di Giorgio Cremaschi
[Si è svolta il 1° ottobre a Roma l’assemblea del movimento “Dobbiamo fermarli”, di cui Carmilla ha già parlato (vedi qui e qui). Una piattaforma cui hanno aderito oltre 1600 tra attivisti sindacali, militanti di sinistra, intellettuali, comuni cittadini. La stampa ha, quasi all’unanimità, ignorato l’evento. Noi pubblichiamo l’introduzione di Giorgio Cremaschi. La mozione conclusiva è visibile qui.]
Perché siamo qui
In questo ultimo anno nel nostro paese c’è stato un vasto e articolato movimento di lotta. Più di un anno fa gli operai di Pomigliano hanno detto no in tanti al ricatto di Marchionne. Il loro rifiuto si è incontrato con una diffusa ribellione all’aggressione ai diritti, alle libertà, alla democrazia. Hanno lottato gli studenti e i giovani contro i tagli alla scuola e il precariato. I migranti sono saliti sulla gru contro le truffe di stato, la segregazione e la cancellazione dei diritti civili. Hanno lottato i movimenti civili contro l’attacco alle libertà costituzionali. Lottano, e siamo fino in fondo con loro, i No Tav, contro l’occupazione militare di un intero territorio, decisa con consenso bipartisan per realizzare un’opera tanto devastante quanto inutile. Sono scese in piazza le donne, contro l’autoritarismo patriarcale che usa la crisi per riaffermarsi e riorganizzarsi. E infine a giugno 27 milioni di cittadini hanno detto no alla privatizzazione dei beni comuni, non solo dell’acqua, ma di tutti i principali beni che sono alla base della nostra vita.
Subito dopo, quando erano cresciute le nostre speranze di un vero cambiamento, si è sviluppata una nuova fase della crisi che ha portato al colpo di stato economico di questo agosto. Tutti i principi, tutte le istanze, tutte le domande di un anno e mezzo di lotte sono state cancellate nel nome dell’emergenza del debito. Il governo Berlusconi ha espresso tutto il suo degrado reazionario e la sua impresentabilità. Ma l’opposizione si è rivelata ancora più inconsistente e indisponibile a un reale cambiamento. Lo scontro politico ufficiale è su chi rassicura di più i mercati, cioè tra chi è più disponibile a soddisfare gli interessi del grande capitale finanziario nazionale e internazionale. Per questa ragione di fondo abbiamo pensato di riunirci.
Noi lottiamo, noi ci battiamo con fatica ovunque per i diritti e le libertà e poi la politica ufficiale ci interpreta, ci giudica e si sovrappone a noi.
Non ne possiamo più. La crisi economica italiana è anche una crisi della democrazia. E non solo perché la sola permanenza al governo di Berlusconi dimostra che il nostro non è un paese democratico come altri. Ma anche perché oltre questo le scelte di fondo che riguardano le nostre vite non sono più decise dalle nostre istituzioni democratiche, ma vengono imposte con le terapie shock dell’emergenza economica, dal grande padronato, dalla Banca Europea, dal Fondo Monetario Internazionale.
Il Corriere della Sera ha pubblicato la lettera che Draghi e Trichet hanno inviato ai primi di agosto al governo italiano. E’ un testo clamoroso, un’aggressione reazionaria a tutti i diritti sociali e persino alle regole costituzionali. In nome di quale potere, di quale diritto due privati cittadini, due banchieri ci chiedono di modificare la Costituzione per imporre il pareggio di bilancio? Ci saremmo aspettati il clamore di fronte alla pubblicazione di quella lettera, invece silenzio pressoché totale da parte del governo e dell’opposizione. Essi continuano a litigare e a scontrarsi, senza però mai toccare i temi di fondo dell’economia, sui quali alla fine dobbiamo solo pensare che siano tutti d’accordo.
Per questo abbiamo deciso di provare a forzare il quadro delle compatibilità politiche e culturali. Il nostro scopo è di dare legittimità a tesi e a pensieri che oggi in Italia subiscono una censura di regime che è sostanzialmente bipartisan. La nostra scelta di partire dal rifiuto del debito nasce da qui. Non vogliamo certo aiutare ricchi ed evasori fiscali a cavarsela, né pensiamo che questo basti. Vogliamo però dire che oggi la schiavitù del debito, cioè l’obbligo di applicare in Italia le riforme strutturali imposte a suo tempo in tutto il mondo con risultati criminali da parte del Fondo Monetario internazionale, l’obbligo di rispettare il vincolo europeo del patto di stabilità, degli accordi Europlus, dello statuto antisalario della Banca Europea; questi vincoli che hanno commissariato definitivamente la politica italiana devono essere respinti. E per questo occorre in Italia un movimento sociale e politico, che oggi non c’è, che ponga questa questione all’ordine del giorno.
