di Luca Baiada (da Il Ponte, LXVII n. 9, settembre 2011)
[Riproduciamo l’articolo senza le note, visibili nella versione a stampa. Ringraziamo Il Ponte per la gentile concessione.]
Dominique Strauss-Kahn, direttore del Fondo monetario internazionale e possibile candidato alla presidenza francese, è arrestato a New York con l’accusa di stupro il 14 maggio.
Il fatto suscita un clamore mondiale, occupa le pagine dei giornali per un po’ di tempo, poi viene deformato, stravolto, e infine insabbiato. In concreto, l’uomo rimane in carcere per alcuni giorni, poi agli arresti domiciliari in una lussuosa residenza per qualche settimana. Mentre scrivo è libero, col solo divieto di lasciare gli Usa, fa vita agiata e il processo sembra entrato in un’eclissi senza tempo.
Non è possibile prevedere l’esito della vicenda, anche se va sottolineato che il contatto sessuale fra Strauss-Kahn e la donna è dimostrato da analisi biologiche; solo il mancato consenso, è controverso. Ma più che il caso giudiziario, qui vediamo come si sono allineate le prese di posizione.
Gli intellettuali francesi, con qualche eccezione, si schierano dalla parte dell’accusato, o in una zona ambigua. Molti sono scandalizzati dall’immagine di Strauss-Kahn ammanettato. Anche altri, si scandalizzano: sono donne del paese d’origine di lei, risentite perché è apparsa in televisione e ha raccontato in pubblico dettagli scabrosi . Distanti migliaia di chilometri, intellettuali di Francia e pie africane chiedono la stessa cosa: non vedere, non sapere.
Sentiamo le persone della cerchia di lui.
Per l’ex moglie, la violenza non fa parte del suo temperamento: «Non è l’uomo che conosco». E poi, poco dopo il fatto ha pranzato con la figlia. Vi pare che un uomo stupra una donna e poi pranza con la figlia? . Nella stessa direzione, chi fa notare la calma di Strauss-Kahn, nelle videoregistrazioni del ristorante.
Un’ex amante viene intervistata: non è un tipo violento.
Il suo biografo ufficiale va oltre: è un seduttore, è il tipico amante francese, non uno stupratore. Il biografo ne è sicuro, ha parlato con sessanta persone . Parole degne del baretto di una periferia, una qualsiasi. Basta sostituire al seduttore francese il macho spagnolo o il gallo italiano, e questo discorso volgare e allusivo va sempre bene.
L’attuale moglie di Strauss-Kahn non solo respinge le accuse, ma mobilita le sue conoscenze e il suo patrimonio per organizzare la difesa. Sullo stesso fronte si impegna la prole, con dichiarazioni rassicuranti e assolutorie. Per chi è convinto che il familismo amorale sia una prerogativa del costume italiano o della religione cattolica, la vicenda è un ottimo paradigma. Permette di misurare la disinvoltura di un intero ceto dirigente, assolutamente trasversale a cittadinanze, lingue, comunità, religioni, e di assaggiare il meccanismo di solidarietà che vi scatta al minimo pericolo, persino per un’accusa torbida e distante dalla vita professionale. Chi si è stupito delle prese di posizione solidali delle famiglie di Silvio Berlusconi o di Guido Bertolaso, quando la stampa ha riferito della loro frequentazione di prostitute nell’ambito di convulse vicende, le confronti con quelle dei familiari di Strauss-Kahn, e stenterà a distinguere, ammesso che faccia qualche differenza, chi di costoro frequenti le chiese e chi le sinagoghe.
