di Girolamo De Michele
Franco Berardi Bifo, Carlo Formenti, L’eclissi. Dialogo precario sulla crisi della civiltà capitalistica, Manni, Lecce 2011, pp. 96, € 10.00
«Direi che questo dialogo è come una specie di brogliaccio, di quaderno di appunti, la mappa di una mappa». Queste parole che concludono il dialogo tra Carlo Formenti e Franco Berardi Bifo rendono, quantomeno per approssimazione, l’idea di ciò che possiamo aspettarci da L’eclissi, testo scaturito dalla sbobinatura di una discussione tra due dei più acuti osservatori della crisi di civiltà che stiamo attraversando.
Non si tratta di osservatori impassibili né imparziali, com’è giusto. L’uno e l’altro hanno un retroterra culturale in quel pensiero che si suole definire “post-operaismo”, dal quale si sono in qualche modo distaccati senza per questo rinnegare né le esperienze passate, né, soprattutto, gli strumenti teorici che il post-operaismo ha prodotto.
Ambedue sono stati tra i primi ad occuparsi in modo critico del mondo delle reti informatiche, con una diversità di approcci che oggi converge verso una posizione comune di sostanziale pessimismo, che i due autori sostengono da tempo e che meriterebbe di essere rintracciata nella loro bibliografia, a cui spesso questo dialogo allude. Dall’idea di una società aperta e priva di limiti, propria di una visione ottimistica delle reti, siamo costretti a risvegliarci dalla constatazione dei tanti Walled Gardens, dei giardini recintati che si moltiplicano in rete, un po’ come le enclosures nelle campagne inglesi del XVI secolo. È a tutti gli effetti «un walled garden, un giardino recintato rigorosamente proprietario, dal quale gli utenti non possono uscire per navigare nel web aperto», iTunes. È un walled garden di fatto Facebook, un’applicazione che gli cui utenti scambiano per l’intero web, finendo per rimanere confinati all’interno di un ambiente che sostituisce il web svolgendone (in apparenza) tutte le funzioni. Per non parlare dell’inquietante fenomeno delle Clouds, il più recente esempio di privatizzazione del web. Come sempre (per chi ha buone chiavi di lettura), questi comportamenti sociali «non sono altro che sintomi di un fenomeno assai più ampio: il capitale digitale ha compiuto in pochi anni un salto di qualità incredibile, imparando ad appropriarsi del lavoro gratuito di milioni di persone. Non è per caso che stanno aumentando i licenziamenti di knowledge workers». Questa sorta di «”crumiraggio” del lavoro amatoriale di massa» sta contribuendo al processo di distruzione della middle class, e allargando la forbice tra ricchi e poveri, come scrivono Robert Frank e Philip J. Cook in The Winner-Take-All Society: nel quarto di secolo che andava a concludere il XX secolo (il libro è del 1995), l’1% dei possessori di ricchezze negli Stati Uniti ha messo le mani sul 40% della ricchezza prodotta, lo 0.01% della popolazione ha aumentato di 100 volte la propria quota sulle risorse americane — «in poche parole stiamo parlando di lotta di classe…». Lotta di classe che si svolge — certo non in modo esclusivo — sul terreno della finanziarizzazione dell’economia, sul quale, seguendo Christian Marazzi, il profitto assume la forma della rendita: «il valore economico che viene creato dalle reti di collaborazione sociale mediate internet non è misurabile in base a criteri convenzionali; per cui la trasformazione in profitto di quel valore può avvenire solo attraverso la borsa e altri dispositivi finanziari». Nondimeno, la logica dello sfruttamento capitalistico continua ad essere quella descritta da Marx.
Queste riflessioni (in buona parte di Formenti) afferenti a quella che un tempo si era soliti chiamare “critica dell’economia politica” si intrecciano con un tema che caratterizza l’intera elaborazione di Bifo: in quali forme passioni e affettività sono influenzate, o addirittura determinate, dalle nuove tecnologie e dalle pratiche ad esse inerenti? Come mostra il film di Fincher The social network — «un film sull’impossibilità dell’amicizia in una dimensione nella quale la circolazione informativo-affettiva si fa talmente veloce che diventa impensabile riconoscere l’altro come entità concreta» — la conseguenza principale è l’impossibilità di una vita affettiva ricca di relazioni e soddisfazioni, ossia l’assenza del godimento come forma della psicologia dell’uomo contemporaneo anche al di fuori dell’ambito della rete. Ne scaturisce un’etica della libertà come valore astratto: «una libertà che non si traduce mai in godimento, ma sempre in accumulazione di potere, anche sul piano sessuale». Il godere come attività compulsiva richiama quella pulsione perversa al godimento quantitativo e illimitato che Jacques Lacan denominava jouissance: una pulsione che lo psicanalista francese «assimilava al discorso del capitalista, vale a dire a un regime di ricerca quantitativa, indifferenziata e illimitata del piacere, in cui svanisce qualsiasi referenza all’altrui soggettività».
