di Francio Ricciardiello
Come in un romanzo d’appendice, nella drammatica storia del Laos moderno si intrecciano le vite di tre fratelli, principi di sangue reale, saliti al vertice delle fazioni politiche che per un quarto di secolo si disputano la supremazia in questo remoto paese di 3 milioni di abitanti. Il Laos però non è un regno da operetta, un esotico sultanato alla Salgari: la storia del Novecento ha coniato per questo angolo di mondo la definizione di “most bombed Country on Earth”, paese più bombardato della Terra.
Fino alla guerra mondiale, il Laos è una colonia francese composta da due regni; l’occupazione giapponese fino al 1945 fa intravedere la possibilità di arrivare all’indipendenza. Dopo la sconfitta del Sol Levante, i francesi tornano a riprendere le colonie. Nell’ottobre del 1945 nasce il movimento nazionalista Lao Issara (Laos Libero) che forma un governo clandestino: al vertice sono tre nipoti del Re, tre fratelli educati in Europa: primo ministro è il principe Phetxarāt (nato nel 1890); ministro dei Lavori pubblici è suo fratello minore principe Suvannaphūmā (n. 1901): entrambi sono figli del viceré Bounkhong e della prima moglie principessa Thongsy; ministro degli Interni e comandante delle forze armate è infine il principe Suphānuvong (n. 1909), figlio di Bounkhong e della terza moglie, la borghese Mom Kham Ouane.
Il Lao Issara viene sconfitto militarmente dai francesi con il beneplacito del Re, Suphānuvong è ferito in battaglia. I tre principi sono costretti a emigrare; Phetxarāt sceglie l’esilio a Bangkok, poi ritorna in patria come viceré; Suvannaphūmā approfitta di un’amnistia e poco dopo diventerà primo ministro del Laos; Suphānuvong ripara in Việtnam perché un colpo di stato della destra in Thailandia preclude le basi della guerriglia. Nel 1949 il Lao Issara si scioglie ufficialmente perché non tutti sono d’accordo a mettersi sotto la tutela việtminh, il movimento comunista vietnamita.
Durante un precedente esilio per motivi politici, Suphānuvong, che si è guadagnato l’epiteto di “principe rosso”, ha sposato la vietnamita Nguyễn Thị Kỳ Nam ed è entrato in contatto con il leader comunista Hồ Chí Minh. D’altronde, il comunismo laotiano ha profonde radici nel rapporto con il vicino: vietnamita è il segretario generale Kaisôn Phomvihān (il cui nome alla nascita è infatti Nguyễn Trí Mưu) e una parte considerevole dei suoi membri, come pure il 60% degli abitanti delle aree urbane del Laos, i quadri della burocrazia e della polizia.
Durante il nuovo esilio, Suphānuvong fonda nel 1950 il Pathēt Lao (Patria Laos, dove la parola “pathēt” ha un significato più forte dell’italiano, simile in questo al tedesco “heimat”), largamente influenzato dal việtminh, che si sta organizzando militarmente contro Parigi. Nell’aprile del 1953, durante un’offensiva contro i francesi, l’esercito việtminh al comando del generale Giáp invade alcune province laotiane: al corpo di spedizione sono aggregati anche 2 mila pathēt lao comandati da Suphānuvong. La rovinosa sconfitta francese a Ðiệnbiênphủ sanziona la fine del colonialismo in Indocina; anche il Laos acquista l’indipendenza, la capitale è Vientiane, cittadina sul Mekong al confine con la Thailandia. Il potere resta nelle mani del Re.