Noi non siamo d’accordo con la politica di patto sociale e concertazione che propongono la grande maggioranza del Parlamento italiano e lo stesso Presidente della Repubblica. Noi non siamo d’accordo con gli appelli delle parti sociali, ove tutti sono rappresentati dalla Presidente della Confindustria. Noi contestiamo e contrastiamo l’accordo del 28 giugno, che la Banca Europea giustamente esalta nella sua lettera come uno strumento per distruggere il contratto nazionale e rendere ancora più flessibili i nostri già magri salari. Noi vogliamo un’altra politica economica e sociale, radicalmente alternativa a quella del liberismo e non pensiamo che questa si possa avere nell’alternanza tra schieramenti che, proprio sul piano economico, fanno sostanzialmente le stesse scelte, obbediscono agli stessi comandi.
Questa è la questione che poniamo, senza infingimenti, ben sapendo che questa è una cosa diversa dall’iniziativa dei movimenti. Ogni movimento, ogni lotta, ha la sua sacrosanta autonomia e i suoi valori e i suoi obiettivi. Nessuno di noi mette in discussione questo. Non crediamo sia possibile inventarsi un movimento dei movimenti, che rappresenti una sorta di sintesi di tutte le domande e le lotte che ci sono. Noi poniamo un’altra questione. Noi vogliamo scendere in campo contro il colpo di stato economico che sta distruggendo la nostra democrazia. Su questo ci caratterizziamo e su questo crediamo si debba costruire uno spazio politico pubblico. Politico, perché vogliamo intervenire direttamente e in modo indipendente nelle scelte della politica. Pubblico, perché vogliamo affermare il diritto alla partecipazione e alla trasparenza in queste scelte. Tranquillizziamo tutti: non pensiamo a un cartello elettorale o a una minifusione di organizzazioni politiche e sindacali. Abbiamo un’ambizione più grande: quella di scardinare il regime bipartisan, che litiga su tutto tranne che sulle scelte di fondo che riguardano la nostra vita. La lettera della Bce ha avuto il pregio di chiarire con precisione il programma dei nostri avversari. Chi non la contesta, chi non intende rimandarla al mittente, non sta con noi.
Per questo ci colleghiamo idealmente ai popoli europei che lottano. Quando diciamo di non pagare il debito, alcuni interpretano che vogliamo uscire dall’Europa. A parte il fatto che la geografia ci ha messo qui, noi pensiamo l’esatto contrario. Sono il sistema finanziario globalizzato, gli accordi di Maastricht, il potere delle banche, della finanza e del grande capitale, che devono uscire dall’Europa e dal dominio che oggi esercitano sulle democrazie e sulle nostre vite. In altri paesi forse questo è più chiaro. In Spagna e in Grecia si manifesta contro la politica economica decisa da governi di sinistra. Da noi l’inquinamento morale, culturale e politico prodotto da Berlusconi e dalla sua cricca ha avuto anche l’effetto di imporre il degrado di tutto il confronto politico. Ma sappiamo che se oggi questo centrosinistra, con questa classe dirigente, sostituisse Berlusconi, noi dovremmo scendere in piazza come gli indignados spagnoli o i fratelli greci.
Il 15 ottobre saremo tutte e tutti in piazza sulla base dell’appello lanciato dalla Spagna dal movimento 15M. In tutta Europa si manifesterà contro il regime del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Europea, dei governi della tecnocrazia, che sta devastando diritti e conquiste. Per questo vogliamo portare a quella manifestazione un preciso indirizzo, una piattaforma, che vada oltre la pura e semplice solidarietà e la pura e semplice protesta. Il nostro avversario è prima di tutto il governo Berlusconi, che dobbiamo cacciare. Ma assieme ad esso è nostro avversario il governo unico delle banche e della finanza che ci sta aggredendo in tutta Europa. Scendiamo in piazza contro entrambi e chiamiamo tutte e tutti a costruire un grande movimento che abbia questa direzione di marcia.