Fra le reazioni, ci sono le denunce di complotti. Chi vede nella vicenda una macchinazione della destra francese, chi un attacco all’euro o a Obama, chi un regolamento di conti fra sostenitori di questa o quella politica monetaria. Teorie che hanno un vago sapore umoristico, se si tiene conto che per lo più provengono da ambienti ingessati, vicini al notabilato economico e politico, e abituati a deridere come complottismo ogni narrazione non coincidente con quella ufficiale, su qualsiasi cosa (11 Settembre, rivoluzioni colorate, eccetera). Per costoro ogni approfondimento è delirio, ma se un uomo potente è accusato di stupro, approfondire non basta mai, e ogni aspetto della vita della denunciante viene meticolosamente denudato, ogni frequentazione è sospetta, ogni parola è un intrigo. Sono gli stessi ambienti che al tempo del Cablegate, quando le rivelazioni di Wikileaks hanno scoperchiato un verminaio, hanno dato credito alle iniziative giudiziarie nei confronti di Julian Assange. Contro Strauss-Kahn e Assange ci sono accuse per reati sessuali, ma uno è stato subito liberato, e l’altro mentre scrivo è da otto mesi sotto custodia .
Quanto alla donna, il modo in cui la sua vita viene sminuzzata, tritata, cannibalizzata dal sistema mediatico, probabilmente con qualche mossa a orologeria di agenzie di comunicazione specializzate, è un caso da manuale di denigrazione e quasi di tattica bellica. Qui non si affronta la questione della colpevolezza dell’accusato, né quella della totale credibilità della narrazione di lei. Praticamente non esiste una persona capace di narrare ciò che ha vissuto senza qualche sbavatura, qualche errore, qualche ripensamento. Quando si tratta di violenza fisica, poi, e specialmente di stupro, l’emozione intorbida il ricordo, ed è un consueto stratagemma della difesa far leva su lacune e contraddizioni.
In questo caso, però, le particolarità della vicenda e le caratteristiche della donna offrono armi in più per aggredirla, e insieme punti di osservazione per decifrare il degrado della comunicazione e della rappresentazione della giustizia .
Lei è una cameriera dell’albergo in cui l’uomo ricco e potente alloggiava. Lei ha la pelle scura, lui chiara. Lei è immigrata negli Usa dall’Africa, lui ha la cittadinanza francese, forse anche uno statuto legale speciale. L’abisso di differenza sociale ha contorni da romanzo d’appendice. E la ricerca di elementi per screditare il racconto della violenza apre un catalogo quasi completo dei pregiudizi che si scatenano in casi come questo. Quasi, perché vedremo che manca un tassello.
La donna possiede del denaro, da dove viene? È troppo per lei, non può essere che di origini sospette, è dunque una mentitrice. Quando ha chiesto il permesso di soggiorno ha mentito sul suo passato. Dunque sa mentire, può mentire, allora mente sempre, anche stavolta ha mentito. E poi, ha più di un telefono cellulare, e spende molto per il traffico telefonico. Dunque è benestante, altro che cameriera. Questa logica automatica, con l’ossessione di un tic nervoso e l’attendibilità di un’allucinazione, può essere frequentata solo da chi abbia smarrito il senso della realtà. Oppure da chi abbia coltivato bene la malafede. La menzogna per ottenere un permesso di soggiorno è probabilmente la regola, non l’eccezione, negli Usa come in Europa. Il possesso di cellulari e le spese sregolate per il traffico telefonico ribadiscono la magra condizione sociale, ammesso che questo cambi qualcosa. Bene ambìto dalla società dei consumi, portatore di un’estetica elementare e di un linguaggio operativo immediato, il cellulare è di fatto desiderato e inseguito in misura direttamente proporzionale alla modestia economica e culturale della persona, e si può scommettere che proprio nelle tasche delle cameriere, dei lavapiatti, delle badanti abitino i modelli più sofisticati, quelli per cui persone di livello sociale e intellettuale superiore non sarebbero disposti a fare il minimo sacrificio, e che invece sono gioia e consolazione dei poveri e degli ignoranti.