Dopo le elezioni farsa del 1955, che vedono l’esclusione dei comunisti dal parlamento, il primo ministro principe Suvannaphūmā, fermamente convinto che una politica neutrale possa far cessare la guerra civile, propone ai comunisti guidati dal fratello il cessate il fuoco e la riconciliazione nazionale. Con la mediazione del fratello maggiore Phetxarāt, Suphānuvong diventa nel ’58 ministro dell’Economia nel governo di coalizione del fratello minore, ma gli ingentissimi finanziamenti americani non passano attraverso i suoi uffici. Le elezioni suppletive del ’58 sono un successo per i comunisti, Suphānuvong conquista il seggio di Vientiane con la più alta percentuale di voti del paese. Ma il Laos rimane stritolato nei meccanismi della guerra fredda, che USA e URSS combattono in Indocina. I nordvietnamiti, durante la lunga e terribile guerra civile contro il Sud sostenuto dagli USA, aprono attraverso le foreste e le montagne del Laos il cosiddetto “sentiero di Hồ Chí Minh” per trasferire truppe, rifornimenti e volontari partigiani verso il delta del Mekong. La situazione a Vientiane si deteriora; gli USA rifiutano di sostenere economicamente un governo di coalizione con i comunisti. Phetxarāt muore nel ’59, all’età di 69 anni; la destra sfiducia il gabinetto Suvannaphūmā; Suphānuvong viene arrestato ma riesce a fuggire insieme ai suoi guardiani, che ha convertito al comunismo, così come due interi battaglioni del Pathēt Lao che non si sono integrati nell’esercito reale. Il Laos scivola di nuovo verso la guerra civile, a nulla serve il tentativo di coup d’état neutralista del capitano Kông Lae nel 1960: gli USA sostengono un nuovo governo illegale di destra. I neutralisti occupano Vientiane, sostenuti da un ponte aereo sovietico, ma l’esercito riesce a scacciarli: i neutrali di Suvannaphūmā e Kông Lae stringono un’alleanza militare con i comunisti. Nel ’61 un nuovo tentativo di riconciliazione porta al IV governo Suvannaphūmā, che comprende 11 ministri neutrali, 4 della destra e 4 del Pathēt Lao, con Suphānuvong vice premier.
La guerra vietnamita intanto tracima oltre confine, violentissima. Gli Stati Uniti armano le minoranze etniche hmong degli altipiani laotiani. L’importante zona archeologica della Piana delle Giare diventa per 13 lunghi anni teatro di cruenti scontri: è la cosiddetta “guerra segreta” mai ammessa davanti al Congresso americano. Avanzamenti e arretramenti sono dettati dalle condizioni meteorologiche: le divisioni dell’esercito comunista sono all’attacco nella stagione secca, in difesa durante le piogge. I laotiani partecipano con scarsa voglia alla guerra civile, che vede impegnati soprattutto stranieri: vietnamiti del nord e del sud, americani, tailandesi, minoranze etniche. L’esercito reale viene praticamente distrutto a Nambac dai nordvietnamiti, e rimane fuori gioco per anni; dall’altra parte del fronte, il Pathēt Lao compare sul campo di battaglia solo dopo che i nordvietnamiti vincono. I B-52 americani rovesciano quantità incredibili di bombe e ancora oggi nella Piana delle Giare sono visibili crateri di dimensioni stupefacenti. Dal ’68 in poi il Paese è virtualmente diviso in due parti: la valle del Mekong tenuta dal regime di destra filo-americano, le montagne (due terzi della superficie e un quarto degli abitanti) controllate dai comunisti: in questa zona il Pathēt Lao persegue una politica di moderazione; la zona liberata è esente dalla corruzione che dilaga a Vientiane, come in tutti i regimi sostenuti dagli americani.
Le sorti geopolitiche del Laos sono strettamente legate a quelle del Việtnam, e si risolvono quasi contemporaneamente. Nel ’73 gli americani abbandonano l’Indocina, ma gli accordi di Ginevra non impegnano l’esercito vietnamita a fare altrettanto: il che indica inequivocabilmente chi ha vinto la guerra. Il neutrale Suvannaphūmā forma un nuovo governo con 12 ministri di destra e 12 comunisti; Suphānuvong, presidente del Parlamento, propone un piano di Ricostruzione nazionale in 18 punti, approvato all’unanimità. Un tentativo di colpo di stato della destra porta al collasso della fazione filo-americana. L’equilibrio di potere slitta inesorabilmente verso i comunisti. Le riunioni pubbliche vengono proibite, la libertà di stampa limitata.
Nel 1975 i comunisti arrivano al potere in Sud Việtnam, Cambogia e Laos: il 17 aprile i khmer rossi conquistano Phnom Pénh, il 30 aprile i nordvietnamiti arrivano a Sàigòn. Spalleggiate dall’artiglieria pesante vietnamita, le forze del Pathēt Lao (che non hanno mai smobilitato) avanzano verso la capitale Vientiane occupando senza combattere una posizione dopo l’altra. Le città del Laos sono sconvolte da proteste di piazza, la sinistra sempre più forte chiede un cambiamento politico; i ministri di destra si dimettono e lasciano il paese. Tra maggio e agosto, il Pathēt Lao occupa tutte le città. Nel timore di una vendetta, gli hmong emigrano in massa verso la Thailandia.