Distruggono tutto, bisogna fermarli
L’attacco sociale, civile e democratico che stanno subendo il mondo del lavoro, contrattualizzato e precario, e la grande maggioranza della popolazione, non ha precedenti nella storia repubblicana. Ma tutto questo non tocca solo a noi. In tutta Europa si sta scatenando un attacco senza precedenti contro la più importante conquista sociale e civile del continente: lo stato sociale. In tutta Europa la banca europea, la tecnocrazia, i governi obbedienti alla globalizzazione e alla speculazione finanziaria, si accordano per cancellare conquiste diritti sociali, libertà. In tutta Europa c’è la stessa identica politica, variano solo le sue gradazioni. In tutta Europa, nel nome del capitalismo finanziario, si cancella la democrazia. La costruzione dell’Euro, il patto di stabilità, Maastricht hanno affermato un mostro estraneo alla democrazia e alle costituzioni. Questo mostro sta distruggendo l’Europa sociale, civile e democratica.
Stanno distruggendo tutto e non sono neppure in grado di fermarsi. Nel nome della crisi del debito si richiedono veri e propri sacrifici umani, che dovrebbero servire a rassicurare i mercati. Così come nel Medioevo o nelle società antiche si facevano sacrifici per allontanare disgrazie o carestie.
Si promette che i sacrifici porteranno prima o poi alla ripresa, ma in realtà anche chi li decide non ci crede. In poco più di un anno così l’Italia ha visto distruggere la scuola pubblica, la sanità, i servizi pubblici e sociali. Il contratto nazionale non esiste più e lo statuto dei lavoratori è stato sottoposto alla deregolazione degli accordi tra le parti complici.
I migranti sono ormai in una condizione di apartheid permanente e di supersfruttamento totale. L’affermarsi per la prima volta, in particolare in Italia, ma non solo da noi, verso una parte rilevante del mondo del lavoro della negazione della cittadinanza assieme alla privazione dei diritti politici e civili fondamentali. L’estendersi, con leggi xenofobe come la Bossi-Fini e più in generale con le persecuzioni dei migranti, di un sistema nel quale una parte rilevante della popolazione non gode dei diritti costituzionali fondamentali, è un segno della regressione totale dell’Italia e dell’Europa. Non è un caso che questa regressione si accompagni al ritorno in campo di ideologie razziste, xenofobe, di comunitarismi secessionistici reazionari.
Tutto questo è parte dell’aggressione alla democrazia e ai diritti sociali. Ovunque si vuole distruggere la possibilità stessa delle persone di organizzarsi e difendersi. Eppure c’è ancora chi pensa che i sacrifici debbano essere accettati purché equi e che si debbano accettare le “riforme”. Ora l’obiettivo centrale è diventata la riforma delle pensioni. Essa risanerebbe l’economia. E così si dimentica che una riforma delle pensioni terribile c’è già stata, anche attraverso l’istituzione della previdenza complementare e i giovani non andranno più in pensione e che la rendita media pensionistica attuale dei lavoratori è inferiore ai 1.000 euro mensili. Si allunga l’età pensionabile, ultima vergogna quella delle donne, mentre dopo cinquant’anni si viene cacciati dai posti di lavoro. Oramai i contratti a chiamata, di supersfruttamento, con la messa a disposizione totale delle persone agli arbitri del comando aziendale si diffondo ovunque.
Siamo alla catastrofe sociale che uccide il presente e mangia il futuro: la casa, la scuola, il lavoro, la salute, i diritti, tutto. Per questo non abbiamo più spazio ove ritirarci, non c’è un meno peggio da contrattare, possiamo solo rinunciare a difenderci e accettare il massacro sociale, pensando che qualcuno si salvi sulle spalle degli altri, oppure possiamo lottare per un cambiamento radicale. Come mostra la Grecia, non c’è fine ai programmi di ristrutturazione sociale determinati dalla schiavitù del debito e dalla speculazione finanziaria, se li si accetta, ci si mette in mano a usurai internazionali, che non sono mai sazi. Per questo è giunto il momento di rifiutarli.
Respingiamo il ricatto del default finanziario. Ci sono altri default che invece vogliamo subito affrontare. Quello della natura e dell’ambiente, che non riesce più a ripristinare le risorse naturali assorbite dal supersfruttamento. Il default delle persone e delle famiglie che non arrivano più alla fine del mese. Il default del Mezzogiorno del nostro paese, che si avvicina al collasso demografico per i milioni di giovani costretti ad emigrare per trovarsi da vivere. Il default di diritti e di libertà che, a partire dai migranti, sta distruggendo le basi stesse della nostra democrazia. Questi sono i default che combattiamo.