Ma sempre sulla crepa delle condizioni economiche, fa leva un altro arnese del discorso. Pare che lei a margine del lavoro o delle frequentazioni si sia improvvisata rivendugliola di schede telefoniche e di altro; forse ha fatto anche da prestanome, magari proprio per utenze telefoniche o per qualcosa di losco. In più, è in contatto con gente immigrata come lei, fra cui qualche pregiudicato per stupefacenti. Ecco trovata la falla, ecco caduta la maschera. Probabilmente, si accostano con furbizia fatti veri, per comporre un mosaico di comodo. Le frequentazioni equivoche sono la regola in molte comunità immigrate, e su questo tema si misura come la perdita del senso della realtà possa trasformarsi in una trappola. Un luogo comune vuole gli immigrati tutta brava gente, formichine tutte solidarietà e fatica; così si costruisce un mito che i fatti smentiscono, ma che torna comodo per screditare una denunciante, quando non ha altri testimoni che se stessa.
Nel cono d’ombra del tema delle disponibilità economiche, si annida il discorso più arcaico e subdolo. Ha del denaro perché si è prostituita, anzi lo fa regolarmente, anzi via, è fra le più avide nel giro delle squillo d’albergo di Manhattan. Squillo d’albergo? Sappiamo poco della sua storia; ma ha più di trent’anni, ha una figlia e ha avuto una vita movimentata. Di certo, in un grande albergo di New York la facoltosa clientela può scegliere ragazze ben più giovani, e le vuole con un corpo perfetto, non insidiato dagli strapazzi e dalle conseguenze della maternità. Comunque, l’accusa di prostituzione è forse il punto più profondo della denigrazione, e il fatto che a questo coro si siano unite alcune voci famose della propaganda dei diritti umani, specie dalla Francia, dovrebbe far riflettere. Ma vediamo qualche corollario.
La donna è una prostituta, e la prostituta finge, quindi la sua testimonianza è inconsistente. Divieti o limitazioni alla testimonianza della prostituta, come dell’attore, erano tipici del diritto medievale, ma non sembrano del tutto tramontati.
La donna ci sta con tutti, anzi fa sesso per denaro, quindi anche stavolta vuole del denaro, perciò è inattendibile. L’argomento farebbe quasi sorridere, considerando che sul denaro, nel denaro e per il denaro l’accusato ha impostato tutta la sua vita professionale: economista e protagonista dell’alta finanza, le decisioni di Dominique Strauss-Kahn hanno avuto effetti planetari, e il suo tenore di vita è sontuoso. Ma l’attenzione di alcuni per il denaro è filantropia, sviluppo, economia, geopolitica; quella di altri è imbroglio, parassitismo, bottega, complotto. L’egoismo, è sempre quello degli altri. Per questo, la difesa fa leva su una telefonata della donna a un connazionale, dopo il fatto, in cui forse — la traduzione da un idioma africano è dubbia — lei si ripromette un lucro da quanto appena accaduto. Un proposito del genere non esclude lo stupro. Semmai, l’atteggiamento di chi sottolinea questo, collega il crimine a un’immaginaria, irrealistica irreprensibilità della vittima. Una vera vittima, dovrebbe essere tutta spirito. Ecco dunque l’aspetto che esamino qui di seguito.
La donna è una prostituta, perciò non può essere stuprata, nel senso che il suo stupro non esiste. Quest’affermazione, smentita da ogni trattato di diritto penale, cacciata dalla porta tende a rientrare dalla finestra. Anche per questo, un orientamento logoro e retrivo sopravvaluta nei processi per stupro la questione del piacere. Se la donna ha mostrato piacere, si dice, lo stupro è escluso. La cosa possiede anche un doppio fantasmatico: se dopo l’uomo le ha chiesto se ha provato piacere, lo stupro è quantomeno dubbio. La vittima di stupro deve essere repulsiva, l’autore spietato.
La questione del piacere e quella del denaro sono proiezioni della questione del dono e dello scambio, che inevitabilmente si intreccia a ogni contatto sessuale e che assume nel contatto violento il suo grado estremo. Se non si accetta l’idea che la vittima porta dentro di sé l’ombra del consenso, come l’autore porta dentro l’ombra del bisogno, se non ci si rende conto che qualcosa dentro lo stupratore implora «dammi» mentre prende, e qualcosa nella vittima dice «prendi» mentre respinge, lo stupro sfuggirà facilmente alla cognizione, alla prevenzione e al castigo, perché si pretenderà dai fatti, dalle persone, dai contesti un nitore che non sempre posseggono.