Nei primi tempi i comunisti mantengono le promesse di moderazione: il governo di coalizione rimane in carica, la proprietà privata è rispettata, non ci sono arresti né processi delle personalità più compromesse con la dittatura militare. A dicembre 1975 tutto cambia: il premier Suvannaphūmā reduce da un infarto si dimette, re Sisavang Vatthana abdica (quattro anni più tardi sarà arrestato e morirà in un campo di rieducazione al lavoro). La monarchia è abolita, nasce la Repubblica democratica popolare del Laos, Il principe rosso Suphānuvong è il primo presidente, ma dietro di lui si prefigura il reale rapporto di forze interno: il segretario generale del Partito, Kaisôn Phomvihān, diventa primo ministro. Vengono allontanati dal servizio funzionari, militari e poliziotti del vecchio regime, migliaia sono inviati nei campi di rieducazione. Non si parla più di elezioni pluripartitiche né di libertà civili.
La gestione del potere nel nuovo Laos si discosta sensibilmente dal marxismo-leninismo ortodosso: in un paese in cui il 90% degli abitanti sono dediti a un’agricoltura di sussistenza, è impensabile che il socialismo arrivi dopo uno stadio di sviluppo capitalista. Inoltre, la collettivizzazione delle terre e dei mezzi di produzione e l’istituzione di cooperative agricole lasciano piuttosto freddi i contadini, che oppongono una resistenza passiva. La situazione economica rimane critica, le riserve alimentari scarseggiano. La politica estera è indissolubilmente legata al Việtnam, e ciò significa rottura delle relazioni diplomatiche con la Cina.
Dopo il ’75 Suvannaphūmā mantiene qualche incarico come consulente del nuovo governo. Suphānuvong è membro del politburo del Partito comunista, ma non del suo “cerchio interno” organizzato intorno a Kaisôn Phomvihān, che si dimostra il più pragmatico dei leader comunisti al potere. Nel dicembre 1979 Kaisôn ammette pubblicamente che il Laos non è pronto per il socialismo, e ispirandosi alla NEP, la Nuova politica economica di Lenin, proclama l’abbandono della collettivizzazione; seguono altre liberalizzazioni economiche, senza riflesso nelle libertà politiche. Nel 1985 il Partito rinuncia alla proprietà statale dei mezzi di produzione, e il suo controllo sull’economia viene virtualmente meno. Nell’89 cessano gli aiuti sovietici.
Suvannaphūmā muore nel 1984, all’età di 83 anni, due anni dopo Suphānuvong abbandona la carica di presidente del Laos. Kaisôn Phomvihān muore nel 1992. Gli esuli della guerra civile vengono incoraggiati a tornare in patria: molti tra il 10% di abitanti che ha abbandonato il Laos dopo la vittoria comunista riprendono la cittadinanza e la residenza. Il disgelo economico non comporta una liberalizzazione politica: Amnesty International continua fino ai giorni nostri a denunciare detenzioni illegali e prigionieri politici.
L’avventura del “principe rosso” termina nel 1995, quando Suphānuvong muore all’età di 86 anni. La sua è una biografia particolare, persino nella ricchissima storia del XX secolo in Asia. Laureato in ingegneria all’École Nationale del Ponts et des Chaussées di Marne-la-Vallée presso Parigi, parla otto lingue tra cui latino e greco; ha sempre incarnato la faccia presentabile del comunismo laotiano, nella clandestinità come nell’esercizio del governo. Nell’inverno 2011, quando ho visitato il Laos, erano ancora molto diffusi i manifesti per il centenario della nascita di Suphānuvong: la sua foto in bianco e nero sopra la bandiera a strisce blu e rosse, il primo stendardo di un paese socialista che non utilizza la stella bensì un disco bianco, simbolo buddista che evoca l’unità di tutto il popolo. Il Laos ha conquistato la pace sociale e una base economica per la prosperità, ma il cammino verso la piena libertà politica potrebbe non essere breve.