Non pagare il debito
Tutto il dibattito politico ed economico italiano dà per scontato che il debito debba essere pagato. Al massimo si propone l’equità nei sacrifici, cioè che accanto alla distruzione dei diritti sociali e civili stia una patrimoniale che faccia pagare qualcosa ai ricchi. Ma noi non possiamo più accettare questa “equità”, perché non siamo più in grado di essere debitori, siamo solo creditori di futuro, di giustizia, di diritti. Per questo vogliamo portare nel confronto politico la questione del debito ponendo la domanda che il palazzo non vuole vuole porsi: “perché si deve pagare il debito?”.
L’Italia paga oggi 80 miliardi di euro all’anno di interessi sul debito. Questo vuol dire che le manovre da 60-70 miliardi di euro all’anno sinora decise dal governo non riescono neppure a pagare gli interessi, mentre lasciano intatto il debito che continua a crescere. Anzi, creando una situazione di depressione economica, aumentano il peso del debito sul prodotto lordo e creano quella spirale a cui è già giunta la Grecia. Per pagare il debito si taglia, ma tagliare crea depressione economica e quindi fa ancora aumentare il debito. La politica e i poteri forti italiani sono tutti subordinati alle grandi scelte del capitalismo europeo e internazionale. Per questo non propongono nulla di alternativo rispetto alle ricette neoliberiste della Banca europea e del Fondo Monetario Internazionale. Eppure sono proprio queste ricette che aggravano la crisi e che colpiscono drammaticamente la nostra vita sociale e civile.
Lo stupido orgoglio nazionale, di cui si sono nutriti inizialmente il governo Berlusconi e la stessa Lega, secondo il quale l’Italia non sarebbe mai finita come i paesi di serie “B” quali la Grecia o il Portogallo o, ancor peggio, come quelli dell’America Latina o del Nord Africa, oggi viene totalmente smentito e ridicolizzato. Le cavallette della speculazione finanziaria, che hanno aggredito l’Asia, la Russia, l’America Latina, la Grecia, oggi attaccano il nostro paese perché pensano di guadagnarci nel farlo. Pensare di fermare questo rassicurando i mercati e angosciando lavoratrici, lavoratori e cittadini è tanto stupido e criminale quanto inutile.
La verità è che tutti i governi europei hanno accettato la dittatura del potere finanziario e dell’accordo tra poteri economici e casta politica. Tutti i governi europei mettono in atto le stesse misure ed è solo la speculazione finanziaria a decidere la durezza e la dimensione di esse. C’è un governo unico delle banche e della finanza che domina le nostre vite.
La politica democratica comincia quando viene messo in discussione il costo sociale ed umano del debito e quando, come hanno fatto altri paesi, la stessa schiavitù del debito finanziario viene messa in discussione.
Abbiamo due avversari
Il primo avversario che abbiamo di fronte è sicuramente il governo Berlusconi. Il degrado della democrazia italiana nasce anche dal fatto che un Presidente del Consiglio corruttore e corrotto, circondato da una cricca impresentabile, governa uno dei paesi più ricchi del mondo e resta lì nonostante tutto quello che combina e nonostante il rifiuto che suscita nella grande maggioranza del paese. Ogni giorno che Berlusconi resta lì segna un arretramento della nostra democrazia. In nessun paese realmente democratico un Presidente del Consiglio come Berlusconi resterebbe al suo posto. Se ciò avviene è perché il sistema istituzionale, la stessa opposizione, sono oramai parte della crisi.
Come è avvenuto in tutti i paesi dove è esplosa la crisi del debito, la corruzione e l’inettitudine della classe politica sono diventate funzionali alla speculazione internazionale. Governi privi di vero consenso sono molto più ricattabili dal sistema finanziario e dal sistema delle banche, in un certo senso fanno comodo. Per questo, noi non abbiamo solo come avversario il governo Berlusconi ma, al pari di esso, ci mobilitiamo contro il potere finanziario liberista che sta imponendo le sue ricette e che pretenderebbe le stesse politiche da qualsiasi governo fosse in carica. Noi siamo per respingere i ricatti di Draghi, Trichet e Marchionne, siamo contro la Tav, siamo contro le politiche di taglio dei servizi sociali, delle pensioni e dei trasporti, siamo contro le politiche di privatizzazione e liberalizzazione, siamo contro le spese militari e di guerra. Siamo cioè contrari a tutte quelle politiche che, sappiamo perfettamente, adotterebbe anche un governo di centrosinistra, almeno con l’attuale sua classe dirigente. Il fallimento dell’Italia è il fallimento di un’intera classe dirigente. Sono loro che hanno costruito questo debito e noi non intendiamo più pagarlo.
