di Mauro Baldrati
Vista la pesatura di Carnage, che rende difficoltosa una recensione vera e propria per carenza di materia prima, conviene ovviare con una sorta di argomento di riserva: la deriva della critica cinematografica in Italia. Un tempo il critico andava al cinema, scriveva dei pregi e dei difetti del film, talvolta stroncava, individuava sciatterie o colpi di genio, il mestiere, la retorica, ecc. Poteva sbagliare, oppure avere delle intuizioni, scoprire segreti e menzogne. E nel bene e nel male aiutava lo spettatore a farsi un’opinione. Oggi le recensioni sembrano preconfezionate. Raccontano le trame per sommi capi, citano gli attori, le star, un colpo al cerchio e uno alla botte, e soprattutto rimangono in superficie. Per cui sembrano intercambiabili. Così avviene per Carnage, l’ultimo film di Roman Polanski accolto a Venezia come l’evento del secolo che non è stato premiato per acclamazione, come meritava. È imbarazzante addentrarsi nelle recensioni, sembrano scritte dai redattori di un collettivo che si scambiano gli aggettivi: “Siamo qui a tessere le lodi di un film, Carnage di Roman Polanski, praticamente perfetto” (l’Unità); “Carnage è proprio questo: un magnifico ‘pezzo di cinema’” (Il Messaggero); “Polanski, capolavoro da camera (…) Ottanta minuti mozzafiato, quattro attori da urlo” (Il Mattino); “Un film perfetto, 79 minuti di puro piacere: per la maestria assoluta del regista, Roman Polanski, la furibonda bravura dei quattro attori” (La Repubblica). E così via. Ne leggi una, le hai lette tutte.
A chi è abituato a pensare male viene il sospetto che i giornalisti di cinema siano assai sensibili, di questi tempi, agli “strilli” delle case di produzione, e a Venezia siano andati in visibilio per la luce delle star sul red carpet, i ricevimenti, le feste, gli alberghi. E abbiano perso la trebisonda. Perché altrimenti questo tripudio di aggettivi roboanti, una volta visto il film, risultano inspiegabili, e incomprensibili.
Carnage è un film di buon livello, un ambient-movie ben recitato, ben diretto, con una sceneggiatura serrata ma a tratti ondivaga, dispersiva e insicura. Perché è un film impostato sulla psicologia, e i comportamenti dei personaggi sfuggono spesso a una logica, a un profilo ben delineato e coerente, sfilacciandosi in grida isteriche e crisi esagerate. Si passa dalla contrapposizione tra coppie ad accenni di alleanze tra donne, poi tra uomini, come se il regista volesse riassumere l’intero campo operativo della psicanalisi, con le sue dinamiche e contraddizioni interne. Il risultato è un crescendo di aggressività che sfocia nel furore, nell’insulto, in un percorso a tratti squilibrato, frenetico, come se si volesse sovraccaricare oltre ogni limite del possibile il cassone di un camion.
E poi c’è il guaio che sappiamo già. Il film è semplice e prevedibile, e le recensioni-strillo ci hanno già rivelato l’inizio, il motivo del contendere, la progressione, fino a un finale che, per chi ha un minimo di esperienza coi figli ragazzini, sa che è improbabile. Così quando la coppia dei Cowan, formata dalla supermegastar del momento Kate Winslet e Cristoph Waltz, si reca nell’appartamento newyorkese dei Longstreet, con un sanguigno John C. Reilly e una tiratissima, nervosa Jodie Foster, per discutere dell’aggressione del proprio figlio a quello della coppia ospite, già sappiamo per filo e per segno che tutti i tentativi di andarsene dopo le scuse, i comportamenti politicamente corretti, andranno a vuoto. Torneranno sempre indietro, dalla porta dell’ascensore, dal corridoio, perché la loro missione è gestire il progressivo scivolamento nella violenza, nel massacro (il carnage). Aspettiamo le prime parole storte, che arrivano puntuali, i primi timidi segni di dissonanza, e siamo consapevoli che ne chiameranno altri, sempre più torbidi. Non manca l’ironia, con tratteggi di humor macabro: una delle trovate più divertenti è il continuo telefonare col blackberry di Waltz (che ricordiamo nella divisa dell’esilarante, feroce ufficiale nazista di Bastardi senza gloria di Tarantino), un avvocato-squalo che sta lavorando per occultare le prove di effetti collaterali di un farmaco per l’ipertensione, che ci strappano più di un ghigno. E intanto aspettiamo il catartico vomitone della Winslet, sul quale i giornalisti si sono entusiasmati oltre misura: la supermegastar che vomita, e giù interviste sull’evento epocale. In realtà è un vomitino, uno sbocco minimalista che rende ancora più stramba l’enfasi delle recensioni. Ma se questi giornalisti avessero letto il fumetto di Filippo Scozzari dove un personaggio fa un vero vomitone quando il suo compare gli nomina la stilista Krizia, cosa avrebbero scritto?
Mentre il buonismo e l’educazione scivolano via irrompono le incomprensioni, i rancori, tutto il nero che si nasconde sotto al bianco velo delle convenzioni. La faccenda dei figli sembra poco più che un pretesto, perché è il carnage che preme per esplodere. Ma l’affanno di fare e dire di tutto, di spingere a fondo l’acceleratore, crea uno squilibrio che confonde lo spettatore. Risulta faticoso seguire i personaggi mentre sprofondano nella crisi della coppia, poi nella sua cementificazione, che apre il sipario all’alleanza tra mariti, e nuovamente alla loro ostilità: Waltz sbeffeggia Longstreet (venditore di articoli per la casa, tipo sciacquoni per water), il quale lo disprezza per il suo cinismo di avvocato, e così via. È un sistema psichico-comportamentale a tratti caotico, e poiché non è una semplice caratteristica del film ma è il film stesso, ogni slabbratura costituisce un limite serio. Gli attori ci sono, Jodie Foster è inquietante nella sua tensione metallica, la Winslet sarebbe brava e bella, ma le recensioni l’hanno talmente incensata che il valore d’uso del suo personaggio, pompato fino all’isteria, divora il personaggio reale: mentre ammiriamo i suoi primi piani non possiamo non pensare, con un senso di straniamento, che stiamo guardando la star supergalattica, perché così ci hanno strillato fino all’inverosimile. Insomma, proprio come fa il Narratore della Recherche quando finalmente è ammesso nel salotto Guermantes, e non fa che ripetersi: sono proprio qui, sono dai Guermantes, ci sono davvero, coi più strafichi del Faubourg. E non riesce a crederci