Ma il mito dell’impossibilità di configurare uno stupro della prostituta ha probabilmente motivi molto profondi, che non riguardano solo il tema della violenza, ma dinamiche sociali e psichiche del sesso e del denaro, cioè del corpo e del simbolo. Si possono ricordare le antiche diatribe, anche di origine poliziesca, sanitaria e catalogale, sull’orgasmo delle prostitute, sulla loro bisessualità, sulla loro incontrollabilità. Nel mito la prostituta è sfrenata ma gelida, votata al godimento dell’uomo ma fedele a una consorteria femminile, ricattabile ma spia.
Sulla soglia del secolo breve, in Europa il processo penale si misura con due nemici fabbricati: Dreyfus e Mata Hari. C’è in mezzo una generazione, ma il suicidio della Belle Epoque si consuma anche così: i figli di coloro che hanno incarcerato l’uno, finiscono l’opera uccidendo invece l’altra. La Prima guerra mondiale, mentre dissolve i grandi stati multietnici e multireligiosi, concentrando le identità nazionali e preparando il terreno per altre durezze concentrazionarie, vede lei fucilata con l’accusa di aver fatto spionaggio contro la Francia, lo stesso paese in cui lui, dopo la persecuzione, è stato reintegrato nelle forze armate e partecipa al conflitto. Forse, oggi il mito vede volentieri una prostituta, nella straniera che denuncia un ebreo francese famoso e invidiato.
In questo caso, poi, per colmo di mitologia la donna è un’immigrata musulmana in Occidente, nella New York dell’11 Settembre, a dieci anni da quel fatto. Può essere curioso ricordare che è una prostituta — ma solo secondo una versione meno antica del testo biblico — la Raab che a Gerico aiuta gli ebrei in procinto di conquistare la città. Quando si è sotto assedio, gli incontrollabili sono sospetti, i diversi sono nemici; o almeno, questo è il senso di una lettura del personaggio molto tempo dopo, a cose fatte. Perché? Forse perché chi aiuta i conquistatori è accogliente — e nel testo Raab è un’albergatrice — mentre quando i conquistatori controllano il territorio temono insidie, specialmente se a loro volta vogliono sfuggire a un controllo. Così la Septuaginta, e gli autori della Lettera agli ebrei e della Lettera di Giacomo, vedono in Raab non più l’albergatrice ma la puttana. Dante invece la incontra nel cielo di Venere, e subito il suo pensiero corre a Firenze, dove l’esule non può entrare. La donna dell’accoglienza e la prostituta finiscono per risolversi l’una nell’altra, a seconda dei punti di vista e del quadro sociale e personale.
Nel caso Strauss-Kahn manca, dicevo, un tipico arnese: l’impossibilità dello stupro. Si presenta a volte nella versione della non corrispondenza ai canoni estetici: lei è brutta, lui è bello, quindi il fatto è impossibile. Più spesso, con l’impossibilità meccanica: la posizione dei corpi, le caratteristiche del luogo, l’abbigliamento non consentivano il rapporto sessuale. Canonico, quasi obbligato, è il riferimento all’impossibilità di quel rapporto, almeno con la violenza. Su Strauss-Kahn, la stampa internazionale ci ha risparmiato le dimostrazioni che il sesso orale non può essere forzato (vedremo che in passato l’argomento ha avuto sostenitori). È stato proposto, però, un tema diverso: il paragone dell’altezza e della robustezza dei due.