La questione della crisi economica è oramai anche una questione centrale di democrazia. La disinformazione, la campagna ideologica, la negazione del diritto a decidere si accompagnano all’imposizione delle più brutali misure di sfruttamento e distruzione dei diritti. E’ la shock-economy, è l’emergenza continua che serve a imporre una logica di guerra nella quale le vittime siamo noi.
La campagna ideologica e mediatica con cui Marchionne ha imposto il suo modello autoritario a Pomigliano e in tutta la Fiat, pare diventato il modello di governo del paese. Da un lato ci sono la globalizzazione e il mercato, dall’altro ci sono i sacrifici da fare. In mezzo solo ideologia e mistificazione. I lavoratori, i cittadini, non sono più messi nelle condizioni di sapere e di conoscere per decidere. Come è formato il debito? A cosa serve? Chi ci guadagna e chi ci perde? Non si sa nulla, eppure da tempo è stata richiesta una vera e propria analisi conoscitiva che ci faccia comprendere la struttura e le ragioni, i guadagni e le perdite del debito pubblico. Su questo tutto tace. Il dibattito ruota solo attorno alla pur indispensabile cacciata di Berlusconi, ora chiesta anche dal capitale internazionale e dalla Confindustria. Sul resto silenzio.
Allo stesso modo, il confronto sociale ruota tutto attorno all’ipocrisia del patto sociale, all’ideologia della coesione nazionale, dello stare tutti nella stessa barca, mentre i livelli di disuguaglianza nel nostro paese sono tra i più acuti nell’Ocse.
Decidere una politica economica alternativa è dunque anche rivendicare una reale democrazia, una reale partecipazione con il diritto dei cittadini di decidere sul serio.
Noi creditori, loro debitori
Noi siamo coloro che pagano tutto. Loro sono coloro che vogliono farci pagare tutto. Noi abbiamo solo dei crediti da riscuotere, loro invece devono pagare per il debito sociale che ci hanno imposto. Questa è la prima distinzione che noi proponiamo, in alternativa all’assuefazione, alla rinuncia e ai sacrifici. Per questo diciamo no alle politiche di concertazione vecchie e nuove, agli accordi sindacali come quello del 28 giugno, al mostruoso articolo 8 del decreto sulla manovra economica e alla ratifica di esso firmata il 21 settembre scorso da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria. Che, come dice il Sole 24 Ore, “lubrifica” la stessa applicazione dell’articolo 8. Noi vogliamo ricostruire diritti e libertà e sappiamo che ogni passo in questa direzione si scontra con coloro che oggi guidano l’economia e il sistema di potere, in Italia così come in Europa. Per questo noi rivendichiamo di poter decidere.
Il popolo italiano raramente è stato chiamato a scegliere. L’ultima volta che ciò è avvenuto, pochi mesi fa con il referendum sull’acqua, il popolo si è espresso chiaramente contro il liberismo e per i beni pubblici. In alternativa cioè a tutta l’impostazione economica liberista che oggi viene prepotentemente affermata con le manovre e con i dicktat della Bce. Per questo noi vogliamo rivendicare il diritto a decidere. Sono così sicuri, governanti, banchieri, politici di centrodestra e di centrosinistra, che i cittadini siano con loro? Allora perché negare al popolo italiano quel diritto al referendum che invece è stato esercitato in molti altri paesi? Noi non vogliamo più pagare la speculazione finanziaria, il debito, i patti europei che sacrificano lo stato sociale alla stabilità dei guadagni delle banche. Potremmo essere in minoranza, può darsi che la popolazione italiana in maggioranza sia disposta a sacrificare il proprio futuro per pagare il debito, però deve poter decidere. Come ha fatto il popolo Islandese.
