di Daniela Bandini
Giorgio Bona, L’allungo del mezzofondista, Ed. Iris 4, 2011, pp. 120, € 13,50.
Emil, un atleta, un mezzofondista. In questo allungo che solo a leggerlo viene un attacco di tendinite fulminante, ci immergiamo nella sofferenza fisica, tangibile e viscerale che accompagna la gara di un atleta professionista. Mantenere, scendere, superare i tempi, cronometrare, vivere i cicli e gli sbalzi ormonali con quelli sportivi per un unico, ossessivo scopo: la prossima gara, i prossimi tempi da mantenere, superare, cronometrare.
Emil è un atleta ed è un uomo che deve affrontare e deve distanziare la mediocrità dei propri risultati, sia professionali che familiari. Superare la mediocrità dei propri limiti e lanciare il cuore oltre un ostacolo. Rimbalzerà impietosamente contro un muro di gomma, e in entrambe le gare. Questa è la vera competizione, ed Emil sarà sconfitto.
Sconfitto dalla malasorte, dai cattivi maestri, dal pessimo alunno qual è e da quella carogna di vita che mai ti desse una soddisfazione, una volta sola…
Sconfitto con la vittoria in pugno, già oltre il traguardo, beffato dal “non dire gatto finché non l’hai nel sacco”, beffato dai luoghi comuni dei proverbi, beffato dalle pile dei piatti sporchi nel lavello e dalla polvere che si accumula sui mobili che dovrebbero portare i segni delle azioni comuni, beffato dal traguardo e dagli allenatori, beffato dagli allenamenti estenuanti che pretendono sempre di più, impietosi della tua stanchezza, dal tuo non reggere più i tempi, i tempi del cronometro, quelli di tua moglie Alessandra, che di tempo te ne concede anche troppo, completamente avvolto nell’indifferenza e nella incomprensione di chi se ne fa un mestiere e se ne crogiola. Dall’indifferenza e dalla polvere.
E come sempre succede, anche solo per una volta, l’energia per lo scatto finale arriva da fuori, portato da un integratore con qualche molecola in più, dall’aiutino, come quello invocato dai concorrenti negli anni ’80 nei programmi di Raffaella Carrà, un aiutino affatto privo di effetti collaterali, che altera la massa sanguigna, sballa i valori, e lo senti nello stomaco, nell’aria intestinale, nell’alito, nei muscoli, nell’euforia e nel down che ne segue, agghiacciante. L’energia per lo scatto, quello determinante, quello fondamentale anche se
cronometrato in centesimi di secondo, anzi soprattutto per quei pochissimi centesimi di secondo, può affiancarsi a un nuovo amore che fa sognare Emil. Un traguardo, un affrancamento da tutto, un traguardo non più limitato da tappe forzate, in solitaria, ma un traguardo da tagliare in due.
Tanta fatica, tante promesse, tante certezze sulla carta, tanta medicina conclamata, una vittoria in pugno, un primato, una nascita: “…viscosità del sangue, rischio tromboembolemico, artitmie secondarie… Sento lo stomaco, l’intestino, la vescica, ma ho perso il controllo di ogni funzione. Sono inchiodato in un letto, legato a una macchina che mi misura ogni battito di vita. Non posso parlare…”.
Lo chiamano doping, lo sentiamo dire a volte, “squalificato per doping”, e in genere pensiamo “ma va’ là che in quell’ambiente si fanno tutti, altrimenti mica ci sarebbero quelle prestazioni lì se no!”. Come per la Formula 1, dove la metà dei telespettatori guarda la gara per vedere l’incidente e magari ci scappa il morto, “ché coi soldi che guadagnano questo è il rischio da correre, tanto poi ci pensa l’assicurazione…”
Lo chiamano doping e pensi al ciclismo di Pantani, valori da testare, valori morali da testare, dosaggi da cambiare. Ma le gambe rimangono quelle, anche quelle di Pantani, quelle maledette gambe che devono rendere sempre di più, perché come te, così, a questi livelli, ce ne sono tanti altri, che aspettano che tu ti faccia da parte, che molli.
Quello di Bona è un romanzo intenso e contemporaneamente “normale”. Affronta laquotidianità da un altro punto di vista, roba da alieni per i non addetti ai lavori, con una durezza e una esasperante “normalità”, tanto che viene voglia di gridare: “ma smettila!”. Solo che nessuno, secondo me, potrebbe mai trattare la sofferenza agonistica senza averla provata almeno un poco, oltre il dilettantismo. La sofferenza la puoi descrivere solo dopo averla sentita, anche per interposta persona intendo. Descrivetemi un parto e vi saprei senz’altro dire se quell’esperienza l’avete vissuta oppure ammassate parole vuote grevi di retorica come “dolore, sofferenza, spingere ed ancora spingere, un respiro forte e spingere…”.
Questo romanzo aiuta a riconoscere la menzogna, a riconoscere la vera tragedia della vittoria e della sconfitta dalle parole vuote come “successo, entusiasmo, costanza, fatica, squadra, superamento, prova…”.
E l’agonismo può essere un espediente perfetto per l’esistenza, una routine consolidata da obiettivi prefissati, dove tragicamente anche l’esperienza più collaudata diviene vulnerabile, dove il successo e le aspettative, come due binari paralleli che non si intersecano mai, portano alla sconfitta e alla disillusione. Una gravidanza dura nove mesi, l’allenamento in vista di una gara decisiva può avere gli stessi tempi se l’obiettivo è molto ambizioso, ma in entrambi i casi anche la buona volontà, il crederci assiduamente, l’impegno, non garantiscono quel lieto fine che vorremmo: la medaglia d’oro, anche solo
per provarci. A vivere degnamente, intendo.