Quanto a ciò che resta dell’intellettualità femminista, ha tenuto un atteggiamento deludente. Come la cultura dei diritti umani, con cui è imparentato, anche il femminismo è rimasto indietro rispetto all’argomento. Lo conferma l’impegno in favore di Strauss-Kahn degli stessi ambienti, specialmente francesi, che nel 2010 hanno fatto rumore per la vicenda dell’iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani, attaccando l’Iran anche col pretesto della questione femminile. Per cogliere invece come il passato avesse costruito sensibilità di ben altro spessore, anche in Italia, bisogna accennare a un caso trattato a Latina negli anni Settanta, e ripreso allora da un documentario, Processo per stupro. Clamorosa novità, per quei tempi, la registrazione in aula fece un po’ di luce sulla violenza non solo dello stupro, ma proprio del processo. Il processo per stupro, a distanza di decenni, si svela uno stupro per processo, e fa effetto rivedere la coraggiosa Fiorella denunciare a viso aperto i suoi aggressori, e affrontare gli occhi del dibattimento e della telecamera. Anche allora, come nel caso Strauss-Kahn, la difesa insisteva sulla vita della denunciante, e sosteneva che si prostituisse. Però aggiungeva che la ragazza non era stata pagata perché il sesso non era stato soddisfacente. E come nel caso Strauss-Kahn, al fatto non erano presenti altri testimoni (ma il Tribunale di Latina condannò gli imputati).
L’avvocatura fece nell’insieme una figura misera. Sentiamo un difensore:
Signori, una violenza carnale con fellatio può essere interrotta con un morsetto. […] Ecco, il possesso è stato esercitato dalla ragazza sui maschi, dalla femmina sui maschi. È lei che prende, è lei la parte attiva, sono loro passivi, inermi, abbandonati, nelle fauci avide di costei! Ma la signorina che cosa pratica? […] È il suo amico amoroso, che s’inginocchia davanti a lei, e la bacia teneramente su quella che il divino Gabriele, suo illustre corregionale signor presidente, chiama «la seconda e più trepida bocca», da cui sugge il piacere di lei. Quindi, che cosa è il cunnilictus [sic]? È più che l’amore, è l’adorazione sessuale, e tende al piacere della femmina. […] La violenza è nient’altro che una voglia insana e demoniaca di calpestare il proprio simile, un altro essere umano, umiliare, mortificare, e non c’è quasi mai desiderio, non c’è quasi mai piacere. Noi abbiamo fatto il processo del Circeo, e che abbiamo scopato [sic]? Lì c’è una violenza sessuale chiarissima, l’ho ammesso allora e lo riammetto adesso, c’era l’impotenza, c’era l’impotenza dei violentatori.
Il primo lapsus dell’avvocato bada alla salute: teme che il cunnilingus finisca in ictus. Nel secondo, scopato per scoperto, meglio che in qualsiasi ragionamento, si coglie il processo come continuazione dello stupro con altri mezzi.
La magistratura se la cavò un po’ meglio. Eppure, l’esordio del presidente all’ingresso della vittima è questo: «Come vedete non siete sola, siete qui, siamo tutti padri di famiglia». Si apprezza per intero la bruttura della sortita se si considera che non solo gli imputati, ma anche i giudici e il pubblico ministero erano tutti uomini e per lo più sposati (come oggi Strauss-Kahn). Poi, un imputato dice che Fiorella lo sta rovinando, lei ribatte di essere stata rovinata, e il presidente si crede spiritoso: «Diamo atto di questo scambio di rovine». Ma per lei la rovina è lo stupro, e per l’imputato la rovina è la giustizia penale. Considerandoli scambiabili, il presidente avalla l’idea del processo come continuazione della violenza.
Nel processo di Latina brillò invece un’avvocata e militante femminista, Tina Lagostena Bassi. In anni più recenti il femminismo, sradicato dal contesto politico in cui si batteva, è immiserito e degradato a chiasso e lacerazione, e l’avvocata diventa una parlamentare della destra. Ma una frase della sua arringa va citata: «Perché ci si permette di fare un processo alla ragazza? E questa è una prassi costante: il processo alla donna, la vera imputata è la donna»