Noi, quindi, rivendichiamo un referendum sul debito, sul patto di stabilità e sul vincolo europeo, che permetta il confronto tra alternative reali e tra diverse ipotesi economiche e sociali per affrontare la crisi. Chi ha paura della democrazia? Chi vuole ridurre il sistema democratico e la Costituzione italiana a un simulacro ottocentesco, nel quale restano solo le libertà borghesi e di mercato, mentre vengono soppresse le libertà sociali? Questo è in discussione oggi in Italia. Siamo un paese che rischia di perdere la sua democrazia di fronte alle malefatte di Berlusconi e al potere autoritario dell’Europa delle banche. Diciamo un grande no alla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. E’ una scelta che cancella tutti gli altri articoli della Costituzione. Contro di essa bisogna fare le barricate. Eppure questa scelta liberticida viene tranquillamente accettata anche da chi dice di opporsi a Berlusconi.
Per questo vogliamo ripristinare la democrazia e il diritto a decidere. Chi ha paura di questo diritto evidentemente appoggia un altro potere.
Cinque punti per una vera alternativa
1. NON PAGARE IL DEBITO, FAR PAGARE I RICCHI E GLI EVASORI FISCALI, NAZIONALIZZARE LE BANCHE. Approfondiremo la proposta precisa. Qui vogliamo affermare il principio. Questo debito non può essere pagato, così come non possiamo più accettare i vincoli economico-sociali dei patti europei. Non solo l’Italia ma tutta l’Europa non li può e non li deve più accettare. Siamo per la lotta all’evasione e per una grande patrimoniale che colpisca le ricchezze. Ma questi soldi devono servire a finanziare il nostro presente il nostro futuro, non a risanare i bilanci delle banche. Già 4.600 miliardi di euro, secondo il presidente della Commissione Europea, sono stati elargiti dai governi alle banche e alla finanza per salvare i loro bilanci. Altri 3.000 sono annunciati. Questi soldi li vogliamo noi, devono andare ai cittadini, agli investimenti, alla sicurezza sociale e del futuro e non a garantire i profitti alle banche che controllano il debito pubblico. Per questo noi diciamo che le banche vanno nazionalizzate e tutto il sistema finanziario deve essere riportato sotto il controllo del potere pubblico, contro la speculazione. Questa scelta di fondo richiede la sconfitta totale delle forze liberiste che governano l’Italia e l’Europa. Questa nostra rivendicazione va dunque accompagnata alla messa in discussione di tutta la struttura europea, oggi unificata solo dalla moneta e dal liberismo. Senza un’Europa democratica, con diritti sociali e civili comuni, senza un’Europa dei popoli non c’è più Europa. L’Europa delle banche è fallita.
La ricchezza privata italiana è di circa 9 mila miliardi di euro. Il 10% delle famiglie detiene quasi la metà di questa ricchezza. Per questo chiediamo che questo 10% si accolli, attraverso una patrimoniale vera, i costi della crisi. Mentre almeno il 50% del paese, che detiene solo il 10% della ricchezza, non solo non dovrà pagare nulla, ma dovrà ricevere i risultati di una forte redistribuzione del reddito. Pensiamo di sottrarre al 10% più ricco il 10% del suo patrimonio con circa 450 miliardi da spendere per redistribuzione della ricchezza e piani di investimento su case, scuole, ospedali, servizi.
La lotta all’evasione fiscale deve partire da una scelta di giustizia a favore del lavoro dipendente e delle pensioni, del reddito fisso, che oggi contribuiscono alla stragrande maggioranza delle entrate fiscali del paese, in misura ben superiore alla quota di reddito percepita. E’ necessario un forte irrigidimento delle pene, civili e penali, per i grandi evasori, a partire dalle grandi imprese che operano attraverso i paradisi fiscali, che dovrebbero essere chiusi. La lotta alla corruzione e alla criminalità, la persecuzione dell’economia criminale, che nasce dalle mafie così come dalla grande evasione fiscale, deve essere un punto centrale del programma di uscita dalla crisi.
Su tutte queste basi va costruita una politica economica alternativa a quella liberista, che abbia come punto di partenza la riduzione delle disuguaglianza sociali e territoriali del nostro paese, a partire da quelle che colpiscono il Mezzogiorno.
