è il suo secondo romanzo.
Partiamo dalla situazione culturale. È accogliente il nostro paese, rispetto al mestiere di scrittore?
È accogliente quanto lo è l’Italia xenofoba con gli extracomunitari. Si tende a ridicolizzare chi vuole scrivere, soprattutto se giovane, sminuendone le capacità e le aspirazioni. L’Italia respinge qualsiasi creatività, a patto che non sia quella canonizzata che può essere sfruttata televisivamente, la cosiddetta “creatività da reality”.
E di scrittrice, in particolare?
“Scrivi, ma cosa vuoi fare veramente?”. Quando va bene, è questa la domanda più frequente. Le domande sessiste, come le battute maschiliste, sono ovviamente piuttosto ripetitive e ridicole, ma devo ammettere che non mi è mai capitato che mi fossero rivolte. Non fino adesso, almeno.
Personalmente, non credo che ci siano delle sostanziali discriminazioni di sesso, ma tendenzialmente la donna viene a priori etichettata come scrittrice di romanzi rosa o di chick lit. Non che questo mi infastidisca, anche perché sono una lettrice onnivora e detesto le distinzioni di genere, ma è un’associazione incancrenita e dannosa, che tende ad appiattire la narrativa firmata dalle donne.
Nel tuo secondo romanzo, “Lo sbaglio”, la protagonista, Caterina, cerca un riscatto nel gioco degli scacchi. Quali pericoli e quali vantaggi può celare la scacchiera?
La scacchiera nasconde un piccolo universo. E come tutti gli universi che possono essere manipolati con facilità è un mondo dentro cui è semplice perdersi. Per Caterina è una passione, un’ossessione da cui è riuscita a scappare un minuto prima di precipitare. Diventa poi un’ancora di salvezza quando tutto sembra crollare, e lei per riconoscersi davvero ha bisogno delle sessantaquattro caselle più che di uno specchio. Perché attraverso gli scacchi riesce a riscoprire se stessa.
Quanto di te è confluito in questo personaggio? In cosa, invece, ti è differente?
Caterina è timida, ma allo stesso tempo diventa aggressiva quando deve difendersi nel momento della scelta. È schiacciata dalla sua famiglia, ma non riesce a guardar loro solo con amore. È lucida nella disperazione, impietosa nei giudizi.
Fondamentalmente, però, è una ragazza irrequieta che cerca la stabilità, e in questo mi assomiglia molto. Ma il modo in cui riesce a trovare l’equilibrio è diverso dal mio percorso, anche se con lei condivido la convinzione che il punto di partenza sia necessariamente, e sempre, il lavoro su di sé.
Le decisioni prese in merito all’esistenza di Caterina sembrano averle già tracciato una strada irrevocabile; di fatto, però, interviene una variabile a seminare disordine nei progetti. Quanto il tema del destino e dell’imprevedibile sono materiale letterario?
Le variabili, che rappresentano tanto sulla scacchiera quanto nella quotidianità della famiglia l’imponderabile, spingono Caterina ad uscire dai binari della sua vita. E sconvolgono la vita di sua madre, di suo padre, di suo fratello. Portano il caos nella piatta provincia borghese italiana, in una casa dove tutto è uguale da generazioni e solo un terremoto può obbligare i protagonisti a fare i conti con loro stessi perché, e Caterina lo sa bene, tutto nella vita ha delle conseguenze.
Sempre a proposito de “Lo sbaglio”: come nasce un romanzo? Quanto tempo è stato in incognito, quanto ci hai dedicato prima della stesura?
Il mio esordio, avvenuto quattro anni fa, per me è stato un vero e proprio choc. All’inizio mi sono persa dietro storie che ho amato, ma che non mi rappresentavano. Poi ho iniziato a scrivere di Caterina e della sua famiglia, e non ho avuto dubbi: era la storia che volevo raccontare.
“Lo Sbaglio” è restato in incognito fino a pochi mesi prima della pubblicazione. Preferisco lavorare in solitudine, chiusa nel mio guscio, tenendo come unici compagni i libri dei miei scrittori preferiti e poca, sceltissima, musica. È nato in modo naturale, ma non per questo semplice. Mi ha obbligata a fare i conti con alcuni nodi irrisolti della mia vita, a guardare alla famiglia e all’Italia con occhi diversi.
In un’intervista di qualche anno fa hai dichiarato che la morte è una tua ossessione e che dall’evoluzione di questa ossessione è nato il progetto dell’antologia da te curata, “Nulla è per sempre – 59 ultimi respiri”. Ora quali sono i tuoi demoni e che rapporto hanno con l’atto creativo?
Passano gli anni, ma le cose non cambiano molto. Le mie ossessioni sono sempre le stesse, quelle di cui ho scritto in Adesso Tienimi e che ho affrontato nello Sbaglio senza neppure rendermene conto. Almeno all’inizio. La famiglia, il senso di appartenenza ai luoghi, il senso dei legami. Sono queste le mie ossessioni, i temi che cerco di approfondire e di raccontare. C’è una bellissima frase di Thomas Macho che dice “forse ogni morte è propriamente un omicidio”. Ecco, io sono convinta che sia così. E nel corso del romanzo Caterina muore più volte, perché è costretta a cambiare pelle. A rinunciare alla vita che le apparteneva per forza, e costruirne una sua.
Sei tarantina e hai un legame speciale col tuo paese. Se ti chiedessi di spiegare con parole libere questo tuo senso di appartenenza pugliese, cosa diresti?
Che è il legame del sangue e della tradizione. Il sentire di appartenere a dei luoghi in modo talmente profondo da non riuscire neppure a spiegarlo. Quando vado a Taranto, dove tornerò a vivere per qualche mese da novembre, e penso che lì sono nati i miei nonni, i miei bisnonni, tutti i miei avi, ma soprattutto quando respiro l’aria di casa mia, l’aria della mia infanzia, mi sento a casa come non mi succede in nessun altro posto nel mondo. So che quella è la mia terra, il mio mare, il posto dove sono nata e che porterò nel cuore per tutta la vita.
A volte, sento dire “non ero mai stato in quel posto, ma appena l’ho visto è come se lo avessi conosciuto da sempre”. Ecco, a me non è mai capitata una cosa del genere, se non fra il Golfo di Taranto e viale Virgilio.
Ci saluti con una citazione dal romanzo?
«Crolliamo noi. Lo hai capito?» aggiungo, mentre indico il soffitto affrescato, la porta del bagno decorata, il mappamondo che mamma gli ha regalato per i suoi undici anni. Tutto è così vecchio, così antico, che anche l’aria sta per finire.
Carlo fa spallucce. «È impossibile» commenta, tranquillo, passandosi una mano fra i capelli. Poi arriva Marlena con la camicia stirata. Lui l’afferra e, senza neppure ringraziarla, la indossa.
«Qui non cambierà mai niente.» Sorride.