In questo contesto l’interrogativo politico diventa: è ancora possibile la democrazia? Oppure dobbiamo constatare che «dal punto di vista della praticabilità politica possibile» il concetto di democrazia «è la più grande puttanata che rimanga sul mercato del linguaggio»?
La democrazia richiede due prerequisiti ineludibili: la libera formazione della volontà umana, e l’efficacia dell’azione politica organizzata. Ebbene, le dinamiche dei nuovi media — invasivi e non più elettivi — «sono tali che la libera formazione della volontà umana è posta perlomeno con enorme problematicità ed è messa in grandissimo pericolo».
Quanto al secondo prerequisito, la delusione di chi si era illuso che la presidenza Obama potesse segnare una reale discontinuità politica induce a pensare che «nemmeno il centro di potere più importante del pianeta può nulla contro gli automatismi della finanza unita con il digitale unito con il mediatico». Dunque si tratta, per un verso, di comprendere quali forme politiche prendono il posto della democrazia — e qui (è forse l’unica critica che viene da fare a questo dialogo) colpisce il fatto che l’analitica foucaultiana resti sottotraccia; e dall’altro, di elaborare forme di autonomia — meglio: «di costituzione autonoma di minoranze in grado di mettere in moto processi di fuoriuscita e di auto-organizzazione di altre comunità, secondo un sistema di proliferazione contagiosa».
Un ultimo tema — ma ce ne sarebbero molti altri, la cui analisi farebbe coincidere questa recensione con l’intero dialogo — che merita di essere citato, connesso alla riflessi precedenti, è: qual è (sempre che ce ne sia uno) il ruolo dell’intellettuale nella società digitale? Al giorno d’oggi, società significa «intelligenza collettiva in rete», ai quali sembra ai due autori poter essere assegnata la speranza di un’azione che riavvii «un processo di riattivazione della razionalità umana». Ma, anche sulla scorta delle esperienze politiche e intellettuali degli anni Settanta e Ottanta, occorre interrogarsi, «se non sulla questione dell’avanguardia organizzata, del Partito, almeno sul tema della “responsabilità” politica di uno strato intellettuale». I meccanismi di produzione del valore attuati dalla new economy hanno messo in atto quello che Formenti, nel suo precedente Felici e sfruttati ha definito “processo di taylorizzazione del lavoro cognitivo”, ossia una sorta di regressione dal lavoro creativo: l’intellettualità cognitiva viene progressivamente rimpiazzata da «una sorta di operaio-massa» cognitivo, come dimostra la parabola degli hacker, che — replicando l’errore delle avanguardie politiche nei confronti dei movimenti di massa — «hanno immaginato il conflitto come una lotta tra loro stessi e le grandi corporation e i governi», senza accorgersi che l’utenza della rete stava diventando un’utenza di massa interessata quasi solo ad usare la tecnica, piuttosto che ad interrogarsi sui suoi funzionamenti. In altre parole, «la velocità del capitale digitale è stata infinitamente superiore alla velocità di crescita delle culture politiche della rete». Se, dunque, la figura dell’intellettuale fosse totalmente embedded all’interno dell’intellettualità di massa, non ci sarebbe alcuna speranza di cogliere quei punti di catastrofe (il riferimento è a Waltere Benjamin) che consentono di «imprimere delle svolte radicali al corso degli eventi»: sempre che ci sia chi è in grado di cogliere le occasioni, quando queste si presentano. È quindi necessario sviluppare — e difendere le ragioni di — «un livello di produttività intellettuale superiore a questa specie di grado zero che è la nuova “intellettualità di massa”» che manifesti la capacità di capire e smontare le dinamiche dei processi in cui si è coinvolti, non vedendoli come mera esperienza vissuta, m avendo la capacità di vedere i processi “da fuori”.
Un “fuori” che, in tutta evidenza, non è spaziale, ma temporale.