2. NO ALLE SPESE MILITARI E CESSAZIONE DI OGNI MISSIONE DI GUERRA, NO ALLA CORRUZIONE E AI PRIVILEGI DI CASTA. Vanno abbattute del 70% le spese militari, cancellando tutte le missioni di guerra e tutte le principali commesse militari. Va cancellata ogni forma di finanziamento alla scuola privata, convertendo tutti i fondi recuperati al finanziamento di quella pubblica. Vanno liquidate tutte le consulenze private nell’amministrazione pubblica e vanno reinternalizzati servizi e attività oggi affidati alla speculazione e al supersfruttamento. Vanno soppresse le spese per le grandi opere, dalla Tav al ponte sullo Stretto. Va ricostruita la trasparenza del bilancio pubblico, con la chiarezza sull’utilizzo di tutte le voci. Vanno drasticamente ridotti i costi che alimentano la casta politica. Vanno ridimensionati tutti gli stipendi del personale politico istituzionale.
Va abolito il patto di stabilità che vincola tutte le spese degli enti locali e delle regioni. Tutte le amministrazioni elettive che hanno contratto derivati a copertura del debito devono essere sciolte.
3. GIUSTIZIA PER IL MONDO DEL LAVORO. BASTA CON LA PRECARIETÀ. Tutto il mondo del lavoro, sia quello contrattualizzato sia quello totalmente precario, subisce oggi una drammatica oppressione autoritaria. Un moderno fascismo aziendalistico e padronale, che produce una generalizzata condizione di supersfruttamento, la lesione della libertà e della dignità della persona. Per questo occorre un cambiamento radicale nelle condizioni di lavoro, che deve partire dalle lotte e da una vasta mobilitazione, dagli scioperi precari e contrattuali, ma deve anche portare a cambiamenti radicali. Bisogna bloccare i licenziamenti e le delocalizzazioni. Vanno abolite tutte le leggi che hanno, dagli anni Novanta in poi, distrutto il rapporto di lavoro stabile. Va esteso a tutto il mondo del lavoro l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Va in ogni caso istituito un reddito sociale di cittadinanza, accompagnato a una battaglia a livello Europeo per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario. Va rafforzata la funzione unificatrice e di garanzia del contratto nazionale, ripristinando l’indicizzazione dei salari. Vogliamo anche noi una riforma delle pensioni, di segno opposto a quella che chiede la finanza nazionale e internazionale. Vogliamo la completa ripubblicizzazione del sistema pensionistico, portando nel sistema pubblico i fondi privati. Bisogna garantire la pensione a tutte le nuove generazioni ripristinando il sistema di solidarietà oggi distrutto.
4. PER L’AMBIENTE, I BENI COMUNI, LO STATO SOCIALE. PER IL DIRITTO ALLO STUDIO NELLA SCUOLA PUBBLICA. Il 27 settembre è stata una data decisiva per il pianeta terra. La terra è andata in default. Cioè da quel giorno l’economia del pianeta consuma più risorse naturali di quelle che la natura è in grado di reintegrare. Questo, assieme a quello delle famiglie, è il solo default di cui siamo davvero preoccupati e che vogliamo impedire. Per questo occorre un drastico cambiamento nelle scelte e nelle strutture portanti della nostra economica. Una profonda riconversione industriale e delle produzioni, un altro modello sociale.
Rivendichiamo un piano nel quale far convergere le risorse recuperate con la patrimoniale, con l’evasione fiscale, con il cambiamento di struttura della spesa pubblica, per un piano che, per i prossimi anni, finanzi ricerca, innovazione, diffusione della conoscenza, energie rinnovabili e risparmio energetico, milioni di piccole opere necessarie a mettere in sicurezza l’ambiente e il patrimonio culturale, la scuola, le case, gli ospedali. Un piano che abbia al centro la costruzione di posti di lavoro dignitoso e sicuro e il drastico abbattimento delle disoccupazione, a partire dal Mezzogiorno. Sono i questi beni comuni che devono diventare il centro di un cambiamento dei punti di riferimento e delle scelte di fondo dell’economia. Tutto questo richiede il ripristino del controllo pubblico e politico sull’economia, politiche industriali, nazionalizzazioni dei grandi gruppi, vincoli rigorosissimi all’operare delle multinazionali. O è questa la strada, oppure diventiamo solo una colonia.
Vogliamo un programma di grandi investimenti per garantire il diritto allo studio in un’istruzione pubblica, laica e di massa, fino all’Università. Per i nativi così come per i migranti. Occorre riconvertire una parte determinante delle risorse del paese verso la conoscenza.
5. UNA RIVOLUZIONE PER LA DEMOCRAZIA. PARITÀ DI DIRITTI PER I MIGRANTI. IL VINCOLO EUROPEO DEVE ESSERE SOTTOPOSTO AL NOSTRO VOTO. Vogliamo decidere sul nostro futuro, il vincolo europeo deve essere sottoposto al nostro voto. Prima di tutto bisogna garantire eguaglianza e cittadinanza a tutte e a tutti. I migranti devono avere il diritto al voto e alla cittadinanza, gli stessi diritti e gli stessi poteri di tutti i cittadini. Questa condizione di libertà e di cittadinanza universale è la premessa per garantire a tutte e a tutti i diritti sociali e per imporre una radicale riaffermazione della democrazia. Per questo rivendichiamo il referendum sul debito e un cambiamento generale della classe dirigente del paese. Non è con il sistema delle alternanze della seconda Repubblica berlusconiana, che si esce dalla crisi. Occorre una nuova classe dirigente, perché nessuno di quelli che oggi governa o aspira a governare è davvero credibile. Per questo rivendichiamo il ritorno a un sistema elettorale proporzionale che dia spazio a tutte le voci e le richieste del nostro paese. Rivendichiamo il diritto alla partecipazione e all’autorganizzazione, affermando ed estendendo la democrazia diretta e il diritto alla consultazione. Il finanziamento pubblico ai partiti, va abolito e sostituito dal finanziamento alle libere attività politiche dei cittadini. Bisogna garantire una vera libertà di stampa, di informazione, di opinione. Vogliamo la totale libertà della e nella rete e il massimo di accesso al servizio pubblico televisivo. Rivendichiamo una legge sulla democrazia sindacale che garantisca ai lavoratori la libertà di scelta sulle proprie rappresentanze, dal livello aziendale a quello nazionale, senza quote garantite per nessuno, e il voto su piattaforme e accordi, in alternativa al modello neocorporativo dell’accordo del 28 giugno 2011. Rivendichiamo in fine il principio di trasparenza e partecipazione su tutte le scelte di fondo delle istituzioni sul piano economico e sociale.
Uno spazio politico pubblico
Con questa iniziativa abbiamo l’ambizione di cominciare a costruire in Italia uno spazio politico e pubblico che oggi non esiste. Quello dell’alternativa al liberismo autoritario della Banca europea e del Fondo Monetario Internazionale e quello per una reale partecipazione democratica. Nello scontro con il governo Berlusconi e i suoi disastri, rischia di riproporsi un’alternanza con le politiche del centrosinistra del passato, anch’esse corresponsabili di questo disastro. Noi siamo perché si crei uno spazio politico pubblico nel quale una democrazia radicale anticapitalista trovi cittadinanza e possa far valere le sue ragioni. E’ la crisi che lo impone. O costruiamo questo spazio oppure la privatizzazione contaminerà anche i più elementari diritti civili e democratici, e la logica di mercato travolgerà anche i principi fondamentali della nostra Costituzione.
Proponiamo quindi di organizzare una campagna diffusa in tutto il paese contro il debito e per un’altra politica economica sociale raccogliendo ovunque le firme per chiedere il diritto al referendum, il diritto a decidere e un cambiamento radicale nella classe politica.
Vogliamo proseguire con la nostra iniziativa costruendo centri di elaborazione e proposta, nazionali e diffusi nel territorio. I cinque punti della nostra piattaforma sono qui solo abbozzati. Proponiamo che diano origine ad assemblee specifiche per l’elaborazione di un programma dettagliato.
Con questa assemblea iniziamo un percorso difficile e non scontato. Sappiamo che altri tentativi in questa direzione sono completamente falliti. Quello che forse è mancato a tutti quei tentativi è stata quella necessaria iniezione di partecipazione e democrazia confronto aperto tra varie ipotesi, senza le quali non si costruisce mai qualcosa di veramente nuovo. In Italia siamo capacissimi di fare enormi manifestazioni, grandi movimenti di lotta, ma poi lasciamo sempre alle stesse persone, allo stesso sistema politico istituzionale, il compito di amministrarle e gestirle. Questo perché da anni non siamo in grado di costruire una reale nuova partecipazione. Per questo vogliamo iniziare da qui e provare a diffondere in tutto il paese, attraverso assemblee territoriali, la nostra proposta, costruendo comitati e assemblee ovunque. A conclusione di questo percorso, nel mese di dicembre, pensiamo di ritrovarci in una grande nuova assemblea, nella quale fare il punto sui contenuti della piattaforma ma anche definire pratiche, sedi, strumenti per dare forza organizzata e democratica a questo fronte comune che vogliamo costruire.